La storia di allenatore di Marcelo Bielsa detto "El loco" è fatta di aneddoti,vittorie e sconfitte,di rivoluzioni tattiche fatte d'intelligenza e di studio metodico del gioco più amato del mondo,che in certi ambienti ti fa apparire come una divinità in terra sia che si tratti di allenatore o giocatore.
L'articolo di Senza Soste(
speciale-bielsa )rimanda all'edizione cartacea con gli articoli di Tito Sommartino che ha analizzato l'allenatore di Rosario che tanto ha dato e che certamente darà in futuro a questo sport,dai suoi esordi in madrepatria fino alle esperienze nelle nazionali argentina e cilena fino all'approdo in Europa a Bilbao e Marsiglia,due piazze importanti al di là della tradizione calcistica.
Ed il suo rifiuto di passare ad inizio stagione alla Lazio,dettata più per la distanza dai suoi ideali e pensieri ben lontani da quello del popolo biancoazzurro che dalle dichiarazioni di Lotito che non avrebbe comprato giocatori da lui richiesti,è un altro tassello di una carriera che non lo ha visto trionfare come meriterebbe,sfiorando successi proprio alla fine forse per preparazione atletica non adeguata al suo modo di giocare fatto d'attacco e di pressing.
Un modo leggero di ricominciare il blog dopo una settimana di distacco quasi totale della spina e di tutto quello accaduto in Italia e nel mondo,ma questo farà parte di un post futuro.
Speciale Bielsa: “A lo loco se vive mejor”.
PERSONAGGI – (prima parte) Per molti suoi colleghi è il miglior allenatore al mondo contemporaneo malgrado non abbia vinto (quasi) nulla. Perché a renderlo grande e a proiettarlo di diritto nella Hall of Fame del calcio sono le sue idee tattiche, visionarie e rivoluzionarie. Fenomenologia di un futurista prestato al calcio: El Loco Marcelo Bielsa.
Se chiediamo ai migliori allenatori del pianeta chi sia il miglior collega degli ultimi 30 anni, almeno la metà non risponderà Guardiola, Mourinho o Ancelotti ma Marcelo Bielsa, uno che, parafrasando proprio Mourinho, in carriera ha vinto zero tituli o giù di lì. Ma nel calcio, così come nella scienza o nelle arti, i migliori spesso non sono quelli che raccolgono i maggiori successi, ma coloro che aprono una strada, che hanno l’intuizione rivoluzionaria: sono i Vittorio Pozzo col “Metodo”, gli Herbert Chapman col “Sistema” (o WM), i Gusztáv Sebes con l’evoluzione del WM in MM, i Rinus Michels col “Calcio totale”. Sono i visionari, quelli che spesso, illegittimamente, definiamo matti solo perché non allineati al pensiero comune. E non a caso Bielsa è proprio soprannominato El Loco, il matto.
Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna contrapposizione a Buenos Aires, sia dal punto vista culturale che artistico e calcistico, è la città dove sono nati il Che, Lucio Fontana, Lionel Messi ma anche Cesar Menotti, El Flaco. Già, Menotti, l’allenatore col mito di Michels che, oltre a vincere il Mondiale del ’78, rivoluzionò il calcio argentino col suo gioco divertente, spettacolare e profondamente offensivo. La perfetta antitesi di Carlos Bilardo, tecnico dell’Argentina ’86 campione del mondo e massimo esponente di quella che può essere definita la scuola argentina vecchio stampo, tutta difesa e grinta, gioco sporco e di rimessa.
Prima di Bielsa, in Argentina, quelli erano i due stili calcistici. O eri menottiano o bilardiano, non ne uscivi. Come quando in Italia correvano Coppi e Bartali. Se non stavi per l’uno stavi per l’altro.
