giovedì 16 marzo 2017

LA NOTTE NERA DI MILANO

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Arriva metà marzo e i compagni antifascisti di Milano e italiani pensano subito a Dax,un amico,un compagno,un figlio e un padre,assassinato in maniera vile e violenta,premeditata e lucidamente folle:la notte del 16 marzo del 2003 verrà ricordata come la notte nera di Milano.
Dove in una sera si è passati da una serata tranquilla in un pub dei navigli ad un'esecuzione da parte di tre fascisti,due fratelli e loro padre,dai primi soccorsi ritardati dalle forze del disordine alla loro diretta complicità in quello che è poi accaduto all'ospedale San Paolo.
Una notte tremenda dove si è per l'appunto perso in una maniera inimmaginabile una persona cara a molti,lasciando una figlia e una madre inossidabile,amici fraterni e conoscenti che ne hanno sempre apprezzato le qualità.
Nell'articolo sottostante preso da Senza Soste(dax-odia-ancora )si presenta uno scenario completo e chiaro su chi era Davide,su quello accaduto in Via Brioschi e su ciò che successe in quella notte amara che ci ricorda ancora oggi a distanza di quattordici anni che senza memoria non c'è futuro.


Dax odia ancora: 16 marzo 2003, la notte nera di Milano.

Sul camion anche tredici ore al giorno ma – a fine turno – una bellissima bambina oppure, amica da sempre, il posto dove tutto è cominciato: la strada.
Bisogna partire da qui per parlare della vita di Davide Cesare “Dax”: ventiseienne della provincia milanese, autista per conto della Trezzi Tubi di Vimodrone e militante dell’Officina di Resistenza Sociale (Orso) di via Gola, a Milano. Bisogna partire dalle sue spalle larghe, dal suo fisico robusto e da un volto che ispira amicizia e simpatia, lasciando trasparire la sua passione, la sua disponibilità, le sue idee sul mondo e il suo modo di respirare i problemi per impegnarsi a trovare soluzioni concrete e immediate. Perché se la bellezza, come si dice sempre, «è negli occhi di chi guarda», allora gli occhi di Dax sono meravigliosi sul serio. Perché là dove molti altri vedono la diversità e gridano al pericolo, gli occhi di Dax vedono la ricchezza e portano la solidarietà. Dove molti altri vedono il disagio e si girano dall’altra parte, gli occhi di Dax vedono la possibilità di un cambiamento radicale e stringono rapporti di amicizia. Dove molti altri vedono l’esclusione e, spaventati dalla loro stessa cattiva coscienza, auspicano la repressione, gli occhi di Dax vedono la violazione di un diritto e invitano alla lotta.
Ecco, questo è Dax: questo è ciò che comunicano i suoi occhi. Un modo di guardare alle cose e alle persone forse oggi più raro di un tempo ma tutt’altro che estinto. Lo dimostrano le migliaia di scritte che hanno ricoperto Milano con il nome di Dax, gli striscioni pronti a sfidare il vento nei cortei che hanno urlato «Dax è vivo » in tutta Italia, e persino i tanti compagni che, dopo quello che è successo in una notte di marzo in zona Navigli, la parola «Dax» se la sono fatta tatuare sulla braccia, magari insieme all’antico simbolo utilizzato dai lavoratori inglesi e oggi adottato dagli skin anarchici e comunisti: due martelli incrociati; incisi sulla pelle insieme a una data – 16 marzo 2003 – che nessuno ha voglia di dimenticare.

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La sera del 16 marzo del 2003, Dax è a spasso per i Navigli, forse il luogo che esprime le contraddizioni più paradossali di Milano. Nato come insediamento popolare, con le case di ringhiera, le sedi di tutte le organizzazioni di sinistra possibili e immaginabili e i palazzi costruiti dal comune, i Navigli, a partire dagli anni Ottanta, finiscono per attrarre gli interessi di una speculazione immobiliare decisa a sfruttare la centralità della zona per consegnarla, previo lauto guadagno, al finto-rustico delle trattorie dai prezzi proibitivi, al design dei locali fichetti e alla voglia di abitare in una località “pittoresca” che spinge i rampanti yuppies milanesi a sborsare centinaia di milioni per un bilocale.
