venerdì 27 novembre 2020

DIEGO ARMANDO MARADONA:IL CALCIO E LA POLITICA

Sono poche le morti di persone che in questi decenni hanno catalizzato l'attenzione del mondo intero e in un periodo non banale dove la principale focus è centrato su tutt'altro e la scomparsa di Diego Armando Maradona è stato un momento di tristezza e di commozione che ha coinvolto milioni di persone e che amano il calcio con maglie differenti rispetto a quelle indossate da lui.
Su tutte quelle della nazionale argentina e del Napoli,con la prima onorata con la vittoria del campionato del mondo 1986 con una partita su tutte contro l'Inghilterra col gol più bello mai siglato e con quello della famosa mano di dios,un riscatto politico che è anche una beffa nei confronti dei britannici da parte di tutta una nazione dopo i fatti di quattro anni prima con la guerra delle Falkland.
E pure a Napoli ci fu una bella rivincita di una città intera che riuscì ad ottenere due scudetti ed una coppa Uefa in un periodo di dominio delle città del nord,dove la Lega muoveva i primi passi e l'odio sociale verso il sud e quello calcistico verso la formazione partenopea ed in particolar modo verso il suo numero dieci era al loro apice.
L'articolo di Contropiano(lultima-finta-di-maradona )racconta tre storie che sono un sunto di quelle che migliaia di persone possono raccontare o portare nel loro cuore che hanno visto in Maradona non solo un idolo sportivo ma anche un uomo che ha aiutato tanta gente in situazioni come la sua di quand'era bambino.
Un personaggio già mito quand'era vivente,amato sia per la sua classe che per la sua fragilità che lo ha reso più umano agli occhi delle folle che lo hanno acclamato in vita e che lo piangono con la sua morte.
Tralasciando chi sta salendo sul carro dei vincitori,o meglio del suo ricordo omaggiandolo con una ipocrisia propria di tanti politici(parlo di quelli nostrani)in un mondo dove Maradona ha sempre portato avanti le sue ideologie appoggiando le battaglie di molti politici del centro e del sud America,Diego è stato molto più di un simpatizzante della sinistra e le sue scelte di apparire a fianco di uomini di grande peso politico e sociale anche internazionale come Castro,Chavez o Morales per citarne solo alcuni sono conseguenza di un carattere fiero che non ha mai avuto timore di essere schierato.
Il secondo contributo di Infoaut(la-mano-de-dios-il-pugno-del-pueblo )sono delle frasi poetiche che spiegano perché Maradona sia stato così tanto influente anche al di fuori del mondo del calcio,e perché milioni di persone siano tristi per la sua morte.

L’ultima finta di Maradona

di  Ivan Trocchia - Vincenzo Morvillo - Italo Nobile   

La città che lo ha accolto come uno di casa, non solo come il dio del pallone. Da qui, giustamente, arrivano decine di omaggi, che testimoniano di un rapporto miracoloso e raro in quello che in genere è solo un business ideologizzato.

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Diego e io.

Arrivò in estate, era il 1984. Ero solo un quindicenne e ricordo ancora i caroselli d’auto, i tuffi nelle fontane, all’annuncio dell’avvenuto acquisto. In realtà già da settimane vicoli e strade erano piene di sue immagini, di gadget di tutti i tipi con il suo volto.

Il manager di Diego si era lamentato di ciò perché i prodotti che sfruttavano la sua figura erano sottoposti a stretto, e danaroso , copyright. Se ne fece in seguito una ragione.

Insomma neanche era arrivato e a Napoli si festeggiava come a una vittoria sportiva. Si perché appariva veramente incredibile che “ il più forte calciatore del mondo” venisse proprio a Napoli. No a Torino no a Milano ma a Napoli. Pazzesco.

E me ne resi conto ancora meglio perché ad ottobre di quell’anno con la famiglia ci trasferimmo a Bergamo. Per me , tra i vari dolori del lasciare la città natale, c’era anche quello di non potermi godere le gesta del campione. Mi dicevo, con la mia ingenuità da adolescente: ma come a Napoli arriva Maradona e noi ce ne andiamo?

In realtà vivere a Bergamo ti dava la possibilità di vedere un sacco di partite del Napoli. Milano a pochi km, Atalanta, Brescia e Como in serie A. A volte pure la Cremonese. Verona a un’ora soltanto di treno. E Torino non lontanissima da andare ad espugnare.

L’11 maggio dell’87, il day after, a scuola il professore di latino accettò la mia richiesta di non essere interrogato perché ero campione d’Italia. “Mi sembra giusto”, disse il simpatico prof orobico.

Si perché era chiaro a chiunque che vincere a Napoli non era la stessa cosa che vincere altrove. Nessuna squadra del sud lo aveva mai fatto. Persino la piccola Verona ci era riuscita ma noi no.

Per un pischello come me, catapultato nella ricca Lombardia, allora attraversata dai primi deliri leghisti e con i canali Fininvest già a pieno regime, era difficile parare sempre le cazzate su Napoli e sui meridionali in genere. 

Il primo giorno di scuola che feci a Bergamo, un ragazzo mi chiese se fosse vero che quando passava il boss per strada dovevamo assolutamente salutarlo. Insomma mi chiedevano cose così. Mio padre fin quando non cambiò la targa dell’auto, che era NA, aveva sempre gente che gli suonava addosso. Appena mise quella BG i clacson cessarono. 

Mio fratello che faceva le scuole medie andava ogni giorno a botte con qualcuno perché lo sfottevano in quanto napoletano e terùn. 

E Diego, da ragazzo sveglio e intelligente, seppe interpretare benissimo questi umori. Sia di chi a Napoli ci viveva sia di chi era dovuto andato via.

Una volta in un’intervista affermò che gli bastarono poche trasferte per capire l’andazzo generale che vigeva in Italia. Un odio contro Napoli e contro il Sud che da argentino faticava a comprendere. Capì subito che una vittoria del Napoli non era solo un fatto sportivo ma la rottura di un tabù. Un capovolgimento di prospettiva assolutamente non previsto. Una forzatura culturale.

Basti pensare che il tanto lodato Gianni Brera, al tempo, scriveva e pontificava alla Domenica Sportiva che anche con Maradona il Napoli in quanto squadra del Sud non avrebbe mai potuto vincere uno scudetto. Perché per vincere servono organizzazione e disciplina che i napoletani non hanno, in quanto più inclini a mettersi al sole e mangiare gli spaghetti. Quanto lo schifavo Gianni Brera. 

Ancora a distanza di tanti anni sembra incredibile quel processo d’empatia che si stabilì tra un ragazzo proveniente dalle favelas di un altro continente e la popolazione napoletana. E proprio per questo fu un giocatore odiatissimo. Perché difese, non solo sportivamente, la città. 

Io sono tra quelli che, nell’estate del ’90, nella semifinale dei mondiali tra Italia e Argentina esultò al gol di Caniggia. Come tanti napoletani preferivo la vittoria di Diego a quella della nazionale di un paese che ci discrimina e infanga e che, per quanto mi riguardava, aveva costretto la mia famiglia a lasciare Napoli. 

Avevo già festeggiato nell’82. Poteva bastare. Allora ancora ci credevo che siamo tutti “fratelli d’Italia”. Allora forse ci credevamo un pò tutti. Poi ho capito che noi eravamo i fratellastri.

La partita si giocò proprio a Napoli. Da allora la Nazionale italiana ha sempre evitato di giocare partite importanti al San Paolo. Considerato troppo poco nazionalista. Troppo napoletano. Quindi poco italiano. 

Diego, poi, è uno dei pochi eroi giovanili che col tempo non mi hanno deluso. Anzi col passare degli anni, in contemporanea con il mio impegno politico e la conseguente crescita culturale, l’ex ragazzo di Buenos Aires ha dato ampie soddisfazioni. 

Questa volta lontano dai prati verdi di gioco. Ma vicino alle popolazioni oppresse. Ai paesi sotto attacco dall’imperialismo statunitense. Utilizzando la sua enorme popolarità per sostenere i processi sociali di ispirazione socialista. Con Fidel, con Chavez, con Maduro, ma anche con Lula.

Niente male per un tipo considerato poco più di un tamarro. Per uno che “è solo un drogato”, un alcolizzato. 

La sua fragilità, i suoi eccessi, le sue buffonerie sono stati invece elementi a tutto tondo di un personaggio comunque unico. Eroe e martire contemporaneamente. Vittima di uno showbiz violento e tritatutto come quello del football. Che ti innalza per meglio guadagnarci e che poi ti butta via se non sei più utile alla causa del profitto. 

E’ caduto rovinosamente, poi ha scoperto che esiste tutto un mondo che fa altro che inseguire un pallone, e si è rialzato. Per cadere ancora e ancora perché il ghetto dove sei cresciuto non è solo un luogo fisico ma uno state of mind.

Sono pochi anzi pochissimi i campioni sportivi che hanno avuto una così forte rilevanza extrasportiva quanto Diego. Viene in mente di primo acchito Mohammed Ali. Ma Alì era ideologizzato strutturalmente, Diego invece no. Il bambino d’oro ha fatto tutto da sé, seguendo il cammino tracciato dal connazionale Che Guevara. Il suo tatuaggio più famoso. 

Ciao Diego. Voglio infine ricordarti in quella fantasmagorica e allucinante conferenza stampa, da CT dell’Argentina. Con una qualificazione ai mondiali ottenuta all’ultimo minuto. Ti rivolgesti ai giornalisti, che per settimane ti avevano dipinto come incapace e inadatto, dicendogli soltanto: solo tienes que chuparlo. Appunto . 

Ivan Trocchia

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Monoteismo maradoniano.

