mercoledì 5 novembre 2014

LA RIVINCITA DEI REPUBBLICANI

Le elezioni di metà mandato statunitensi hanno visto crollare il Presidente Obama ed il partito dei democratici affossati dai repubblicani che ora controllano l'intero Congresso come non accadeva da quasi un decennio.
Oltre a consolidare la supremazia alla Camera ora i repubblicani hanno conquistato pure il Senato e numeri alla mano negli ultimi due anni di mandato presidenziale Obama non potrà far molto in materia politica,economica e sociale senza scendere a compromessi con gli interessi della controparte.
Ovvero se tutto andrà bene per i democratici assisteremo negli Usa ad una stagnazione legislativa e andando peggio si avranno aperture nei confronti degli avversari che sono i rappresentanti delle lobbies petrolifere e dei produttori di armi.

L'America scarica Obama.

Anche l'Obamismo chiude i battenti. Nelle elezioni di mezzo termine (a metà del mandato presidenziale) i repubblicano hanno conquistato i sette seggi che concedono lo la maggioranza al Senato – dopo 8 anni – e hanno anche aumentato la propria maggioranza alla Camera (da 226 a 240 seggi).
Con il voto di ieri si apre ufficialmente anche la campagna elettorale per le prossime presidenziali del 2016, cui i democratici si presentaranno molto probabilmente candidando Hillary Clinton. Ovvero “una donna” per conquistae i voti liberal, ma anche un lupo imperialista che non può dispiacere troppo nel campo avverso.
È in ognii caso finito il tempo delle promesse “riformiste”, quelle avevano sollevato grandi speranze nell'azione del primo presidente black della storia Usa. L'America di oggi è razzista un po' meno di prima e bada al sodo più che al colore della pelle. Dal Sud dove imperava il Ku Klux Klan non arrivano soltanto le notizie di uccisioni poliziesche e riot (come a Ferguson, per giorni e giorni), ma anche il primo afroamericano eletto ne gli stati ex confederati: Tim Scott, repubblicano di 49 anni, che era già senatore del South Carolina dal gennaio 2013, in sostituzione però del titolare.
È un'America che accetta tranquillamente di liberalizzare la marijuana (vince il referendum in Oregon e nel distretto di Columbia, che comprende Washington) e pensa alla fatica di arrivare a fine mese. I salari sono bassissimi (Obama fatica a convincere le imprese ad accettare come salario minimo di legge i 7,5 dollari l'ora, meno di sei euro), i consumi ridotti, l'"ascensore sociale" bloccato. Anche se il prezzo della benzina è diminuito (pur senza rientrare sotto i due dollari al gallone, che secondo molti yankee è quasi un “diritto costituzionale”) e l'occupazione è aumentata. Ma si tratta quasi sempre di lavori marginali (commessi, camerieri, pulizie, ecc), mentre sembra definitivamente tramontata l'idea di un benessere crescente per (quasi) tutti, naturalmente grazie allo “sforzo individuale”. Non è un dettaglio, perché buona parte del “sogno americano” poggia su questa base.
Pesano meno, sulla mentalità “nazionalistica” statunitense, di massa, le crisi in Ucraina o in Medio Oriente. Il mondo è per gli yankee un posto dove andare a prendersi quel che serve, senza troppi riguardi. E la “caduta del Muro” ha consolidato l'idea che nulla e nessuno può opporsi al volere degli Usa.
Preoccupano invece di più gli addetti ai lavori, i dirigenti di tutte le imprese multinazionali e delle banche, ma con in prima posizione – come sempre - le compagnie petrolifere. In questo ambiente d'èlite Obama appare come un “esitante”, un “vorrei ma non oso”. Nonostante l'avventura Ucraina e lo sconquasso in Medio Oriente siano in realtà dovuti proprio all'interventismo statunitense. Ma in questo campo ogni valutazione razionale del rapporto costi/benefici, propria di ogni presidenza Usa, al di là degli slogan elettorali, viene vista male da entrambe le parti dell'elettorato: Il “troppo inteventismo” è per i repubblicani un “difetto di intervento”, un “combattere con una mano legata dietro la schiena”, una frenata inspiegabile alla dimostrazione di potenza.
Da questo punto di vista, l'America delle urne è più estremista ed ignorante dei suoi governanti (effettivi o aspiranti): ignora che i “pesi economici” globali sono profondamente cambiati, e che ogni nuovo rapporto di forza economico pretende una formalizzazione diversa anche su quello diplomatico o della “politica di potenza”. Una riprova della crescente "ignoranzietà" è del resto la rapida espansione delle sètte religiose, che dominano ormai l'elettorato repubblicano determinando uno sbilanciamento pericoloso nella stessa "eazionalità imperialista".
I prossimi due anni, dunque, saranno decisivi per capire “quale America” si presenterà al mondo con la faccia del prossimo presidente. Ma la differenza tra i due schieramenti sarà più ridotta del solito ("razionale/irrazionale", si potrebbe dire). Anche i vecchi cavalli di battaglia sui “diritti civili”, infatti, non servono più a distinguere due campinemici”. Ma sarà difficile trovare un repubblicano più “falco” e ferrato di Hillary...

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