Malgrado tutto, però, la zona Navigli-Ticinese resiste, tant’è che sono moltissimi, tra via Gola, via Palmieri e via Barrilli, gli appartamenti sfitti occupati da persone – giovani coppie, immigrati, lavoratori precari – altrimenti esclusi da ogni possibilità di abitare Milano.
Dax, insieme ai compagni dell’Orso, al network del sindacato inquilini e alle altre realtà dell’antagonismo milanese, è in prima fila quando si tratta di evitare gli sgombri o di opporsi alla privatizzazioni delle case dell’Aler. Grazie a questo acquista una visibilità che, se per molti si traduce in amore, per qualcun altro diventa una colpa da fargli pagare cara.
L’occasione, la sera del 16 marzo, si presenta poco prima della mezzanotte. Insieme ad alcuni amici, Dax va a prendere una birra al Tipota, il piccolo pub graffitato da Atomo e Schwarz e gestito da Emiliano “il Rosso”: un ritrovo abituale per tutta la sinistra che gravita nella zona Navigli-Ticinese. Fuori dal locale, mentre Dax esce dopo aver consumato, transitano i fratelli bonehead Federico e Mattia Morbi (rispettivamente di 28 e 17 anni) con il loro rottweiler, chiamato “Rommel” in onore dell’omonimo generale nazista.
Ai due ragazzi si aggiunge presto il padre, il signor Giorgio Morbi, in un momento in cui l’incontro non ha lasciato nessuno spazio alle parole. I Morbi, infatti, si sono scagliati contro Dax e i ragazzi che sono con lui con una furia allucinata e omicida.
Chi aggredisce Dax non si limita a usare le mani. Ma colpisce lo skin in tutto il corpo con una decina di coltellate, vibrando il fendente decisivo alla gola.

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Anche Fabietto e Alex, due amici di Dax, vengono feriti in modo serio: Alex, in modo particolare, rischia di morire con un polmone bucato. A salvarlo non è certo la celerità dei soccorsi. Al contrario, con Dax agonizzante sul marciapiede e Alex che dopo un po’ non può più nemmeno parlare, qualcuno riesce a fare un giro di telefonate e a chiamare le ambulanze insieme agli amici dei ragazzi accoltellati. I militanti dell’orso rintracciati in zona arrivano subito, la croce rossa, invece, è preceduta dai carabinieri e dalla polizia:
Sul posto c’è già la polizia: all’incrocio tra via Brioschi e via Zamenhof ci sono almeno tre macchine della polizia in mezzo a due vie. Vedo Alex accovacciato sul gradino del pub “Tipota”, mi chino su di lui e mi dice: «Sto bene, guarda Dax…».
Dax è per terra vicino al marciapiede dell’incrocio, il corpo immobile disteso su un fianco e immerso in una pozza di sangue. Mi avvicino un poco, lo vedo, ma non riesco a guardarlo bene c’è troppo tempo. Cerchiamo di capire cos’ successo.
«Sono stati i fascisti».
«Li hanno aspettati… un agguato».
C’è molta confusione, telefono a più non posso dicendo a tutti di accorrere; i compagni e le compagne arrivano, le ambulanze no.
«Le ambulanze! Le ambulanze!».
Corrono i minuti e la presenza della polizia continua ad aumentare, una macchina dei carabinieri si è fermata ostruendo un altro accesso da via Brioschi.
«Spostate le macchine!»
«Assassini!»
«Dovete far arrivare le ambulanze e togliere quelle cazzo di macchine».