Gli dei, ora, stringeranno la mano del dio monoteista. Addio genio maledetto. Porterò in eterno, nei miei occhi, l’incanto sublime della tua poesia scritta coi piedi. E sulla pelle, il gelido fremito che mi avvolgeva un attimo prima che il magma infuocato del goal travolgesse i sensi e l’intelligenza. Fino a perdersi nell’estasi idiota dell’orgasmo. 

Eri la vita che celebra la morte. In ogni suo palpito. Eri il Kairos che si fa eterno. L’atto in cui si smarrisce e si smemora l’azione. 

Resterai per me Dioniso con un pallone tra i piedi. Musica, immagini, versi scritti su un foglio d’erba verde. Il riscatto mai domo di un niño che dalle favelas argentine è partito e ha scalato il Machu Pichu. Sfidando il potere delle sacre icone del Calcio. 

E ha vinto, perché mai ha voluto sedersi a quelle tavole imbandite di nulla. Preferendo le periferie inzaccherate di fango e di pioggia alle celebrazioni squallide di mediocrità vendute in sovrapprezzo. 

Nel cuore il Che, nelle mani il dolore, nella testa la coca e nei piedi Rimbaud. Ti ho amato come fossi il primo amore. Ti ho odiato come se a letto ti fossi portato mille uomini. Ho pianto e ancora piango, quando ti vedo volteggiare folle sui campi. Come un Nureyev su puma e bulloni. 

In questo presente che ha cancellato Mito e Memoria, tu sei l’ultima Leggenda. L’ultima Memoria di un mondo a dimensione d’Uomo. Poeta e guerriero di uno sport che fu. “Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”, diceva Nietzsche. E tu, tra gli astri cosparsi di bianchi cristalli, hai danzato eiaculando gioia e tragedia. 

Ciao Diego!

Vincenzo Morvillo

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L’ultima finta di Maradona.

Cos’è una finta? E’ far pensare all’avversario di andare da una parte e invece andare ad un’altra. E’ far pensare all’avversario di toccare un pallone e farlo rimanere invece nello stesso posto. E’ far pensare al portiere di mandare il pallone da un lato e mandarlo invece dall’altro. E’ far pensare di voler stoppare un pallone ed invece lasciarlo passare. 

E’ far pensare all’avversario che la realtà andrà in un certo modo e mostrargli invece che può andare in tanti modi diversi. E’ far vedere che il futuro è pieno di possibilità non indagate.

Essere un fuoriclasse come Maradona nel mondo del calcio (e l’analogia la facciamo non con Pelè, ma con Garrincha, anche lui morto prematuramente) è stato un modo di rifiutare la realtà e questo tempo che opprime.

Per lui il talento con le sue finte e le sue magie è stato un modo per fuggire dalla miseria, poi per scappare da una mentalità conformista, infine da un calcio sempre più burocratizzato e corrotto.

Maradona non era un imperatore indiscusso come Pelè, non un leader riconosciuto come Platini, non un professionista postmoderno come Messi. Maradona era uno sciamano, un borderline, un visionario che andava a giocare partite impossibili per gli amici (spesso discutibili) nei campetti fangosi della provincia di Napoli.

E a Napoli aveva trovato la follia, la pentola magica dove far fruttare il suo talento e farne un messaggio per l’umanità intera. 

Non a caso frequentava Fidel Castro5e Chavez: aveva bisogno di un oltre dove lanciare il pallone del destino, il suo e quello di un esercito di appassionati che aveva capito che lui non era solo un calciatore, ma un poeta maledetto, un bestemmiatore che stringeva il rosario nelle mani sempre pronto a combattere con Dio e con qualsiasi autorità.

E’ rimasto famoso per le sue punizioni, dove aggirava qualsiasi barriera, per i suoi cross con l’esterno del piede o di tacco quasi ad accarezzare qualsiasi pallone, con i suoi gol da quaranta metri come a dire che non c’è distanza che la magia non sappia percorrere. 

Ma il ricordo più vivo che abbiamo di lui è quello della mano che ruba il primo goal all’Inghilterra nel 1986. Un gesto con cui è andato oltre il calcio. 

Un gesto scorretto, certamente, ma al tempo uno sberleffo verso una nazione che rappresentava la tradizione ma anche l’arroganza calcistica, una nazione che con la Thatcher aveva fatto guerra proprio all’Argentina (sia pure quell’Argentina indegna dei colonnelli), una nazione che rappresentava per il mondo di lingua spagnola un nemico irriducibile a cui non si concede nemmeno la correttezza.

Poi al poeta hanno tarpato le ali, prima con la storia del doping, poi riducendolo a rinserrarsi in qualche modo sempre di più, facendolo goffamente zampettare come l’albatro di Baudelaire per qualche lustro.

Forse chissà, morti Fidel e Chavez, ha pensato a quell’oltre verso cui lanciare il pallone. Ha capito che con il suo corpo ingrassato non poteva arrivarci. Ed ha progettato l’ultima rete, quella della vittoria definitiva. 

Infatti ci aveva fatto pensare che l’operazione alla testa di pochi giorni fa fosse riuscita ed invece ha fintato ed è andato verso la libertà della sua anima, ormai detenuta da un corpo che si lesionava sempre di più e da un mondo che mortifica la fantasia e l’immaginazione. 

Con un arresto cardiocircolatorio ha stoppato magicamente il pallone discendente della sua vita, ha dribblato come contro l’Inghilterra15 tutti quelli che lo ostacolavano e si è proiettato in rete verso la leggenda.

Italo Nobile

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La mano de Dios, il pugno del pueblo.

Nello stesso giorno di George Best.

Nello stesso giorno di Fidel.

El Dies più forte di tutti i tempi se ne va da quel Dios che gli tese la mano per il gol più scorretto della storia, ma così nobile da far cadere la corona alla Regina.

Un sinistro da rockstar come la sua vita, spericolata a tal punto di divenire distruzione, dribblando la vita e la morte più volte, con lo stile di sempre, anche quando i chili sembravano non consentirlo più.

Un D10s e non un santo.

Lui è il calcio. 

Quello vero. 

Quello delle bestemmie, delle birre a bordo campo, quello sporco, quello che si gioca con le giacche a fare i pali. 

Il calcio umano di chi cade e si rialza, di chi non baratta due spicci con la libertà. 

Di chi non si piega. 

Il calcio di chi non si allena e e non fa diete e se ne fotte del sistema. El Che tatuato sul braccio, una mano sulla spalla da Fidel.

La mano de Dios, il pugno del pueblo.

mercoledì 25 novembre 2020

PROTESTE IN GUATEMALA CONTRO I TAGLI DEL GOVERNO

Nel sottobosco degli Stati centramericani forse il Guatemala è stato quello tra i meno nominati per le lotte e i tentativi di rivoluzione,anche se è vero pure che fino ad una quindicina di anni fa colpi di Stato e guerre civili ci sono state pur non avendo conseguenza drammatiche come in alcune nazioni confinanti.
Dopo essere passata alla ribalta nel 2018 per avere permesso a migliaia di disperati del vicino Honduras di attraversare il proprio suolo per andare in Messico e da lì con fortune alterne negli Usa(vedi:madn la-fuga-dallhonduras ),il piccolo Stato è balzato alla cronaca per le immagini del palazzo del Congresso dato alle fiamme dai dimostranti che ormai da una settimana sono scesi per le strade della capitale per una vivace protesta nei confronti della legge di bilancio per l'anno venturo.
Queste manifestazioni sono il frutto dei tagli all'istruzione,alla lotta per i diritti umani e contro la malnutrizione,contro i tagli all'emergenza Covid-19(che ha amplificato il tutto)aumentando i fondi per i ministeri delle infrastrutture e degli alloggi,dove si possono favorire maggiormente le aziende vicine al governo nell certezza di ottenere gli appalti per le opere di costruzione(vedi l'articolo proposto:infoaut conflitti-globali ).
La corruzione manco a dirlo come nella maggior parte del Centro e del Sud America è un cancro che da decenni segna la vita politica di questi paesi,e se da un lato il Presidente di origini italiane Giammattei vuole usare il pugno duro con i manifestanti dall'altro è pronto a rivedere la riforma(vedi:fides.org GUATEMALA_I_debiti_di_oggi_sono_la_fame_di_domani ),mentre il suo vice Castillo auspica addirittura le dimissioni assieme.

Guatemala: manifestanti incendiano palazzo del Congresso contro i tagli di bilancio.

In Guatemala ieri la tensione che covava da diversi giorni è arrivata all'apice.

E' da giovedì 19 novembre che in migliaia scendono in piazza contro la scelta del governo di tagliare le voci di bilancio che riguardano l'istruzione, la lotta per i diritti umani, la lotta contro la malnutrizione, la cura dei malati Covid a fronte di un aumento di risorse per i ministeri come quelli delle Infrastrutture e degli Alloggi.

I due ministeri in questione sono quelli dove tradizionalmente nel paese avvengono le spartizioni di denaro e gli episodi di corruzione politica più clamorosa (come si direbbe qui da noi sono "i bancomat dei partiti"). Il bilancio infatti non vede unicamente un taglio delle spese sociali, ma anche un probabile aumento del debito per le risorse impegnate in altre voci.

La protesta, convocata dalle 14, ha visto già dalla mattina centinaia di persone scendere in piazza chiedendo che i tagli al bilancio vengano ritirati, che ci sia maggiore trasparenza nella spesa pubblica e la fine della corruzione tra i congressisti.

I manifestanti sono quindi riusciti a sfondare il portone della sede del Congresso e ad incendiarlo. Una parte significativa della struttura è stata consumata dalle fiamme.

Il Capo di Stato del Guatemala Alejandro Giammattei ha duramente condannato le proteste minacciando un duro intervento della legge, ma allo stesso tempo ha promesso di rivedere i tagli di bilancio.

