Mentre già si stanno organizzando per l'anno prossimo i preparativi per il ventesimo anniversario del G8 di Genova(madn carlo-vive )quest'anno vista anche la situazione emergenziale si è parlato il più delle volte a sproposito e diffondendo odio e veleno verso i manifestanti sui social e marginalmente nei telegiornali e sulla carta stampata.
Nei due articoli proposti(contropiano 20-anni-dopo-cosa-imparare-dalla-sconfitta-al-g8-di-genova e comune-info.net/la-lotta-di-genova-non-finisce/ )ci sono riflessioni e spunti sulla politica e la società che non è cambiata molto da quegli anni,già si era sul tracollo economico ora sempre più accentuato con una divisione tra il ricco e il povero sempre più alta,le diseguaglianze sono aumentate e le risposte non arrivano.
E allora bisogna prendersele queste risposte,bisogna fare in modo che il cambiamento reale avvenga anche con mezzi poco o meno democratici,ma non peggio di quelli che ci stanno propinando da decenni perché oggi come allora(e anche prima)la polizia è pronta a spararti addosso,soffocare e reprimere qualsiasi atto di ribellione e di lotta.
Ci si domanda se siano state una sconfitta le giornate caldissime di quel luglio 2001,e come al solito non c'è una risposta assolutamente negativa o positiva,quel che è certo è il fatto che i manifestanti avessero ragione sulla globalizzazione e sul sistema capitalista sempre più spinto e spietato,con miliardi di persone a fare la fame mentre una sempre più ristretta élite si gode il frutto delle proprie carneficine,speculazioni e impoverimento delle risorse ambientali ed umane.
20 anni dopo: cosa imparare dalla sconfitta al G8 di Genova.
di Turi Palidda - Heidi Giuliani
Sui fatti del G8 di Genova sono stati scritti alcuni libri e tanti articoli oltre alla realizzazione di documentari e film. Una parte di questa letteratura e documentazione video-fotografica appare alquanto discutibile, un’altra parte resta imbrigliata in una quasi nostalgia piuttosto sconveniente e infine una parte resta documento d’archivio (fra i quali quelli del Geno Legal Forum e del Comitato Carlo Giuliani[1]).
Ciò che sembra mancare è una chiara analisi critica di quei fatti, delle loro interpretazioni ideologizzanti o mitizzanti, insomma una decostruzione degli errori di diverse componenti del cosiddetto movimento dei movimenti e anche delle loro conseguenze negative su quanto avvenuto dopo. In questo testo propongo quindi un contributo sintetico (rinvio a questi testi citati in nota[2]) per districarsi dalla palude di tanti luoghi comuni e per cercare di capire cosa imparare da questi fatti e anche del dopo e in quale prospettiva praticabile, cosa che si dovrebbe fare prima e durante i giorni a Genova nel 20 anniversario.
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Il movimento contro il G8 di Genova fu sconfitto innanzitutto dalla violenza sfrenata di un dispositivo militare-poliziesco approntato e aizzato appositamente. Carlo Giuliani fu ucciso e centinaia di manifestanti furono massacrati e in parte torturati. Ciononostante ci sono ancora persone che come allora asseriscono che fu una vittoria, tesi sconcertante che è un insulto alle vittime e anche alla necessità di capire le ragioni quella sconfitta.
La prima di queste ragioni è che le diverse componenti del movimento (e molti di noi fra questi) non capirono cos’era (e cos’è) il liberismo globalizzato, ossia la strategia e la tattica dei dominanti che esclude concessioni a chi protesta contro il loro operato, mira all’erosione e persino allo stroncamento anche brutale dell’agire collettivo e per questo fa ricorso a ogni mezzo e modalità. In altre parole, non si era ancora compreso che si aveva a che fare con una controparte che considera il movimento come nemico alla stregua del confronto militare e quindi s’è dotato di un dispositivo poliziesco-militare pronto al ricorso a ogni brutalità. Eppure le informazioni per capire questa deriva militare-poliziesca erano note sin dal lancio della Revolution in Military Affairs (RMA) del periodo di Reagan oltre che con la escalation mediatica che mirava a dissuadere la partecipazione al movimento contro tale G8 a Genova. Inoltre la conversione liberista della sinistra tradizionale era già compiuta in Italia sin dal governo D’Alema, la guerra contro la Serbia e l’istituzione dei Carabinieri come 4a forza armata[3].