Le forze dell’ordine ci guardano con indifferenza, fanno più o meno finta di non sentire. […] Passa un tempo atroce: il traffico intasato, i compagni increduli, la gente intorno che guarda. Quando arriva la prima ambulanza, gli infermieri vanno subito su Dax; comincio a guardarlo: lo girano ha gli occhi aperti e fermi, ma è tutto troppo insanguinato e non capisco. […] Mentre caricano Dax sull’ambulanza, gli diciamo di portare via anche Alex che sta male e ormai privo di sensi anche lui; lo lasciano lì e devono passare altri dieci atroci minuti prima che arrivi la seconda ambulanza […]. Mentre stiamo cercando di capire a quali ospedali fossero diretti i compagni feriti, una camionetta di celere sopraggiunge da via Zamenhof: scendono i poliziotti, alcuni con casco e manganello in mano, pronti a caricare. Avanzano verso di noi che gli andiamo incontro urlando di andarsene. Il plotone risale sulla camionetta e se ne va: una provocazione… un avvertimento… (questa e le altre testimonianze dei compagni di Dax citate nel testo sono contenute in Resisto, un dossier dedicato ai fatti del 16 marzo 2003 consultabile on-line attraverso il sito http://www.daxresiste.org/archivio/).
L’intervento delle forze dell’ordine, in buona sostanza, ostacola il pronto intervento dei soccorsi. Ma è proprio una volta arrivati all’ospedale San Paolo che la notte si avvia verso un epilogo ancora più tragico di quanto si possa immaginare. È al San Paolo, infatti, che gli amici di Dax, fino a quel momento ancora all’oscuro delle reali condizioni in cui versa il compagno, apprendono una notizia atroce: il militante dell’Orso non è arrivato vivo in ospedale.
Ma morire a ventisei anni in una tranquilla serata di marzo non è una notizia che può essere accettata. Tra la ventina di amici di Dax presenti, l’incredulità si mescola all’indignazione: quello che è successo non può essere vero, tutti vogliono sperare ancora o almeno entrare per capire meglio cosa sta succedendo non solo a Davide Cesare ma anche agli altri ragazzi ricoverati.
Dai Navigli, al seguito del corpo di Dax, anche i carabinieri e la polizia si spostano all’ospedale. Loro, il dolore di quei ragazzi, non sanno neppure cosa significhi: evidentemente scambiano quel piccolo drappello di giovani affranti con un’“adunata sediziosa” e iniziano a caricare. Quelle che seguono sono le stesse scene da macelleria messicana già andate in scena a Genova durante l’irruzione alla scuola Diaz: pestaggi indiscriminati con un lago di sangue che viene versato in un luogo dove la gente si dovrebbe curare e non certo picchiare.
Anche i sanitari del San Paolo, al cospetto di tanta furia, fanno quello che possono e salvano più di qualche ragazzo dalla reazione della polizia che insegue gli amici di Dax anche in corsia, impegnandosi in una caccia all’uomo reparto per reparto. A chi viene preso vengono spezzati i denti, incrinate le costole e spaccata la faccia con i metodi usuali:
Eravamo sconvolti per la morte del nostro amico ed è iniziata una discussione con i poliziotti presenti, che hanno iniziato ad insultarci, provocandoci. È partita una piccola carica… In quel momento sono sopraggiunte altre persone che volevano entrare nell’ospedale ma vedevo che venivano fermate a manganellate. Io ed altri siamo corsi per vedere cosa succedeva e a quel punto ci hanno caricato e rincorso per il vialetto del pronto soccorso, colpendoci alle spalle.
Sono stato colpito violentemente in faccia con una manganellata, che mi ha causato una ferita all’arcata sopracciliare, dalla quale perdevo copiosamente sangue. Mi sono rifugiato nell’atrio pensando che fossero terminate le cariche ed aspettando che mi medicassero la ferita. Dopo poco sono entrati invece dieci/quindici poliziotti che mi hanno preso di peso e buttato letteralmente fuori dal pronto soccorso, gettandomi a terra, iniziando a manganellarmi e a darmi calci in faccia con una violenza spaventosa.