Le tensioni sociali sono esplose in un momento in cui l'intero centro America è alle prese con la pandemia ed è sconvolto dai danni della tempesta Eta che in Guatemala due settimane fa ha provocato 200 tra morti e feriti. Forte è stata la solidarietà con il popolo guatemalteco in lotta in tutta l'America Latina in cui ci sono stati diversi presidi a favore delle proteste davanti alle ambasciate.

martedì 24 novembre 2020

COSTRETTI AD UN INDEGNO SPETTACOLO

In un periodo dove per giocoforza si sta chiusi in casa in maniera maggiore rispetto al solito che è comunque già troppo,confidare in qualcosa di intelligente alla televisione è un'impresa ardua soprattutto in certe fasce orarie ed in alcuni palinsesti televisivi,dove cafonaggine,imbecillità e ignoranza regnano sovrane.
Di certo questo andazzo della televisione italiana non è frutto del recente passato ma figlio di uno svuotamento di ideali e di comunicazione responsabile che ha perso ogni morale ed ogni punto di riferimento educativo e di bon ton.
L'articolo preso da Contropiano(io-vi-accuso )è un'accusa vera e propria contro la televisione dello schiamazzo,degli urlatori e dei tossici dell'informazione che non compaiono nelle righe sottostanti:pure quelli che abbondano soprattutto nelle reti Mediaset e in quelle locali ma anche la Rai non è esente da un certo tipo di giornalismo di fandonie e di rissa hanno un certo appeal verso coloro che vogliono sentire ciò che desiderano con sciolinate populiste,dove si è persa la criticità di un confronto tra persone con un minimo di civiltà.
Rivedendo su Rai Storia certi dibattiti politici ma anche show più frivoli di qualche decennio orsono balza subito all'occhio la pacatezza degli scambi e il rispetto nei primi e il fare spettacolo con risate e soubrette in maniera non dico bigotta ma educata e di un certo livello che nulla ha che vedere con le cadute di stile di quelli contemporanei.
Ai personaggi noti che sono elencati nel pezzo(D’Urso,De Filippi,Signorini,Marcuzzi)aggiungerei anche altri come Brumotti e Sgarbi,Giordano e Del Debbio e la costante presenza di prezzemolini come i vomitevoli Feltri e Belpietro solo per non allungare troppo l'elenco(una nomina per l'insopportabile Fazio la devo fare per l'assenza di spina dorsale e il suo servilismo alla Vespa).
Per il resto racconta bene l'autore di questo sfogo che nelle sue parole racconta il danno enorme che alcuni programmi(Uomini e donne,Amici,i vari reality sia in terre esotiche che italiche oltre che i troppi contenitori musicali e culinari)dove milioni di italiani si perdono(molti dicono per staccare la spina)e che sono palcoscenico dell'esasperazioni dei sentimenti dall'amore alla rabbia e l'odio dove la lacrima e l'urlo fanno alzare l'audience abbassando di molto il livello intellettivo.

Io vi accuso.

di  Marco Galice *  

Barbara D’Urso, Maria De Filippi, Alfonso Signorini, Alessia Marcuzzi e tutta la schiera della vostra bolgia infernale… io vi accuso.

Vi accuso di essere tra i principali responsabili del decadimento culturale del nostro Paese, del suo imbarbarimento sociale, della sua corruzione e corrosione morale, della destabilizzazione mentale delle nuove generazioni, dell’impoverimento etico dei nostri giovani, della distorsione educativa dei nostri ragazzi.

Voi, con la vostra televisione trash, i vostri programmi spazzatura, i vostri pseudo spettacoli artefatti, falsi, ingannevoli, meschini, avete contribuito in prima persona e senza scrupoli al Decadentismo del terzo millennio che stavolta, purtroppo, non porta con sé alcun valore ma solo il nulla cosmico.

Siete complici e consapevoli promotori di quel perverso processo mediatico che ha inculcato la convinzione di una realizzazione di sé stessi basata esclusivamente sull’apparenza, sull’ostentazione della fama, del successo e della bellezza, sulla costante ricerca dell’applauso, sull’approvazione del pubblico, sulla costruzione di ciò che gli altri vogliono e non di ciò che siamo.

Questo è il vostro mondo, questo è ciò che da anni vomitate dai vostri studi televisivi.

Avete sdoganato la maleducazione, l’ignoranza, la povertà morale e culturale come modelli di relazioni e riconoscimento sociale, perché i vostri programmi abbondano con il vostro consenso di cafoni, ignoranti e maleducati. Avete regalato fama e trasformato in modelli da imitare personaggi che non hanno valori, non hanno cultura, non hanno alcuno spessore morale.

Rappresentate l’umiliazione dei laureati, la mortificazione di chi studia, di chi investe tempo e risorse nella cultura, di chi frustrato abbandona infine l’Italia perché la ribalta e l’attenzione sono per i teatranti dei vostri programmi.

Parlo da insegnante, che vede i propri alunni emulare esasperatamente gli atteggiamenti di boria, di falsità, di apparenza, di provocazione, di ostentazione, di maleducazione che diffondono i personaggi della vostra televisione; che vede replicare nelle proprie aule le stesse tristi e squallide dinamiche da reality, nella convinzione che sia questo e solo questo il modo di relazionarsi con i propri coetanei e di guadagnarsi la loro accettazione e la loro stima; che vede lo smarrimento, la paura, l’isolamento negli occhi di quei ragazzi che invece non si adeguano, non cedono alla seduzione di questo orribile mondo, ma per questo vengono ripagati con l’emarginazione e la derisione.

Ho visto nei miei anni di insegnamento prima con perplessità, poi con preoccupazione, ora con terrore centinaia di alunni comportarsi come replicanti degli imbarazzanti personaggi che popolano le vostre trasmissioni, per cercare di essere come loro. E provo orrore per il compiacimento che trasudano le vostre conduzioni al cospetto di certi personaggi.

Io vi accuso, dunque, perché di tutto ciò siete responsabili in prima persona.

Spero nella vostra fine professionale e nella vostra estinzione mediatica, perché solo queste potranno essere le giuste pene per gli irreparabili danni causati al Paese.

 * da Facebook

lunedì 23 novembre 2020

23 NOVEMBRE 1980:LA CAMORRA RINGRAZIA

Il disastro che il terremoto in Irpinia di quarant'anni fa fece al paese non si limitò solamente alle tremila,migliaia di feriti e 280mila sfollati,un caro prezzo dovuto alla forza devastante che la natura può creare,ma cui si aggiunse una forte crescita della camorra nelle zone colpite ed in particolare in tutta la Campania.
Che prima aveva un ruolo marginale legato soprattutto al retaggio agricolo ma che assieme ad un inconcludente intervento statale non tanto per investimenti ma per ruberie politiche riuscì ad entrare nel cuore e nelle tasche di una vasta fetta della popolazione colpita direttamente dal terremoto o abitante nelle zone marginali.
In una regione dove i vari De Mita,Cirino Pomicino,Gava e Scotti per citare i più influenti di quella Democrazia Cristiana che dominava e si divideva con i propri feudatari tutta un territorio,riuscirono ad indirizzare i cospicui fondi(un analisi conferma che fino al 2010 sono stati ben 66 miliardi di Euro)che le zone terremotate hanno ricevuto sulla carta.
Ben sappiamo che dopo le inchieste,la più importante quella presieduta da Scalfaro,sulle dispersioni di denaro pubblico e le collusioni con i camorristi,che gran parte di quell'enorme somma non finirono per la ricostruzione delle abitazioni e dei posti di lavoro o le implementazioni di essi,ma finirono come accade in Italia nei conti degli amici degli amici.
L'articolo di Contropiano(una-scossa-mai-terminata )parla della lentezza dei soccorsi di allora anche per le difficoltà logistiche con le vie di comunicazione stradali interrotte,dello scandalo dei terremotati che dopo decenni abitano ancora in baracche ed ovviamente degli sperperi e delle implicazioni politiche e cui si aggiungono le ingerenze capitalistiche e criminali sul piano di una ricostruzione che non ha ancora avuto una fine dopo ben quaranta anni.

Terremoto del 23 novembre 1980: una scossa mai terminata.

di  Michele Franco   

Era una domenica – precisamente le 19,34 – del 23 novembre ’80, quando il sisma si scatenò entrando, prepotentemente, nella vita, negli affetti, nel lavoro e nell’insieme delle relazioni sociali di una ampia area del meridione d’Italia. Dalle zone del Sud Pontino laziale fino giù verso la costa Tirrenica Calabrese, passando per l’intera Campania – con particolare virulenza in quel “cratere” localizzato nel cuore dell’Irpinia – ed allargando il suo raggio di morte fino ai paesi del versante potentino della Lucania. Un’ampia zona, quindi, dal mare alla catena appenninica, attraversata da un sisma che provocò – secondo le cifre ufficiali – 2914 morti, 8848 feriti e circa 280000 sfollati e senza tetto. Un disastro di proporzioni enormi i cui effetti, ad ampio raggio, sono riverberati fino ai giorni nostri. 

Basta interloquire con una persona campana o lucana – che ha superato di poco i 40 anni – e si coglie subito che nei ragionamenti generali, nei modi di interpretare il tempo andato, O’ Terremoto costituisce un prima ed un dopo, una sorta di frattura temporale e di originale parametro di periodizzazione della propria ed altrui esistenza. Insomma – senza scomodare sociologi o altre figure accademiche – posso affermare che O’ Terremoto è stato un evento totalizzante, spalmato per decenni lungo diverse generazioni ed entrato, di fatto, nei comportamenti e nelle modalità di vita e di riproduzione sociale di milioni di persone nella più importante area del Meridione d’Italia.

Ma il Terremoto è stato – soprattutto – un potente fattore di accelerazioni politiche e strutturali che hanno profondamente modificato (..in peggio!) la composizione di classe, il tessuto produttivo, le forme di comando e controllo della governance capitalistica e l’intera forma della società. Un processo poderoso, lungo nell’arco dei decenni e profondamente permeante in tutti gli interstizi della società napoletana, campana e – per larghi tratti – meridionale.