L’illusione assai ingenua di poter penetrare pacificamente simbolicamente nella zona rossa in base a un presunto patto fra il leader delle tute bianche e la Digos di Padova si rivelò catastrofica. Come mostra anche in modo inequivocabile il video “OP Genova 2001 – L’Ordine Pubblico durante il G8” i Carabinieri attaccarono in maniera deliberata e brutale il corteo prima che arrivasse a Brignole, ignorando persino gli ordini del commissario di polizia con la fascia tricolore. L’obiettivo stabilito innanzitutto dal Pentagono era di dare una durissima lezione ai manifestanti anche a quelli ultra-pacifici per stroncare un movimento anti-liberista che dopo Seattle rischiava di dilagare su scala planetaria. Per i dominanti (G8, lobby e multinazionali) la messa in discussione dei loro scopi era ed è inammissibile e da distruggere con ogni mezzo. Tutto il movimento era destinato ad essere trattato come un nemico in guerra. E non a caso il dispositivo e le modalità operative militari in particolare dei Carabinieri e della Guardia di finanza nonché dei servizi segreti stranieri e italiani mirarono al massacro passando anche per le torture. Si pensi peraltro alla presenza del battaglione Tuscania, già sperimentato in Somalia[4]. Da notare che gli stessi black bloc stranieri (pochi forse solo trecento) decisero di abbandonare il campo probabilmente perché compresero di trovarsi in un frame del tutto sfavorevole in quanto prevaleva il gioco del disordine voluto dal dispositivo e dall’azione di CC e GdF, servizi segreti e infiltrati. Dopo la giornata del 21 i vertici della polizia credettero di riscattarsi dalle accuse di non aver saputo frenare il “caos” puntando a “fare più prigionieri possibile” sia con arresti persino a caso e persino di minorenni e ultra pacifici e soprattutto con il blitz alla Diaz[5], una sorta di “macelleria messicana” rivelatrice della scelta della gestione ultra brutale di una polizia italiana peraltro maldestra (rivelatrici le testimonianze di Andreassi e Micalizzi). Quella notte davanti alla Diaz eravamo in pochi ma c’erano anche tanti giornalisti e parlamentari e chiedevano di entrare o di parlare con dirigenti della polizia proprio mentre era in atto il massacro che abbiamo cominciato a immaginare solo quando abbiamo visto uscire barelle con persone che perdevano sangue … Non è stato fatto, ma forse da un preciso bilancio dei danni si potrebbe constatare che quelli prodotti dalle forze di polizia sono stati maggiori di quelli dovuti alla resistenza dei manifestanti e a qualche episodio -marginale- di “saccheggio” di negozi (fra l’altro la maggioranza dei mezzi danneggiati della polizia e dei CC era innanzitutto opera di loro stessi che avevano persino rischiato di scacciare sotto le ruote i manifestanti).
Sin dal momento dell’attacco dei Carabinieri al corteo pacifico delle tute bianche si creò uno sbandamento generale e i manifestanti si mossero a caso senza sapere dove andare e come proteggersi. Come sempre in questi casi quelli che non avevano alcuna esperienza hanno avuto la peggio (e ciò anche fra qualcuno delle forze di polizia).
La sconfitta fu ancora più tremenda perché dopo il 21 non vi fu più alcuna capacità di reazione collettiva; come d’improvviso il movimento si estinse e si disperse a curare le ferite e fare il lutto.
Dopo la mazzata pesantissima del 20-21 luglio arrivò la reazione dell’amministrazione USA all’attentato dell’11 settembre. Ossia il conclamato continuum fra guerre permanenti su scala planetaria e guerre sicuritarie all’interno di ogni paese. La guerra al terrorismo quindi si generalizzò sino a colpire anche le proteste locali contro grandi opere tacciandole di terrorismo (vedi TAV e non solo).