Sono finito a terra, ho sentito arrivarmi un calcio nelle reni, una manganellata sulla testa e diverse altre sulle ginocchia, poi mi hanno ammanettato. Sono stato condotto verso la macchina della polizia e mentre mi facevano salire sono stato colpito con un calcio in faccia da un poliziotto […]. Dall’interno vedevamo alcuni poliziotti che spingevano indietro i carabinieri più invasati, cercando inutilmente di placarli. Uno di questi carabinieri urlava: «Andiamo ad ammazzarli tutti questi bastardi comunisti!».
Fra gli uomini in divisa ricordo che ce n’era uno in borghese, giovane, con un maglione blu che saprei riconoscere, che mi ha colpito sul collo con un tubo.
Mi sono trovato con la pancia a terra, si sono messi intorno, erano cinque o sei persone, credo fossero della Celere, mi hanno dato una violentissima manganellata sulla testa (per tale colpo di hanno dato sei punti), altri mi davano ripetuti calci in bocca. A causa di questi colpi ho avuto la rottura di quattro denti, altri sei o sette si sono piegati all’indietro, mi hanno anche applicato sei punti all’interno della bocca e due sulle labbra. Non contenti qualcuno mi colpiva ripetutamente con calci sullo sterno (ho tre costole incrinate), urlavano: «Ti spacchiamo la faccia, zecca» (Estratti dalle querele presentate dai compagni di Davide Cesare contro le forze dell’ordine).

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All’indomani dei brutali e immotivati pestaggi avvenuti dentro e fuori il San Paolo, di fronte alle denunce non solo dei ragazzi sfigurati, ma anche degli stessi medici e infermieri del pronto soccorso, il comportamento della Questura è a dir poco surreale. Secondo una fonte ufficiale, infatti, l’intervento violento delle forze di polizia si è reso necessario per scongiurare le “vera” volontà degli amici di Dax: trafugare il cadavere dell’amico assassinato!
«I nostri uomini hanno dovuto contenere una massa di giovani esagitati» e «abbiamo agito per tutelare l’ordine pubblico» diventano le algide spiegazioni che i diretti interessanti forniscono alla stampa che, per lo più, si appiattisce su questa spiegazione senza mettere in discussione la parola di chi porta la divisa. Qualcuno, ancora più subdolamente, si spinge a dire: «Se quelli del centro sociale hanno le prove le tirino fuori».
Per una curiosa “fatalità” le telecamere che dovrebbero riprendere ventiquattro ore su ventiquattro quello che succede nell’ospedale, la notte del 16 avevano subito un “guasto” improvviso… le paventate prove, però, saltano fuori lo stesso: a sorpresa un cineamatore, posizionato su una terrazza con vista sul giardino del San Paolo, riprende ogni minuto di quello che succede, evidenziando il furioso linciaggio a cui è sottoposto uno dei ragazzi presenti all’ospedale.
Le riprese dovrebbero provocare indignazione e imbarazzo quando, grazie al filmato e all’iniziativa di due esponenti di Rifondazione comunista, il pestaggio del San Paolo arriva in Parlamento… il ministro Carlo Giovanardi, invece, fa finta di niente e, in tutta tranquillità, dichiara: «Non emergono comportamenti censurabili del personale delle forze dell’ordine».
Le dichiarazione del ministro fanno venire i brividi: negano l’evidenza, ma di sicuro non giungono inaspettate. Al contrario, l’opinione di Giovanardi è in linea al modo in cui i giornali, nella grande maggioranza dei casi, si sforzano di far passare l’omicidio di Dax come diretta conseguenza di «una rissa tra punk»: una modo di negare la matrice politica del delitto che, tre anni dopo, darà il meglio di sé quando si tratterà di affrontare la morte di Renato Biagetti, un altro ragazzo dei centri sociali assassinato dai fascisti a coltellate.