40 anni in cui le molteplici forme dell’Intervento Statale (eravamo ancora nel pieno della cosiddetta Prima Repubblica, quella dei Gava, Scotti, De Mita ma anche dei Napolitano e Chiaromonte) da quelle economiche a quelle legislative fino alle politiche repressive hanno piegato – agli interessi del capitale, dell’imprenditoria e del sistema parassitario che sosteneva l’impalcatura politica/partitica che allignava in quella congiuntura politica – un evento naturale, e catastrofico, come un Terremoto.

A distanza di 40 anni nelle aree interne della Campania e della Basilicata poco è cambiato in termini di polarizzazione sociale, di squilibrio economico e di nuove e vecchie forme di emarginazione salariale (neanche lo stabilimento Fiat a Melfi ha modificato il dramma occupazionale esistente). 

Tale condizione è una diretta – anche se non lineare – conseguenza del complesso delle scelte economiche e di pianificazione che furono adottate all’indomani del sisma attraverso quell’articolato sistema di potere che è riuscito a far dialettizzare tra loro la politica, l’impresa e i piccoli/grandi interessi criminali vigenti nei territori. 

Parimenti, invece, nelle aree metropolitane e lungo la fascia costiera questa dinamica – magari ammantata da un alone di presunta modernità – ha squadernato l’insieme della patologie antisociali che connaturano le tipologie prevalenti delle metropoli imperialistiche collocate nei punti topici dello sviluppo capitalistico.

Infatti l’area metropolitana partenopea – la più grande d’Italia – anche a seguito degli sconvolgimenti indotti dal sisma del 23 novembre 1980 si è andata configurando, sempre più, con le caratteristiche antipopolari e fortemente polarizzanti che certificano la natura di un enorme agglomerato urbano in cui tutti gli indicatori statistici e materiali sono rilevatori di questa funzione antisociale e del suo costante imbarbarimento.

Da questo punto di vista non a caso – alla fine degli anni Ottanta – la città di Napoli fu sede di significativi momenti di discussione tra le varie teste d’uovo capitalistiche in materia di trasformazione architettonica ed urbanistica delle metropoli. Tali apprendisti stregoni provavano le loro alchimie nel vivo di una composizione sociale e di una città che si disponeva ad autentico laboratorio dove sperimentare queste forme di manomissione e di vivisezione antiproletarie. 

Basti tornare alle elaborazioni ed agli studi di Confindustria, della Fondazione Agnelli, di alcune multinazionali statunitensi e di molte facoltà universitarie di quegli anni ed è possibile riscontrare progetti, idee/pilota e quant’altro che scaturì da quelle terribili progettazioni.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: aumento delle disparità sociali, incrudimento di tutte le questioni afferenti lo stato delle periferie, distruzione di ciò che residuava della vecchia industria di stato e frantumazione/polverizzazione del tessuto economico ed occupazionale con un aumento a dismisura delle tipologie di lavoro povero, nero, grigio e completamente deregolamentato. 

Insomma O’ Terremoto servì a completare l’integrazione e la sussunzione a pieno titolo dell’area metropolitana napoletana nei dispositivi del capitalismo tricolore e dell’azienda/Italia che proprio alla fine degli anni Ottanta si predisponeva ad un cambio di passo con la fine della Prima Repubblica, il dissolvimento dei partiti storici (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista) e l’avvio del percorso dentro il processo continentale di costruzione del polo imperialista europeo.

La stessa dinamica storica, economica e sociale della dicotomia Nord/Sud conobbe una strozzatura ed un riadeguamento strutturale verso nuove definizioni materiali. 

Il progetto di Ricostruzione Post Terremoto fu uno degli ultimi atti di una politica d’intervento statale che guardava, comunque, al Sud come ad un territorio che necessitava di atti straordinari e di un surplus di attenzione. Infatti, di lì a poco, nell’ambito del risanamento economico nazionale, fu abolita la Cassa per il Mezzogiorno e le altre forme di sussidiarietà verso il Sud facendo riemergere – di nuovo – una storica ma mai risolta Questione/Contraddizione Meridionale.

In questo contesto non mancò, anzi fu un soggetto attivo dentro i processi politici e le forme della ristrutturazione capitalistica il conflitto di classe e numerosi fenomeni di autorganizzazione popolare.

 A seguito del Terremoto presero corpo lotte durissime, variamente articolate e diffuse in tutto il territorio. Dalla denuncia del criminale sistema dei soccorsi, alle lotte per il lavoro e per il diritto alla casa fino ad un significativo protagonismo attorno ai temi ed alle scelte del processo di Ricostruzione post sisma. 

Per molti anni – dopo il 23/11/1980 – vasti movimenti di lotta hanno attraversato la metropoli partenopea ponendo il sacrosanto tema del diritto a vivere, finalmente, con dignità. 

Movimenti di lotta e Vertenze che hanno conquistato migliaia di posti di lavoro, che hanno conseguito il raggiungimento dell’obiettivo del diritto all’abitare per decine di migliaia di famiglie e che sono stati una spina nel fianco alle diversificate esperienze di comando politico ed amministrativo che si sono succedute a Napoli e in Campania. 

Ma questa è un’altra storia che andrebbe affrontata con una trattazione specifica e seriamente documentata. In rete e in libreria esistono molti lavori di riflessione ed altri sono in gestazione e saranno pronti nei prossimi mesi per cui rimandiamo a questi elaborati.

Ora, in occasione di questo particolare quarantennale – in piena crisi pandemica globale – abbiamo voluto ricordare questa pagina di storia della nostra vita e del nostro Sud.

venerdì 20 novembre 2020

IL REGIONAL COMPREHENSIVE ECONOMIC PARTNERSHIP

Mentre il resto del mondo arranca sulla pandemia e ci s'ingegna alla bella e meglio sul come procurare i soldi per affrontare le catastrofiche perdite dovute ad un crollo verticale dei Pil tra magie sui bilanci e recovery fund,in Asia la scorsa domenica è stato firmato un trattato che riguarda un terzo degli abitanti della popolazione mondiali con poco meno di un terzo del suddetto Pil.
I 15 Stati asiatici dell'Oceania che geograficamente hanno uno sbocco sul Pacifico hanno siglato un accordo che è stato preparato da anni con diversi incontri internazionali e che ha visto la nascita del Rcep(Regional Comprehensive Economic Parternship)col fine di sviluppare al meglio l'import-export tra le varie nazioni firmatarie con previsioni economiche vantaggiose ed un abbattimento di dazi tra di esse che favoriranno sia gli scambi che nuove forze lavorative.
Effettivamente come evidenziato dall'articolo di Contropiano(il-secolo-dellasia )per la prima volta la Cina non vara accordi solamente bilaterali,ultimo dei quali con gli Usa a gennaio dopo anni di battaglie proprio per i dazi imposti dalle due super potenze economiche(madn le-conseguenze-sullaccordo-tra-pechino e washington ),con possibili sviluppi visto che negli ultimi mesi un altro colosso emergente come l'India si era tirata fuori ma potrebbe essere integrata alla lista.
Altra conseguenza è la perdita sempre più evidente dell'Unione Europea in questo contesto geopolitico che a parte accordi siglati tra le nazioni per scambi commerciali e di sviluppo economico vede la propria forza ed il potere contrattuale venire sempre meno con possibili ulteriori strascichi nefasti per i conti.

Il Secolo dell’Asia.

di  Giacomo Marchetti   

Domenica 15 novembre è stato firmato in Vietnam l’accordo di libero scambio più importante della storia mondiale.

Per il Regional Comprehensive Economic Parternship sono i numeri a parlare. I 15 paesi asiatici che l’hanno sottoscritto costituiscono un terzo circa della popolazione globale e producono poco meno di un terzo del PIL mondiale.

Tra questi vi sono tre “pezzi da novanta” del capitalismo avanzato: Cina, Giappone e Corea del Sud. Tre Paesi che tra l’altro, in maniera parzialmente differente, hanno affrontato relativamente con successo la pandemia e che ora stanno conoscendo una significativa ripresa economica, a differenza dell’Occidente.

Il Financial Times riporta le previsioni di due economisti esperti in commercio internazionale – Peter Petri e Michael Plummer – secondo i quali l’accordo porterà ad un incremento dello 0,2% dei paesi firmatari, ed una quota aggiuntiva dell’economia mondiale di 186 miliardi.

L’accordo – che potrebbe già partire il prossimo anno – è il frutto di 8 anni di trattative, con 49 incontri negoziali e 19 meeting ministeriali, comprende 10 Paesi dell’Asean e 5 non-Asean, e dovrà essere ratificato per essere valido da 6 Paesi dell’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico e da 3 che non ne fanno parte.

L’India era uscita improvvisamente dai negoziati il 4 novembre dell’anno scorso, principalmente per due ordini di motivi.

Il primo di natura “protezionistica” rispetto ad alcuni settori chiave della sua economia (anche se l’agricoltura ed una parte dei servizi sono in parte esclusi dal RCEP), soffrendo già di un significativo deficit commerciale nei confronti della Cina, da cui importa merci per parecchi miliardi in più di quanto ne esporti.

Il secondo di natura geopolitica, visto il suo avvicinamento all’amministrazione statunitense in funzione anti-cinese all’interno della cornice strategica dell’Indo-Pacifico.

I 15 Paesi lasciano però la porta aperta all’India, e non è detto che non rientri in un secondo tempo.

Il RCEP è la cornice di rapporti multilaterali che potrebbe fare da incubatrice di relazioni bilaterali e trilaterali importanti.