Ma le ragioni che riproducono le resistenze al liberismo globalizzato sono molteplici e diffuse dappertutto anche se non riescono a conquistare i sindacati e quantomeno una buona parte della sinistra storica (che si uniscono alle destre per invocare grandi opere e la sacralità della crescita economica uber alles).
La sconfitta di Genova non ha impedito il rispuntare di tanti momenti di rivolta, di resistenza, di lotta contro le diverse conseguenze del trionfo liberista. Ma di nuovo questi momenti passano e si estinguono tranne quelli circoscritti a un preciso contesto (vedi per esempio il caso dei NOTAV o quello dei nativi in Amazzonia o in Patagonia e altrove proprio perché sono resistenze per la sopravvivenza come innanzitutto fu la resistenza al fascismo e al nazismo che durò 20 anni ma ebbe un grande dispiegamento solo negli ultimi anni).
Il movimentismo e il suo “presentismo” ha la logica di inseguire ogni rivolta con l’illusione di incasellarla nel “movimento dei movimenti” ma questa è una sorta di ideologizzazione del movimento.
La mobilitazione di Genova ebbe il grande merito di agitare svariate questioni cruciali: non solo le conseguenze delle diseguaglianze economiche, sociali, sanitarie ma anche i rischi ecologici e le tragedie delle guerre. Ma mancò la comprensione che tutti i disastri sanitari, ambientali, economici e politici (fra i quali le economie sommerse e le neoschiavitù), sono tutti insieme il risultato dell’azione delle lobby e delle multinazionali su scala locale e su scala globale. Sono i disastri che non solo provocano emigrazioni disperate ma anche ogni anno quasi 60 milioni di morti. Disastri ignorati come se si trattasse di disgrazie casuali, sfortuna di chi muore di cancro o altre malattie che invece sono quasi sempre dovute a contaminazioni tossiche, a disastri ambientali, a condizioni di lavoro e di vita insostenibili. Si tratta insomma di ciò che Frederic Gros invita a capire come l’emergenza della teoria dei “disastri umanitari” e quindi della “sicurezza umanitaria” (in opposizione anzi in antitesi all’accezione sicuritaria militare-poliziesca che non a caso ignora tali disastri a sprezzo della protezione della vita animale e vegetale e quindi dell’ecosistema). Appare allora chiaro che non si tratta solo degli argomenti agitati durante Occupy Wall Street o l’analogo movimento degli Indignados in Spagna, né solo del sorprendente “movimento” dei giovanissimi contro il cambiamento climatico. Si tratta invece delle innumerevoli resistenze a ogni singola ingiustizia, sopruso e crimine contro l’umanità da parte dei dominanti come per esempio è oggi il Black Lives Matter e l’analogo movimento antirazzista in Francia, movimenti che hanno alle spalle le sconfitte di mobilitazioni precedenti sin dagli anni ’60 poi ’80 e poi ancora dopo e che sono spinti non da una sola motivazione ma da tante assieme.
Questo è il campo che alcuni militanti che ancora hanno nostalgia di Genoa 2001 non hanno ancora capito trascinandosi invece nell’inseguimento di una sorta di riedizione di Genova2001. Così come ancora si stenta a capire che il liberismo tende sempre più a scegliere la tanatopolitica (il lasciar morire) anziché la biopolitica del lasciar vivere. E’ questa la reazione dei dominanti al loro terrore rispetto a ciò che pensano sia un aumento incontrollato della popolazione mondiale che si sovrapporrebbe al cambiamento climatico e genererebbe migrazioni aggressive, invasioni di orde fameliche che devasterebbero i paesi ricchi[6]. A questo dovrebbero riflettere i militanti antiliberisti comprendendo così che il quasi genocidio dei migranti non è casuale ma allo stesso tempo non esclude la schiavizzazione di alcuni per un tempo determinato come usa-e-getta. Una tanatopolitica che è quella della devastazione dei paesi detti terzi così come preconizzava lo stesso Summers. Il liberismo globalizzato è distruzione e necropolitica. Sono le resistenze dei nativi dei territori devastati o quelle della popolazione tunisina contro la fabbrica di fosfati di Gabès o anche la lotta dei lavoratori portuali del CALP di Genova contro le navi saudite che trasportano armamenti contro gli Yemeniti, sono queste le lotte e le resistenze che saranno il futuro che conterà.