L’osservatore
Dopo una breve e mediocre parentesi da calciatore, Bielsa capisce che la sua missione nel calcio è quella di insegnarlo. E lo fa sin dalle prime battute con maniacale dedizione. Di lui si raccontano miriadi di aneddoti, molti dei quali, se non veri, sicuramente verosimili. Uno dei più particolari riguarda la sua attività di talent-scout, propedeutica a quella di tecnico, per il Newell’s Old Boys, una delle due squadre di Rosario. Bielsa, figlio di giuristi che non vedevano di buon occhio la sua passione per il calcio giudicato un hobby per gente grezza (non gli rivolgeranno la parola per 10 anni), nel 1987 percorre 24mila km in tre mesi con una Fiat 147. Insieme al fido collaboratore Pekerman (anche lui in seguito tecnico della nazionale albiceleste) scova un cicciottello Batistuta, un timido Sensini e una notte, in piena notte, suona il campanello di una casa sperduta in una pampa che dà sul Paranà. Aprono la porta, atterriti e increduli, i genitori di Mauricio Pochettino, giovane di belle speranze che l’anno seguente, a 16 anni, debutterà da titolare in campionato nel Newell’s Old Boys di Bielsa.
La rivoluzione
Bielsa è solito leggere una dozzina di quotidiani al giorno. Qualcuno lo definirà un ergastolano studioso del pallone. Presto impara tutti i segreti tattici di Menotti e Bilardo e la sua intelligenza, unita ad una totale e maniacale dedizione, gli permette di sintetizzare nel proprio credo le principali massime dei due opposti del calcio argentino. Presto, in Argentina, gli stili calcistici diventano tre. Bielsa riesce a tradurre in campo, con risultati sensazionali, uno schema che fino ad allora sembrava inapplicabile, il 3-3-1-3, che permette rapidi contropiede e al tempo stesso una copertura del campo uniforme. Velocità, aggressività e ritmi forsennati sono le tre armi principali del gioco di Bielsa. Una linea difensiva fatta di tre centrali ravvicinati, con due marcatori e un libero vecchio stampo che sappia impostare l’azione da dietro, senza esterni bassi”; un centrocampo a tre impostato su un centrale basso che difenda i centrali e costruisca il gioco, poi due esterni che sfruttano il fraseggio stretto, gli inserimenti verticali negli spazi e ripiegano sulle ripartenze avversarie; l’enganche, cioè il trequartista, l’uomo sul quale ruota tutto, che deve avere cervello, fiato e tecnica, che crea gioco e collega i reparti in fase offensiva muovendosi continuamente tra le linee e dettando i passaggi; un tridente offensivo che deve rispondere ad una mobilità forsennata degli esterni, che devono tagliare attaccando gli spazi, farsi trovare sulle verticalizzazioni, allargare il campo e pressare fin dai primi metri il giro palla avversario, e un centravanti vero, meglio se fisicamente prestante, un finalizzatore dotato fisicamente e atleticamente.
Gli inizi
A Rosario si comincia a parlare di Bielsa per la sua strana consuetudine, ad un certo punto, di abbandonare il campo, arrampicarsi su un albero e guidare gli allenamenti da lì. “Lo faccio per vedere meglio i movimenti dei miei calciatori e poterli correggere in diretta”, spiega. È qui che prende il soprannome di El Loco, che, alla guida delle giovanili del Newell’s vince a mani basse ogni competizione giovanile. Sensini, Pochettino, Batistuta ma anche Heinze e Balbo sono alcuni dei frutti raccolti nei 24.000 km di pellegrinaggio calcistico. Bielsa viene lanciato in prima squadra nel 1990 e lui si porta dietro dieci ragazzi della cantera. Perché El Loco non ha bisogno di campioni ma di buoni giocatori che per lui, anzi, per le sue idee, siano disposti a gettarsi anche nel fuoco. Bielsa vince il campionato al primo tentativo ma la straordinarietà non sta tanto (solo) nella conquista del titolo, bensì nel modo con cui esso arriva. Ciò che è deflagrante è il calcio proposto dal suo Newell’s: in Argentina e nel resto del mondo mai si è giocato in modo così ultra-offensivo, verticale fino all’eccesso, atletico e costantemente in pressing. È questa la vera rivoluzione di Bielsa: preparare la partita senza prepararsi sull’avversario perché il gioco deve sempre essere in mano propria. E poi la continua copertura della metà campo avversaria fatta con i tagli in profondità, l’ossessiva ricerca dello spazio, le giocate massimo a due tocchi, il pressing triplicato in uscita e le ripartenze fulminee in fase di transizione offensiva. Un futurista prestato al calcio, ecco cosa sembra essere Bielsa. È per questo che forse, a proposito di illustri suoi concittadini, più che a Menotti, Bielsa può essere paragonato a Fontana.