La Cina, che ai tempi non fu l’artefice di questo accordo, ne diventa ora uno dei pivot, vista la maggiore possibilità per la Repubblica Popolare di investimenti regionali e, dall’altro, la possibilità di maggiore accesso al mercato cinese da parte degli altri firmatari.

In generale si va verso un mercato integrato a livello regionale, e allo stesso tempo esportazioni più competitive nel resto del mondo per i Paesi che lo compongono, come riporta Channel Asia.

Sébastien Jean, direttore del Centro Studi CEPII, ha giustamente affermato a «Le Monde»: “commercialmente questo accordo dovrà facilitare molto il funzionamento delle catena del valore della zona”.

Questo aspetto è centrale in un momento in cui, da un lato, si stanno ridisegnando le filiere produttive ed il commercio mondiale, con una maggiore de-connessione tra Cina ed USA, e la riconfigurazione delle rotte commerciali del traffico marittimo secondo linee diverse da quelle sviluppate durante la globalizzazione neo-liberista a guida USA.

Kentaro Iwamoto su «Asia Nikkei» mette in luce alcuni tratti significativi dell’accordo.

“È la prima volta” – scrive Iwamoto – “che la Cina entra in un trattato di libero scambio non bilaterale”.

Inoltre “l’Asia sembra prendere la guida nel dare forma alla nuova architettura del commercio globale”.

Cioè a dare forma a quello che sarà il mondo post-pandemico, aggiungiamo noi.

L’eliminazione delle tariffe  – uno dei cardini dell’accordo, insieme ai servizi e all’e-commerce – cambierà in parte i rapporti tra Giappone e Cina, per esempio, visto che erano sottoposte a dazi l’86% delle merci nipponiche in direzione della Repubblica Popolare.

Un vantaggio notevole per l’industria giapponese in generale, ed in particolare per il comparto delle forniture automobilistiche; ed una maggiore integrazione produttiva che sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata dall’ex premier nipponico Abe, recentemente uscito di scena.

Per altri attori, come le Filippine, le cui esportazioni sono dirette già per oltre il 50%  verso questa regione, è un vantaggio notevole.

Per tornare alla Cina, le parole del vice-ministro al commercio Qian Keming sono significative: “continueremo a ridurre la lista negativa che sbarra l’accesso agli investimenti stranieri”.

Due sono le destinazioni principali prefigurate: i settori high tech che sono il perno della strategia cinese, cristallizzate nelle linee guida del nuovo Piano Quinquennale (2020-25), ed i progetti di sviluppo delle regioni centrali ed occidentali cinesi.

Da un lato, quindi, settori in grado di far fare il salto di qualità tecnologica alla Repubblica Popolare; dall’altra le regioni “più arretrate”, per promuovere un più equilibrato sviluppo ed una maggiore coesione all’interno di un processo di integrazione regionale.

È chiaro – come riporta «Asia Nikkei» – che quest’accordo potrebbe essere foriero di ulteriori sviluppi, come un possibile accordo di libero scambio tra Cina ed UE, od un più stretto accordo “a tre” tra Cina, Giappone e Corea del Sud. 

Bisogna ricordare che proprio in questo contesto la valuta cinese, che sta sperimentando la sua versione digitale, potrebbe giocare un ruolo ed utilizzare quest’area come base di partenza per una sua affermazione come moneta internazionale di scambio.

Il Financial Times mette in evidenza due punti del RCEP: da un lato l’importanza delle “rules of origin”, che permetteranno ad un singolo componente prodotto in un Paese della regione di entrare nella filiera produttiva dei firmatari con un solo pezzo di carta, come afferma un operatore economico, senza che sia necessaria nessuna certificazione aggiuntiva una volta assemblato in un altro prodotto.

Il secondo punto – al pari dell’«Asia Nikkei» – è il rapporto che si instaura tra Cina, Giappone e Corea del Sud. 

Ma è la cifra geopolitica che quest’accordo di integrazione economica ha per gli ulteriori sviluppi delle relazioni internazionali quella che il quotidiano britannico coglie meglio: “ciò significa che né l’UE né gli USA, le tradizionali super-potenze mondiali, avranno voce in capitolo quando l’Asia Porrà le sue regole commerciali”.

Un nuovo benchmark, quindi.

Qui sta il punto, come ha giustamente affermato Sébastien Jean, direttore del Centro Studi CEPII, a Le Monde: “pone una vera crisi strategica agli Stati Uniti”.

L’amministrazione Obama aveva infatti sottoscritto nel febbraio 2016 uno dei perni di quello che doveva essere il Pivot to USA – il TPP (Trans-Pacific Partnership) – da cui Trump uscì  meno di un anno dopo, nel gennaio 2017, e che venne poi firmato comunque da 11 Paesi nel 2018; 7 dei quali hanno firmato poi domenica il Regional Comprehensive Economic Parternship.

Come ha chiosato il New York Times: “ad alcuni esperti del commercio, questo nuovo accordo mostra che il resto del mondo non aspetterà gli Stati Uniti”.

Ed il mondo non aspetta né gli Stati Uniti, né l’Unione Europea, che dovranno moltiplicare gli sforzi per uscire dall’emergenza pandemica in una situazione economica catastrofica ed un corpo sociale indebolito, senza uno straccio di strategia che non sia il “”convivere con il virus”.

Nessuno aspetta USA e UE viene confermato anche dall’incontro dei Brics.

Questo martedì è iniziato il 12simo incontro tra Brasile, Russia, Cina, India, Sud Africa, che ha tre assi: la risposta al Covid-19, la facilitazione della ripresa economica ed il miglioramento della “governance” economica.

Uno degli strumenti di intervento economico dei BRICS è la New Development Bank, creata nel 2015, con sede a Shangai, che era inizialmente destinata al finanziamento dei progetti infrastrutturali e di sviluppo, ma che a marzo di quest’anno ha allargato il suo raggio al sostegno dei Paesi che lo compongono, colpiti dal Covid, per affrontare meglio la situazione pandemica.

Un segno di duttilità, contrariamente ai rigidissimi trattati infra-europei, che pochi osservatori hanno colto.

Sono stati erogati prestiti a Cina, India, Sud Africa e, a luglio, al Brasile, anche con l’emissione in due tranches di bond, a giugno ed a settembre, per un totale di 3 miliardi di dollari.

Le modalità concessione dei prestiti li ha resi più celeri (un mese per essere approvati) e la mole si è ampliata fino a 10 miliardi di dollari.

Una discreta potenza di fuoco, alternativa allo strozzinaggio del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, o ai meccanismi suicidi della UE.

60 aziende dei Brics hanno esposto i propri prodotti al China International Import Expo, giunto alla terza edizione e che ha come fine principale sviluppare l’import ed i consumi interni. Si è conclusa con un volume d’affari maggiore rispetto al prossimo anno: più 2,1%, con contratti firmati per più di 70 miliardi di dollari.

Un abisso rispetto ai valori in picchiata del commercio occidentale.

Un altro segnale importante di come il baricentro dello sviluppo mondiale si è spostato ad oriente e che solo una pessima informazione non ci permette di capire.

giovedì 19 novembre 2020

VESPA E L' ENNESIMO TENTATIVO DI REVISIONISMO STORICO

 


Quando il servo del palazzo e dei potenti in generale Bruno Vespa promuove un suo libro le sue comparse televisive,bastano e avanzano già quelle del suo"salotto buono" di Porta a porta pagato dal canone di tutti i contribuenti,è sempre uno spettacolo pietoso con i vari intervistatori che si prostrano verso questo volpone del giornalismo italiano,prima di cronaca ora di leccaculismo patetico(vedi:madn vespa-siano ).

Nell'articolo di Contropiano(le-fake-news-di-bruno-vespa )l'ennesimo esempio della sua ammirazione verso il Dvce(lui stesso vanta di esserne il figlio),protagonista del suo ultimo racconto dove gli errori sia su carta che via etere che sciolina durante le suddette presentazioni(soprattutto in campo lavorativo,sindacale e pensionistico)abbondano e non si possono relegare a posizioni di simpatia o meno verso Vespa ma attenendosi a fatti storici sono molti e gravi gli errori che continua a predicare.

Un altro di quelli del partito del"Mvssolini ha fatto anche cose buone"(tipo morire e venire appeso a piazza San Loreto)che negli ultimi anni ma anche più hanno rivalutato la sua figura con un'opera di revisionismo storico colmo di falsità raccapriccianti così come lo è stato il regime dittatoriale fascista con uno sdoganamento delle ideologie di odio che hanno fatto sì al ritorno anche a livello istituzionale della feccia che ha mandato a gambe all'aria l'Italia durante il ventennio dello scorso secolo.

Le fake news di Bruno Vespa.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)  

Di queste affermazioni di Bruno Vespa, diffuse dalla TV pubblica che promuove il suo libro, non ce ne è una vera. 

1) Il primo contratto nazionale dei metalmeccanici fu firmato 1919, mentre il golpe del Re che portò al potere Mussolini fu nel 1922. 

2) L’INPS nacque nel 1898 e nella forma attuale nel 1919. 

3) Le 40 ore settimanali in Italia furono raggiunte dopo l’autunno caldo del 1969. Nel 1923 una legge già voluta da Giolitti, a seguito dei contratti nazionali già firmati stabilì orario giornaliero di 8 ore per 6 giorni, cioè 48 ore settimanali più gli straordinari 

4) Nel 1925 Mussolini ABOLÌ la contrattazione nazionale libera, vietò i sindacati indipendenti e obbligò tutti i lavoratori ad aderire ai sindacati fascisti, di cui facevano parte anche i padroni.

5) Nel 1927 Mussolini stabilì per legge che le donne prendessero solo il 50% della paga di un uomo. 

6) Nel 1929 per sostenere la quotazione della lira (austerità monetaria, insomma) Mussolini decise il taglio dal 15 al 30% delle retribuzioni nominali. 