Il dopo fatti del G8 di Genova serve non per mettere un generico, inutile cappello alle lotte che si sono succedute da allora, né per reiterare la lettura ideologica dei movimenti, ma semmai per capire non solo gli errori e le illusioni tragiche di quel momento ma per rinnovare veramente l’impegno intellettuale e militante nelle nuove resistenze che si rinnovano e che hanno molteplici facce, molteplici modalità di agire collettivo che ingloba appunto molteplici componenti senza antitesi né pretesa di supremazia degli uni sugli altri, dei più radicali e dei più “pacifici”. E sta qua la ricerca di alternative attraverso la comprensione del valore del lavoro di cura e della stessa riproduzione della vita e dell’umanità in genere e quindi il rilancio di una cooperazione effettivamente antitetica alla logica del profitto, cioè di produttori e consumatori, a fianco del mutuo soccorso e infine del comune (vedi vari articoli su effimera.org).
Oggi la minaccia sta nel sovranismo e nel populismo che non sono affatto né vero sovranismo, perché è fedele agli interessi delle lobby e multinazionali e delle potenze mondiali credendo di poter scegliere il miglior alleato dominante … e non è populismo perché ignora lo stesso diritto alla vita degli stessi elettori poiché vittime di disastri sanitari e ambientali; il sovranismo-populista difende il furore di arricchirsi padroni e padroncini sulla pelle dei lavoratori[7].
Lungi dall’essere di fronte al collasso del capitalismo, il dopo pandemia tende a condurre a una situazione peggiore di quella precedente. Occorre uno sguardo scettico/critico salutare per capire l’attuale congiuntura e come resistere, resistere, resistere!
Il successo della mobilitazione antirazzista negli Stati Uniti ma anche in Francia indicano che occorre promuovere convergenze fra le molteplici ragioni delle singole resistenze. E’ possibile la convergenza nel reclamare non solo il definanziamento delle polizie e la protezione antirazzista e l’azzeramento delle spese militari, ma anche la destinazione di risorse alle politiche sociali contro precarietà e supersfruttamento.
Il 21 luglio si terrà al CAP alle 17,30 una riunione per la preparazione del 20° anniversario dei fatti del G8, promossa dal Comitato Carlo Giuliani e da diversi compagni anche di altre città.
Turi Palidda con la collaborazione. di Haidi Giuliani
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La lotta di Genova non finisce.
di Lorenzo Guadagnucci
21 Luglio 2020
Al G8 del luglio 2001 la polizia tornò a sparare in piazza, la tortura fu praticata su larga scala, le garanzie costituzionali furono sospese. Ma quel patrimonio di lotte non si dimentica. E continua. «Lavora- consuma-crepa», quello slogan dei movimenti, beffardo, svela che in realtà sta crepando un modello di società. La storia non è finita, ma si deve rompere la congiura del silenzio
Genova, via Cadorna, 17 luglio 2001. Dimostrante ad una manifestazione per la cancellazione del debito organizzata da Attac.
In questo smemorato e superficiale paese, il ricordo – la lezione – del G8 di Genova del 2001 non fa parte del discorso pubblico. Non se ne parla, non se ne discute.
Eppure, nella calda estate di 19 anni fa si consumò un’esperienza politica dalle molte facce, che dice ancora molto, moltissimo del nostro presente e del nostro futuro.
Nel luglio 2001 fu interrotta sul nascere un’esperienza nuova, originale, promettente: un movimento di movimenti che criticava con competenza e su scala globale il modello neoliberale.
Era la prima, importante critica alla globalizzazione economica dilagante. Pur di stroncare quell’esperienza che cresceva fra le persone e attraversava le frontiere, fu accantonato lo stato di diritto.