Si apre così l’era del Newell’s campione: un tornado che si abbatte sull’Argentina e deflagra Boca, River, Rosario Central e tutte le compagini più quotate. A Rosario è già un guru. Una figura da portare in trionfo, cosa che i suoi giocatori puntualmente fanno al grido di “Newell’s Carajo!”.
Di campionati al Newell’s, El Loco ne vince anche un altro, il Clausura del ’92 e, sempre lo stesso anno, perde in finale ai rigori contro il San Paolo la finale di Copa Libertadores. Una cavalcata incredibile iniziata in modo ancor più incredibile, con una disfatta casalinga per 6-0 contro il San Lorenzo. Proprio questa sconfitta porta con sé uno degli aneddoti più particolari legati a Bielsa: la sera stessa alcuni ultrà dei Leprosos si presentano davanti casa dell’allenatore per chiedere conto della disfatta. Bielsa, anziché accettare il confronto, esce di casa impugnando una bomba a mano.
Oggi, lo stadio in cui gioca il Newell’s Old Boys si chiama (già) “Estadio Marcelo Bielsa”. Questo è sufficientemente indicativo di quale impronta abbia lasciato Bielsa nella metà rossonera di Rosario. (Fine prima parte)
Tito Sommartino
Articolo tratto dal cartaceo di Senza Soste n.120 (novembre 2016)
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Fenomenologia del Loco
PERSONAGGI – (Seconda e ultima parte) La carriera di Bielsa racconta che finora l’uomo di Rosario ha preferito lavorare laddove c’è maggior passione e tradizione oppure dove poteva partire da zero. Ma anche che le sue squadre restano delle eterne incompiute. Eppure, per molti è il migliore in assoluto.
“La disciplina di Bielsa fonde generosità e protagonismo, umiltà e coraggio, riflessione e sforzo, disciplina e ribellione. Forze contrarie che, se si uniscono sinergicamente per raggiungere il risultato, possono produrre cose fantastiche”. Il fratello Rafael, torturato dalla dittatura di Videla negli anni ’70, è stato anche Ministro degli Esteri nel governo Cristina Kirchner
Inutile girarci intorno, Bielsa per molti aspetti ricorda Zdenek Zeman. Sia sul campo che fuori. Li accomuna ad esempio l’essere definiti “perdenti di successo” e l’idiosincrasia per la fase difensiva. Per Bielsa “difendere è un inconveniente, il lavoro scomodo del calcio”. Per entrambi è più importante il gioco del risultato tanto che El Loco si autodefinisce orgogliosamente uno specialista di sconfitte. Perché, è solito ripetere, le vittorie non servono a nulla mentre le sconfitte aiutano a crescere. Un vero e proprio “loco”, soprannome per il quale ha una spiegazione tutta sua: “Mi chiamano così solo perché alcune risposte che ho formulato per risolvere delle situazioni non corrispondono alle abitudini delle persone. L’unica volta in vita mia che sono realmente andato fuori di testa è quando mi sono rinchiuso in un convento senza telefono, niente televisione, solo libri. Sono stato lì tre mesi, poi ho iniziato a rispondermi da solo. Era giunto il momento di uscire”.
Stella polare
Agli schemi di Bielsa si sono ispirati molti grandi allenatori, primo fra tutti Pep Guardiola. Si dice che El Loco abbia convinto Guardiola a fare l’allenatore dopo una chiacchierata di circa 11 ore folgorandolo sul concetto di occupazione degli spazi in campo e dei famosi 5 corridoi verticali. Ogni volta che può, Guardiola ripete che Bielsa è il più bravo di tutti. Ma discepoli del rosarino si autodefiniscono anche Jorge Sampaoli, attualmente al Siviglia e successore proprio di Bielsa alla guida della nazionale cilena, Eduardo Berizzo, attuale allenatore del Celta Vigo, e – udite, udite – pure El Cholo Simeone il cui Atlético è tutto l’opposto della filosofia bielsista..