Potremmo aggiungere tanto altro sullo sfruttamento da parte dei padroni, verso un lavoro cui il fascismo aveva tolto il diritto di sciopero. Ma questo basta per chiarire che il consenso del fascismo era fondato prima di tutto sulla menzogna. 

Le fake news di Bruno Vespa, il giornalista ufficiale del palazzo, lo confermano.

mercoledì 18 novembre 2020

IL CONFUSO,IL NEGAZIONISTA E LA MOGLIE NON VUOLE

La Calabria ha sempre avuto un grande problema con la legalità e con l'omertà di troppi suoi abitanti e la rappresentanza politica che la regione ha avuto negli ultimi anni non ha aiutato molto ad avere delle basi dove una democrazia possa attecchire,vuoi per la 'ndrangheta che è strettamente legata ad un territorio dove il lavoro latita e per la classe politica che è praticamente l'emanazione della criminalità portata avanti da questi delinquenti(vedi gli esempi di arresti eccellenti:madn calabriaforza-italiafratelli-ditalia-e la 'ndrangheta e madn un-carcere-intero ).
E' quindi comprensibile la fatica ed allo stesso tempo il lavoro inefficace del governo centrale che non riesce a trovare un commissario straordinario della sanità in una regione che per casi di contagi non se la passa neanche male ma a fronte della scarsità di posti letto ospedalieri e di terapie intensive fa scattare l'allarme diventando zona rossa.
I vari personaggi presentati su quello scranno rovente sono l'ex generale dei carabiniere Cotticelli in totale confusione tanto che ha affermato di essere stato drogato(!?),Zuccatelli quello dell'inutilità della mascherina e dal contagio che può esserci solo col limone duro ed infine Gaudio,indagato a Catania e con la moglie che non vuole trasferirsi a Catanzaro.
Già di per loro persone impresentabili,e qui Conte parando il culo al ministro Speranza ha recitato il mea culpa,in una situazione al di là del paradosso dove forse non si sanno ancora bene i contorni della faccenda come ipotizzato nell'articolo sotto(left due-tre-cose-sul-macabro-balletto-calabrese ).
Dopo avere accettato quasi subito si sono dimessi tutti e tre,vuoi forse per un compito che possa precludere altri incarichi futuri per via di una oggettiva difficoltà a gestire l'ingestibile in una regione dove le infrastrutture praticamente non esistono?
La possibilità che Emergency possa dare una concreta mano col suo cofondatore Gino Strada,che darebbe il meglio al posto direttamente di Speranza,è già stata vagliata,ricordandoci che questa associazione umanitaria opera prevalentemente in zone di guerra,ma forse è quello che si deve combattere non solo in Calabria ma anche in altri territori italiani.

Due, tre cose sul macabro balletto calabrese.

Giulio Cavalli 

Ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario della sanità per la Calabria senza incorrere in figuracce?

Tre commissari nel giro di dieci giorni. Roba da fantascienza di quart’ordine, sembra un filmato horror di quelli con il pomodoro visibilissimo al posto del sangue, solo che qui ci si gioca la salute di una regione intera come la Calabria e ci si gioca la credibilità di un governo, anche se lassù fanno finta di niente.

Siamo partiti con il prode Cotticelli, l’ex generale dei Carabinieri che è riuscito nella mirabile impresa di umiliarsi in televisione intervistato da un giornalista, quasi come un ladro beccato con le mani nel sacco. Ha cominciato a balbettare discorsi sconclusionati e poi si è accorto seduta stante di dover essere lui a occuparsi del piano Covid. Un servizio in cui la sua segretaria e l’usciere del palazzo sono apparsi come degli scienziati nei confronti di quel commissario (così lautamente pagato) che sembrava essere invece passato lì per caso. Cotticelli è riuscito a fare ancora di più: si è immolato poi ospite da Giletti dicendo che era «in uno stato confusionale», forse era stato drogato e di non riconoscersi più. Uno schifo.

Poi arriva Zuccatelli. Una nomina lampo, non c’è che dire: giusto il tempo di essere nominato (ovviamente come “grande professionista” con la solita liturgia che accompagna ogni nomina politica, anche quando si tratta di amici di partito). Parte forte Zuccatelli, perfino Nicola Fratoianni di Leu ne contesta la nomina. Basta qualche minuto e ecco Zuccatelli in un bel video in cui ci dice che le mascherine «non servono a un cazzo» e che per ammalarci dobbiamo baciarci per almeno 15 minuti. Caos, figuraccia. Arriva il ministro Speranza che dice che Zuccatelli non si può giudicare da un video e che la sua esperienza è fuori discussione. Quindi uno pensa che rimarrà al suo posto. E invece si dimette e ci dice che gliel’ha chiesto Speranza. Quindi? C’è qualcosa di più di quel video che non sappiamo? Boh, niente di niente.

Infine in pompa magna viene nominato Eugenio Gaudio, che intanto ha a che fare con un’indagine della Procura di Catania probabilmente presto archiviata, e qualcuno dal governo parla di tandem con Gino Strada. Gino Strada li sbugiarda dicendo che non esiste alcun tandem. Ieri Gaudio ci dice che non può accettare perché, dice proprio così, sua moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro. Ieri pomeriggio a Tagadà il ministro Boccia dice addirittura che non vero che il governo l’aveva nominato, che ci stava pensando, poi ci ripensa, balbetta che il ruolo del commissario straordinario per la sanità non sia un ruolo “importante”, poi ci ripensa, poi esce una nota stampa in cui si scopre che Gaudio si è dimesso senza nemmeno confrontarsi con il ministro Speranza. Niente di niente. Finisce così. Che poi Gaudio abbia accettato un ruolo così delicato senza avvisare a casa è una roba che farebbe ridere, se non facesse piangere.

A questo punto la domanda è una secca: ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario per la Calabria senza incorrere in figuracce? E poi: il governo si rende conto della delicatezza del ruolo soprattutto in questo momento? E poi: ma c’è qualcosa che non sappiamo?

Sullo sfondo, agitato come una reliquia, quel grande uomo che è Gino Strada e Emergency.

Che pena.

Buon mercoledì.

martedì 17 novembre 2020

IL BUSINESS DELLA PAURA


L'informativa dell'ospedale San Raffaele di Milano,struttura in prima linea e all'avanguardia nel settore sanitario privato(foraggiato da denaro pubblico)riguardo la possibilità di consulti e visite domiciliari per chiunque abbia dubbi o debba aggiornare il proprio stato di salute riguardo al Covid-19,può farlo sborsando la cifra minima di 90 Euro per il solo consulto telefonico o videotelefonico e nel caso che il medico interpellato reputi eseguire esami diagnostici approfonditi con 450 Euro a domicilio forniscono il servizio di prelievo ematico,radiografia toracica,rilevamento della saturazione con il referto finale.

Non è pubblicità ma anzi la denuncia dell'ennesimo scippo della sanità privata nei confronti di quella pubblica,con la primi sempre più ricca e la seconda con le pezze al culo,risultato di una lunga serie di scelte e decisioni mirate a favorire un concetto di sanità all'americana:ti curi se te lo puoi permettere.

Nei due articoli(left san-raffaele-visite-covid-a-pagamento-peggio-di-come-sembra e contropiano lombardia-gli-ammalati-affidati-a-san-raffaele )le giuste proteste riguardo il business della paura con medici come Zangrillo che dalle affermazioni estive di una pandemia ormai alla fine con tutti i malati asintomatici all'ingrasso attuale nel posto dove lavora come primario,casualmente anche facente parte del gruppo San Donato dove lavorano due nomi altisonanti della politica di ieri come Alfano e Maroni.

Senza contare che l'ATS milanese ormai in palla visti i risultati delle tante positività di malati ospedalizzati che lasciati al proprio domicilio non riesce a fare tamponi sia per individuare i soggetti contagiati che per quelli che hanno avuto il coronavirus ed hanno bisogno di quello per tornare al lavoro.

San Raffaele, visite Covid a pagamento? Peggio di come sembra.

di Giulio Cavalli

Ha fatto molto discutere ieri la notizia che il San Raffaele di Milano ha un vero e proprio servizio, a pagamento, per i pazienti positivi al Covid-19 in isolamento a casa. Il costo di una visita specialistica a domicilio è di 450 euro, mentre per un più semplice e immediato consulto video o telefonico da parte del medico il costo è di 90 euro. 90 euro per un consulto telefonico, avete letto bene.

Ha centrato il punto il consigliere regionale Matteo Piloni che dice: «Sei positivo al Covid e in isolamento? Le Usca non funzionano come dovrebbero? Tranquilli, ci pensa il privato. Se Ats o il vostro medico non vi chiamano o non rispondono, ci pensa il San Raffaele. Con un consulto video o telefonico a 90 euro e, se il medico lo riterrà, con 450 euro per un servizio di diagnostica a domicilio. Il pubblico arranca e il privato ingrassa».

Vale la pena rileggere anche quello che disse Alberto Zangrillo, primario guarda caso proprio al San Raffaele: «È indubbio che la diga del terrorismo ha ceduto e le persone sono disorientate e spaventate. Il malato va seguito a domicilio dall’esordio della prima sintomatologia». La frase, di per sé giusta, risulta un po’ risibile se detta da chi il Covid questa estate lo giudicava “clinicamente morto”, da quello del “sono tutti asintomatici” e dallo stesso che lavora nell’ospedale che lucra proprio sulla paura.

Per inciso l’Ospedale San Raffaele fa parte del Gruppo San Donato, sì sì proprio quello dove lavora Angelino Alfano e dove lavora Roberto Maroni. Incredibile, vero?