A Genova le forze di polizia tornarono a sparare in piazza e un carabiniere uccise un ragazzo disarmato, Carlo Giuliani; la tortura fu praticata su larga scala (leggi la sentenza della Corte di Strasburgo sulle torture alla Diaz) e per più giorni; le garanzie costituzionali e l’habeas corpus furono sospesi.
Fu un’apparente vittoria dei poteri costituiti, ma in realtà una caporetto della politica istituzionale, un drammatico punto di caduta delle democrazie occidentali, che in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti non ascoltarono le critiche e anzi le criminalizzarono, prima di annegarle nel sangue.
Stiamo ancora pagando quel tragico errore. Il collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da coronavirus – effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale – dimostrano quanto abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta.
Di pensieri nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dall’ottuso perimetro disegnato dall’ideologia neoliberale con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato, deregulation, meritocrazia, traducibili nel beffardo e amaro controslogan «lavora- consuma-crepa».
Stiamo davvero crepando. Crepano gli «scarti» della storia, i profughi di guerra e i rifugiati ambientali, crepano gli esclusi dal banchetto allestito dai finanzieri e dai tecnocrati del neoliberismo tuttora dominante, crepano anche gli sfortunati – perfino nel primo mondo – colti dal contagio e poco o mal curati da sistemi sanitari svuotati e privatizzati.
In realtà sta crepando un modello di società, e tutti o quasi tutti lo sappiamo, ma è in atto un tentativo di rianimazione. I poteri forti, cioè i poteri reali, non intendono cedere alcunché: vogliono che tutto continui come sempre e che ogni crisi sia superata.
Anche al prezzo di contraddire i propri dogmi: salvando le banche private con fiumi di denaro pubblico nel 2008, eliminando vincoli di bilancio e ogni altro impaccio al tempo della pandemia, pur di ricominciare come prima più di prima, quindi più consumi, più viaggi, più crescita, più disuguaglianze, più scarti della storia e al diavolo il clima, i virus, la cura della vita sul pianeta. Destra e (ex) sinistra sul punto sono concordi.
Perciò non si parla, non si discute, non si ricorda il G8 di Genova. Perché in quel tempo, a cavallo del millennio, il modello neoliberale fu messo finalmente a nudo e milioni di persone, attraverso i continenti, scesero in piazza per dire che un altro mondo era possibile.
Cominciarono anche a praticarlo, a sperimentarlo, quel mondo, e a proporre soluzioni concrete, perché non erano – non eravamo – degli ingenui sognatori, e tanto meno degli sciocchi teppisti, come si tentò di far intendere.
A Genova nel 2001 per giorni nei seminari e negli incontri pubblici si parlò della crisi del debito pubblico e dei possibili rimedi, di una tassa sulle speculazioni finanziarie, dello strapotere di una «troika» al tempo sconosciuta (Banca mondiale – Fondo monetario internazionale – Organizzazione mondiale per il commercio), di sovranità alimentare e agricoltura contadina, di diritto d’espatrio e di migrazioni, di guerre incombenti, dell’acqua come bene comune e di esclusione dei brevetti dai farmaci essenziali per affrontare le malattie epidemiche.
Questo patrimonio di esperienze e di idee è ancora a disposizione. Nuovi movimenti potranno – dovranno – farne tesoro, rompendo la congiura del silenzio che le classi dirigenti stanno calando, più ottuse e violente che mai, sul pensiero divergente.
La storia non è finita, tutto deve cambiare e quindi tutto dobbiamo ricordare, anche come è andata a finire: con le democrazie che mettono da parte costituzioni e libertà civili.
Il resto, cioè tutto, è lotta politica da condurre sul piano delle idee e facendo tesoro di quanto imparato in questi anni: la forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti, la generosità delle persone.
La memoria, diceva uno slogan in voga negli anni seguenti il G8 genovese, è un ingranaggio collettivo. Oggi possiamo aggiungere: e una risorsa preziosa.
* Comitato Verità e Giustizia per Genova
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