Nel marzo 2015, invitato dalla Figc e dell’Assoallenatori, tiene una lectio magistralis a Coverciano dopo una preparazione durata 4 mesi. In un’ora e mezza di lezione conquista tutti e viene salutato con una standing ovation di un minuto.
Perdente di lusso?
Eppure come allenatore ha vinto poco, tanto da guadagnarsi anche il soprannome di “perdente di lusso”. Un appellativo che al Loco però non dà fastidio, anzi: “Esiste la sconfitta che serve – è solito ripetere – e la vittoria che non serve a nulla: i cambiamenti in una squadra si attuano quando si vince, non quando si perde. Quando si perde è il momento di osservare e capire”. Inizia a guadagnarsi questa etichetta al Mondiale del 2002, il cui pass viene conquistato con una fase eliminatoria da rullo compressore. Ma in Corea e Giappone è una catastrofe malgrado la squadra sia infarcita di campionissimi. Si rifà (parzialmente) due anni dopo vincendo l’oro alle Olimpiadi di Atene. L’esperienza alla guida degli Albiceleste segue in ordine cronologico quella trionfale al Newell’s (di cui abbiamo parlato il mese scorso nella prima parte) e quella messicana all’Atlas e all’América (1992-97), che da club di seconda fascia vengono riportati ai vertici del calcio nazionale (Bielsa rifiuterà la guida della nazionale, che pochi anni più tardi sarà composta per oltre la metà da calciatori scoperti e valorizzati da lui). Nel 1997 torna in Argentina ma al Vélez Sársfield e conquista il suo secondo campionato, quindi va in Catalogna all’Espanyol, ma a settembre lascia l’incarico per andare ad allenare l’Argentina. Nel 2007 diventa tecnico della nazionale cilena e all’ombra delle Ande, nel giro di tre anni, diventa un dio terreno. Va al Mondiale sudafricano con uno storico e spettacolare secondo posto e lì sciorina il miglior calcio della manifestazione. Agli ottavi la Roja cede il passo al Brasile ma a Santiago viene accolta eroicamente: mai il Cile aveva vinto due partite in una fase finale dei mondiali e solo una volta era passato agli ottavi. Ma ancora una volta, appena scritta la storia, Bielsa spiazza tutti e se ne va, lasciando un paese in ginocchio. Convoca una conferenza stampa e annuncia le dimissioni in lacrime. I telegiornali entrano in diretta con edizioni straordinarie. Piange – riferiscono alcuni testimoni – anche la presidentessa Bachelet. Lascia la panchina all’allievo Sampaoli, che lascia quasi immutato il sistema bielsista. Ormai il ciclo è iniziato.
Per molti ma non per tutti
Nel 2011 l’Athletic Bilbao batte la concorrenza di Real Sociedad, Siviglia e soprattutto Inter, che lo voleva per il post Mourinho. Bielsa guarda al progetto e all’ambiente e rinuncia a un milione di euro l’anno. Con Bilbao è da subito amore assoluto e reciproco. Viene rapito dalla filosofia e dalla tradizione di questo club unico al mondo e trasforma una squadra abituata a giocare palla lunga (e possibilmente alta) per Llorente in una squadra sfrontata che plasma subito alla sua maniera. Fa fuori alcuni senatori incompatibili col proprio credo, lancia come sempre una serie di giovani ma soprattutto accantona per la prima volta in carriera il suo 3-3-1-3, virando su un 4-2-3-1 in cui i due terzini (De Marcos e Iraola) sono in realtà due ali. L’Athletic raggiunge due finali, quella di coppa del Re e quella di Europa League, traguardo che mancava da 35 anni. I baschi le perdono entrambe per 3-0 dando la sensazione di essere arrivati spompati nel momento del clou della stagione. Ma negli occhi di tutti restano alcuni capolavori, prima fra tutte la partita di Manchester contro lo United di Sir Alex Ferguson. Davanti a 9.000 tifosi baschi finisce 3-2 per l’Athletic ma il risultato più veritiero sarebbe stato un 1-6 o un 1-7.