Per capire sempre del Gruppo San Donato conviene anche rileggersi una nota del consigliere regionale in Lombardia del M5S Fumagalli che l’8 agosto scrisse: «In data 5 agosto, la Giunta Regionale (con la delibera 3518 dall’anonimo oggetto: (‘Determinazioni in ordine alla gestione del servizio sanitario e sociosanitario per l’esercizio 2020-1°provvedimento’) stabilisce di farsi carico del 50% dei costi del rinnovo contrattuale della sanità privata con interventi relativi alle tariffe e ai budget nei limiti delle risorse disponibili. Questo significa (come già segnalato sul sito di Business Insider Italia) che, ad esempio, un ospedale come il San Donato che nel 2019 ha fatto un fatturato di 170 milioni di euro con un utile netto di quasi 34 milioni di euro, riceverà dei fondi extra per pagare i propri dipendenti. 5 milioni di euro solo per i mesi restanti del 2020. Se Regione Lombardia ha così a cuore i dipendenti degli Ospedali privati, perché non impone a questi imprenditori (il San Donato è guidato da Angelino Alfano) di applicare il Ccnl della sanità pubblica? Perché non impone di assumere i medici anziché tenerli a partita Iva? Il San Donato ha solo un medico assunto. Perché impegnarsi ad aumenti di tariffa e di budget nei confronti di chi fa già enormi utili per pagare i dipendenti? Non possono usare i margini che hanno per pagare i dipendenti e diminuire gli utili? Ma ai lavoratori delle cooperative che stanno nella sanità con uno sfruttamento enorme, i soldi dell’aumento di stipendio lo passa Regione Lombardia? No, perché in queste cooperative, non ci sono Alfano e Maroni a fare i presidenti».

Insomma, è molto peggio di come sembra.

Buon martedì.

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Lombardia: gli ammalati affidati a… San Raffaele.

di  Redazione Contropiano   

La Regione Lombardia ha, di fatto, abbandonato le persone positive costrette a casa. Infatti, tra l’assistenza telefonica offerta dai medici di base, oberati di lavoro, e la corsa al Pronto Soccorso se ci si sente male, c’è il deserto. 

Infatti, tra medico di base e ospedale dovrebbero esistere le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), strutture territoriali dedicate a seguire i pazienti a domicilio. Però in Lombardia le USCA sono nemmeno un terzo delle 200 che costituirebbero il numero minimo per garantire un intervento efficace. 

A colmare questa assenza della sanità pubblica ci ha pensato il ben noto ospedale privato San Raffaele. Chi desidera, può avere una consulenza in telemedicina “per soli 90 euro”. 

Se il medico ne constata la necessità, il paziente è indirizzato all’acquisto di un pacchetto di diagnosi a domicilio, costituito da un prelievo di sangue, da una radiografia del torace e da un controllo della saturazione. Segue referto finale. Il tutto “per soli 450 euro”.

Tutte cose che, nella sanità pubblica, sono semi-gratuite perché la spesa sanitaria è coperta dalle tasse…

Un altro grande favore ai privati è stato offerto dalla ATS di Milano, ormai incapace di gestire i tamponi, fatto che è una resa totale di fronte alla pandemia. 

Per quanti hanno superato il periodo di quarantena o nei casi peggiori la malattia vera e propria, non è possibile prenotare il tampone di guarigione che, dopo 10 giorni di confino, può garantire la ripresa della vita lavorativa qualora risulti negativo. Il sito della ATS per prenotare i tamponi risulta “in manutenzione” e non si sa quando sarà riattivato. 

Del resto l’ATS era stata chiara già diversi giorni orsono, quando aveva invitato i pazienti a sottoporsi al tampone presso le strutture private. Purtroppo anche queste strutture cominciano ad avere difficoltà a tenere il passo, e molti pensano a quanto indicato dal Ministero della Salute, vale a dire rientrare al lavoro senza tampone dopo 21 giorni dall’accertamento di positività e una settimana senza sintomi. 

Tuttavia, le imprese chiedono il certificato medico di negatività, quindi i lavoratori sono costretti a cercarsi il primo tampone possibile tra i privati. Costo tra 75 e 125 euro. 

Intanto a Milano è stato aperto un centro per i tamponi rapidi presso il parcheggio della metro di Trenno, alloggiato in tende fornite dall’esercito e in cui lavora personale militare e degli ospedali San Paolo e San Carlo. 

La presenza del personale di questi due ospedali è importante e smentisce ancora una volta il progetto a lungo sostenuto dalla Regione – chiudere queste due strutture – che coprono invece un bacino importante della città e contro la dismissione delle quali si è costituito un partecipato comitato di cittadini. 

Infine, non vogliamo immaginare quali conseguenze potrebbe avere l’estensione alla Lombardia della sentenza del TAR del Lazio che decreta che i medici di base non devono seguire i pazienti Covid, poiché ciò sottrae tempo a chi ha altre patologie. 

Per chi ha contratto il Covid, secondo il TAR del Lazio, esistono le USCA, appositamente concepite per assistere tali pazienti. Tuttavia, come detto all’inizio, in Lombardia le USCA sono quasi introvabili, quindi a chi si ammala resterebbero solo i Pronto Soccorso, che sono già ben oltre il limite di guardia. 

lunedì 16 novembre 2020

DA CAJAMARCA A LIMA

Le sollevazioni popolari nelle piazze e nelle strade in Perù che hanno portato prima alle dimissioni della maggior parte dei ministri seguite a breve da quelle del presidente Merino in carica solamente per cinque giorni,non devono far pensare che la protesta sia nata per la rimozione di quello precedente Vizcarra in quanto quello che ha infiammato i peruviani è la voglia che il filotto di rappresentanti politici dell'ultima generazione passando da Fujimori e Kuczynski(vedi:madn e-qui-da-noi? )arrivando proprio a Maunel Marino,tutti servi dell'imperialismo che ha creato enormi danni in Perù,possa finire.
Dopo i due studenti(forse tre)morti per la repressione poliziesca nella capitale Lima c'è stata la svolta con le dimissioni di Merino del partito di Azione Popolare(un Pd peruviano che dal centrosinistra allegramente è finito a centrodestra)che era salito al potere per successione(nello Stato andino in mancanza di elezioni avanza il Presidente del Congresso):a tal punto migliaia di peruviani sono scesi in strada per protestare contro questo regime che dovrebbe andare avanti ancora per sei mesi,per staccargli la spina al più presto(vedi il primo contributo:contropiano peru-si-dimette-il-presidente-merino-dopo-la-brutale-repressione )
Da anni il Perù è alla mercé delle multinazionali che sfruttano le risorse e la manodopera,in un clima di dilagante corruzione che è il male del paese oltre alle solite infiltrazioni statunitensi che fanno ciò che vogliono,sappiamo che non è una novità per tutto il Sudamerica,con politicanti fantoccio al potere.
Il secondo articolo(infoaut la-fine-degli-incas )parla di storia ed in particolar modo di uno degli episodi più infami accaduti durante la conquista spagnola in tutto il continente latino americano con i fatti di Cajamarca il cui anniversario cade proprio oggi dove il sanguinario conquistador Pizarro con l'inganno(gli iberici dissero astuzia)rapì l'imperatore Inca Atahualpa massacrando migliaia di indigeni e dopo avere ottenuto un riscatto di 80 metri cubi d'oro lo uccise ugualmente.
Si può affermare che i vari Pizarro della storia stiano ancora rubando e usurpando sia il territorio che il popolo peruviano,che d'altro canto non molla e cerca di lottare contro delle forze più forti e potenti di loro con la certezza di riuscire prima o poi a sovvertire e ripristinare il giusto ordine della storia.

Perù. Si dimette il “presidente” Merino, dopo la brutale repressione.

di  Corriente Socialista de las y los Trabajadores  

Qua di seguito riportiamo la dichiarazione della Corrente Socialista dei lavoratori CST di fronte alla crisi politica che si vive in Perú, che ha fatto un salto nelle ultime ore a seguito dell’assassinio dei due giovani studenti da parte della polizia nazionale, questo ha obbligato Manuel Merino a rinunciare alla presidenza della Repubblica.

Corriente Socialista de las y los Trabajadores – CST

In strada! La CGTP deve convocare uno sciopero nazionale ora!

Bisogna lottare per buttare giù tutto il marcio regime del ‘93!

Dopo l’assassinio dei due giovani per mano della polizia, c’è stata una sequela di dimissioni dal gabinetto appena nominato da Merino. Le mobilitazioni, nella grande maggioranza auto-convocate e spontanee si estendono in tutto il Perù. 

La gioventù nelle strade sta dando mostra di una forte disposizione alla lotta e di coraggio di fronte alla brutale repressione che c’è a Lima e nelle principali città del paese. 

È urgente che la Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù (CGTP) chiami a uno sciopero nazionale contro la brutale repressione poliziesca e statale, e, per demolire dalle fondamenta la costituzione fujimorista che ha permesso e promosso il sorgere di una casta politica completamente corrotta e separata dagli interessi della grande maggioranza del popolo lavoratore.

È questa casta politica dei Kuczynski, i Fujimori, i Vizcarra, i Merino e tutta questa confraternita di politici al servizio dell’imperialismo che ha approfittato della pandemia per arricchirsi a costo delle vite, del dolore e della sofferenza del popolo peruviano. 

Il Fronte Amplio, oltre alla sua burocratizzazione, non si è distinto da questa casta politica e oggi riceve il rifiuto delle migliaia dei mobilitati. Questo è prodotto del carattere del suo programma di collaborazione di classe, e di una strategia rispettosa dell’ordinamento giuridico fujimorista.

Nelle ultime ore le mobilitazioni hanno fatto un salto e si intensificano. L’odio dei/le lavoratori/trici, la gioventù e il popolo nelle strade fa sentire il suo averne le tasche piene di questa casta politica e di una “democrazia” che sta al servizio del saccheggio delle risorse naturali e dell’aggravare lo sfruttamento dei lavoratori della campagna e della città, e dell’esclusione e oppressione dei popoli indigeni e delle grandi maggioranze popolari.