Anche i responsabili della morte di Dax, probabilmente, ascoltano le parole di Carlo Giovanardi. Condotti in tribunale, i Morbi fanno proprie le posizioni del ministro e della stampa, prima cercando di utilizzare gli ininfluenti precedenti penali delle vittime (reati di resistenza a pubblico ufficiale commessi durante le occupazioni delle case o a fronte della propria militanza politica), poi appellandosi alla legittima difesa e attribuendo ai ragazzi dell’Orso il possesso di pericolosi tirapugni (fatto smentito in maniera categorica da numerosi testimoni: Dax e i suoi amici non avevano nessun tipo di oggetto atto a offendere), e alla fine tentando di far passare la loro aggressione per una rissa giustificata da un presunto alterco avuto con Dax una settimana prima (come se fosse normale o giusto far seguire a un’eventuale discussione, per quanto accesa, un attacco squadrista condotto a colpi di coltello).
Il risultato è una condanna a 16 anni e otto mesi di reclusione pronunciata contro Federico Morbi mentre suo padre e suo fratello Mattia, che in virtù della minore età se la cava con l’affidamento in prova ai servizi sociali, subiscono pene di gran lunga minori.
Si tratta di un provvedimento quantomeno discutibile visto che, come ha dichiarato Rosa Piro, la madre di Dax:
Io ho assistito a tutto il processo; innanzitutto non è vero che Mattia non è implicato; del resto non ha mai negato di esserlo. Tra l’altro i due fratelli sostengono ognuno che tutto è avvenuto per difendere l’altro; tanto è vero che il pm gli ha risposto che sembra si siano «difesi un po’ troppo», visto che loro due non sono stati neppure sfiorati da un colpo, mentre dall’altra parte c’è scappato un morto e un ragazzo s’è salvato per miracolo. […] Mattia non ha mostrato il minimo cenno di pentimento, come pure gli altri due Morbi. […] Ricordo che quando il giudice gli ha chiesto come mai avesse optato per l’affido ai servizi sociali, ha risposto solo che «è sempre meglio del carcere» (intervista di Francesco “Baro” Barilli, www.ecomancina.com/dax.htm).
Fuori dal Tribunale, in ogni caso, la musica cambia completamente. C’è una bambina in una casa lontana dai luoghi in cui si muovono gli assassini di Dax che non fa altro che scarabbocchiare ritratti del papà su fogli da appendere alle pareti. Si chiama Jessica e, tutte le volte che sente una canzone di quelle che amava Dax, alza gli occhi verso il cielo e strilla: «Papà, te la dedico!».
Ci sono proprio quelle canzoni, il 22 marzo del 2003, a Rozzano. Per un’importante coincidenza del destino i funerali di Dax si svolgono lo stesso giorno in cui, un quarto di secolo prima, il Casoretto aveva pianto Fausto e Iaio, anche loro assassinati ai fascisti, anche loro “colpevoli” di militare in un centro sociale.
Ad accompagnare il ragazzo dell’Orso al cimitero, insieme a quattromila compagni, un camion dotato di amplificazione su cui, al gran completo, suona il gruppo preferito di Davide: la Banda Bassotti; salita apposta da Roma per salutare in Dax uno di quei Figli della stessa rabbia di cui parla un loro pezzo famoso. Una canzone contro «chi cammina sopra ai corpi violenta le culture cancella i ricordi» come recitano le parole scritte da Angelo “Sigaro” Conti per attaccare la trasformazione del razzismo e dell’esclusione sociale in valori dominanti. Per questo, dopo il 16 marzo del 2003, lo slogan «Dax odia ancora» è diventato il motto di chi, in memoria del giovane operaio assassinato, ha deciso di dedicare agli occhi di Davide la volontà di impegnarsi per cambiare al più presto questo modo stupido e violento di vivere e di pensare.

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