Bielsa è talmente radicato nel tessuto sociale bilbaino che nei pochi momenti liberi è solito prendere la metro o l’Eusko Tren e presentarsi in riva al mare ad Algorta per comprare pesce o mangiare tapas di mare, oppure ad Arboleda all’Asador Maite a mangiare i celebri fagioli locali. Il tutto con la tuta del club, rigorosamente comprata. Ma non tutto fila liscio: Bielsa rischia l’esonero quando, infastidito per i ritardi nella ristrutturazione del centro sportivo di Lezama, alza il telefono e inveisce contro il responsabile della ditta incaricata dei lavori. Querelato per le tante offese rifilate, si autodenuncia per dare il buon esempio.
L’anno successivo la squadra appare scarica e la stagione si traduce in un flop ma i tifosi continuano ad amarlo incondizionatamente. Lui però decide che è finita e si trasferisce a Marsiglia, altro luogo dal punto di vista socio-politico complesso e intrigante. Bielsa diventa immediatamente un idolo assoluto e riesce a fare ancora meglio di quanto fatto a Bilbao. Dopo neanche un mese si presenta così in conferenza stampa: “Il presidente ha preso con me degli impegni che sapeva di non poter mantenere. La realtà che mi tocca affrontare, se presentata sinceramente, la accetto. Diversamente, mi ribello. Nessuno dei giocatori arrivati all’OM è stato scelto da me. Dei 12 calciatori da me proposti non è venuto nessuno”. Inoltre non si fida di nessuno, nemmeno del suo traduttore, accusato di sbagliare apposta per metterlo in difficoltà. Lo fa allontanare facendo assumere al suo posto un cileno che aveva conosciuto al supermercato. L’OM lo asseconda anche in quelli che sembrano essere capricci di un fuori di testa. E fa bene perché El Loco infila un filotto di otto vittorie consecutive che proiettano l’OM al primo posto. Il Velodrome diventa una bolgia, la faccia e le frasi più peculiari di Bielsa finiscono sul merchandising ufficiale. Perché una città passionale e popolare come Marsiglia della città non può che amarlo alla follia. L’OM chiude però solo al quarto posto pagando un vistoso calo negli ultimi tre mesi, proprio come già successo a Bilbao. La stagione successiva, dopo un solo turno di campionato, dà le dimissioni in sala stampa nell’immediato post partita.
La scorsa estate El Loco arriva ad un passo da allenare in Italia. In molti, compreso chi scrive, sono stati combattuti tra il desiderio di goderselo da vicino e la speranza che non firmasse con un club che per mille motivi è quanto di più distante dal suo pensiero. La Lazio, con la sua curva fascista e il suo impresentabile presidente, resteranno con un pugno di mosche. Ufficialmente perché Lotito non ha preso nessuno dei giocatori richiesti dal rosarino, in realtà perché capisce che quell’ambiente non fa per lui. Ma, Lazio a parte, viene difficile immaginare Bielsa sulla panchina di un qualsiasi club italiano. Più che altro per un problema di mentalità e cultura calcistica. Qua non si costruisce perché non c’è tempo, perché la costruzione stessa di un modello tecnico, tattico, culturale è vista come una perdita di tempo. Si vuole tutto e subito. Immaginate in conferenza stampa: Bielsa parla di metafisica calcistica e il giornalista della Gazzetta gli chiede se quel calcio di rigore non concesso avrebbe cambiato o meno le sorti della gara. No, l’Italia non fa per lui anche se lui potrebbe far molto per la cultura calcistica (e non solo) del nostro paese.
Tito Sommartino
Articolo tratto dal cartaceo di Senza Soste n.121 (dicembre 2016)