E invece, il Congresso oggi si appresta ad approvare un’uscita reazionaria alla grave crisi dopo le dimissioni di Merino. Il nome di Gino Costa, rappresentante dei seggi del Partido Morado, comincia a risuonare come possibile rimpiazzo di Merino. Niente di più e niente di meno che un altro rappresentante di quella casta politica profondamente corrotta e al servizio dei padroni e dell’imperialismo. 

Queste misure disperate stanno cercando di prolungare la vita di questo regime moribondo nel tentativo di arrivare alle elezioni generali di aprile del 2021 che possano decomprimere la bollente atmosfera politica e ricondurre le aspirazioni democratiche di milioni di persone dietro una qualche variante del regime politico attuale.

È urgente sconfiggere questo piano reazionario del congresso. È urgente dare impulso alla lotta per un’Assemblea Costituente Libera e Sovrana, per discuter di che paese hanno bisogno e vogliono i lavoratori e il popolo, per farla finita con l’ingerenza imperialista e il saccheggio delle risorse naturali da parte delle transnazionali, farla finita con le leggi e disposizioni antioperaie e antipopolari implementate durante tutti questi anni di neoliberismo esagerato, per discutere la proprietà della terra e i diritti agrari di milioni di contadini e popoli indigeni. 

La lotta per questa ACLS permetterà che milioni di lavoratori comprendano che questa [Assemblea] si potrà realizzare solo imponendola con la mobilitazione generalizzata di tutto il popolo, mediante lo sciopero generale politico e convocato da un governo provvisorio delle organizzazioni operaie, contadine e popolari in lotta.

Per questo noi della Corrente Socialista delle Lavoratrici e dei Lavoratori CST, facciamo appello ad esigere alla CGTP e alle altre organizzazioni sindacali e popolari l’immediata convocazione alla mobilitazione generale dei lavoratori e allo sciopero generale per espellere questa casta corrotta e profondamente antidemocratica e antipopolare, perché quello che c’è in gioco è [la possibilità di] approfondire questa crisi per aprire e imporre, dal basso, un processo costituente non a misura delle caste parassitarie che litigano per il controllo dello Stato, bensì un processo costituente libero e sovrano per chiudere con la reazionaria Costituzione del 1993 e con il regime politico che su questa si sostiene.

In questa lotta, la gioventù ha un gran posto di combattimento, come sta dimostrando nelle strade durante gli ultimi giorni. Davanti alla brutalità poliziesca repressiva è urgente dare impulso all’organizzazione dell’autodifesa, del diritto alla protesta per le libertà democratiche oggi minacciate da questa casta politica corrotta.

Bisogna dare impulso a tutte le forme di autorganizzazione dei lavoratori e del popolo, basate sulla più ampia e profonda democrazia di quelli che lottano per impedire che tutti gli sforzi per buttare giù questa costituzione fujimorista siano nuovamente traditi e negoziati dalla burocrazia sindacale e dai movimenti sociali come è successo con la marcia dei 4 Suyos che ha espulso Fujimori però ha aperto la strada a Toledo. 

La gioventù mobilitata insieme ai lavoratori e al popolo deve forgiare oggi un’uscita diversa e al servizio delle grandi maggioranze lavoratrici.

https://www.laizquierdadiario.com/Tras-la-brutal-represion-renuncio-Merino-Hay-que-luchar-por-tirar-abajo-todo-el-podrido-regimen-del?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter

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16 Novembre 1532: La fine degli Incas.

Il 16 novembre 1532 Il generale spagnolo Francisco Pizarro incontra nella città andina di Cajamarca l’imperatore Inca Atahualpa.

Rappresentante dell’imperatore Carlo V – nel suo regno (si vantava) «non tramontava mai il sole» – Pizarro era accompagnato da 168 soldati, 62 cavalieri e 106 fanti, forniti di spade e armature d’acciaio, 12 archibugi (spettacolari ma difficili da caricare). Atahualpa aveva con sé un esercito di 80.000 soldati, armati solo di bastoni, mazze e asce di pietra, legno e bronzo, fionde e armature di tessuto.

La sproporzione fra il numero degli spagnoli e quello dell’esercito di Atahualpa era tale che in una delle cronache redatte da testimoni spagnoli, fra cui i due fratelli di Francisco Pizarro, Hernando e Pedro, si racconta: «Noi spagnoli (..) eravamo nascosti nei cortili vicini, colmi di terrore. Molti di noi, dal gran spavento, orinarono senza volerlo».

L’esercito di Atahualpa occupava tutte le alture che circondavano Cajamarca. Pizarro era entrato in città e aveva nascosto nei cortili vicini alla piazza centrale i suoi uomini, pronti a uscire dai loro nascondigli a un suo segnale. Il generale mandò a incontrare l’inca Frate Vincente de Valverde, che con una croce in una mano e la Bibbia nell’altra arrivato di fronte ad Atahualpa gli disse: «Sono un Ministro di Dio e ammaestro i Cristiani nella Santa dottrina ed in tale veste giungo a te. Le mie parole sono le parole che Dio ci ha dato in questo Libro. Pertanto, in nome di di Dio e dei Cristiani, ti prego di accoglierli in amicizia, perché tale è la volontà di Dio e tale sarà il tuo interesse».

Atahualpa gli chiese di fargli vedere il libro, ma non sapeva come aprirlo, perché gli amerindi non conoscevano la scrittura, e lo gettò via, rosso in volto. Allora Fra Vincente si rivolse a Pizarro invitandolo a fare uscire i soldati che spararono sugli indiani disarmati e poi iniziarono a ucciderli con le loro spade. Sette o otto cavalieri rovesciarono la lettiga su cui viaggiava Atahualpa e lo catturarono, uccidendo tutti gli indiani della scorta . Il resto dell’esercito, terrorizzato dai cavalli, che non avevano mai visto, dagli spari e dalle armi luccicanti, si disperse e in breve tempo i 168 spagnoli uccisero almeno settemila amerindi.

Pizarro tenne in ostaggio Atahualpa per otto mesi, durante i quali si fece consegnare 80 metri cubi d’oro e poi , nonostante le sue promesse di amicizia, lo fece uccidere. Dopo la morte di Atahualpa, utilizzando i rinforzi che intanto erano arrivati da Panama, Pizarro iniziò la guerra di conquista di tutta la regione andina che, precedentemente, faceva parte dell’impero Inca.

Questa ovviamente è la versione dei fatti di parte spagnola; la verità dei perdenti al solito è stata cancellata.

Fonte: La Bottega del Barbieri

domenica 15 novembre 2020

ALTRO CHE UNITA' ,SEMPRE PIU' DIVISI

La sete di protagonismo oltra ad un'eterna campagna elettorale che stanno contraddistinguendo il belpaese negli ultimi anni hanno portato l'Italia divisa molto di più di quello che lo è amministrativamente con regioni e province,arrivando più in un'epoca medievale con gli attuali governatori che si atteggiano ai signorotti che governavano un paese ancora diviso in principati,regni e staterelli.
Col risultato,raffrontato all'emergenza pandemica,di averne accelerato la diffusione ed i contagi,convinti ognuno di fare del bene col risultato contrario e parlo di presidenti di tutti i colori politici che guerreggiano ultimamente sul colore loro assegnato dal governo centrale.
Nell'articolo di Contropiano(mettere-fine-al-regionalismo-una-ragionevole-follia )alcuni esempi di come la visibilità personale di taluni abbiano scatenato polemiche per evitare di attirarsi addosso le colpe di una gestione disastrosa della pandemia(Lombardia con Fontana su tutti per grande distacco)aggiungendo gli esempi dei commissari in Calabria e le avventate scelte che si sono compiute in Sardegna e in tutte le regioni che hanno sdoganato le vacanze pur sapendo che la seconda ondata era lì dietro l'angolo.
Gli interessi economici e personali,anche qui la Lombardia eccelle nella condotta criminale dell'emergenza Covid-19(madn i-camici-del-clan-fontanauna-donazione tardiva? )hanno sorpassato quelli sulla salute e la sicurezza delle persone.
Mentre c'è chi parla di annullare addirittura le regioni,ricordandoci del pasticcio delle province,oppure di avere una maggiore autonomia che non vuol dire poi avere delle genialate di decisioni e neppure poi avere l'opportunità di scegliere qualcosa(madn la-guerra-tra-il-governo-e-le-regioni )creando confusioni ed un nulla di fatto(a volte meglio di decisioni scellerate).

Mettere fine al regionalismo. Una ragionevole follia.

di  Angelo D'Orsi*   

Grande è la confusione sotto il cielo d’Italia. Gli organi istituzionali pubblici in forte polemica tra di loro, come e assai più che in primavera, nella prima ondata del virus. 

Il contagio si diffonde quasi incontrollabile, gli esperti parlano a ruota libera, i tamponi latitano (e si possono fare a pagamento se non vuoi attendere le calende greche), il sistema ospedaliero in crisi, i medici e il personale paramedico chiede soccorso, i ministri a cominciare dal loro coordinatore (il presidente del Consiglio) balbettano, e i sedicenti “governatori” urlano, sgomitano, prima chiedono autonomia decisionale, poi la rigettano sulle spalle del governo – sempre più debole ed esangue, e Conte che ripete “l’obiettivo è arrivare a fine legislatura”.

Il quadro è stato tracciato efficacemente da Francesco Pallante (il manifesto, 8 novembre). Ma davvero si resta basiti davanti allo spettacolo a dir poco inverecondo cui stiamo assistendo, se possibile aggravato dalla sovraesposizione mediatica dei personaggi sulla scena: scienziati, tecnici, amministratori, politici e, immancabile, il corredo dei commentatori professionali da talk show.

Lasciamo stare i casi surreali come quello calabrese, con la doppia nomina di un commissario per la sanità (due personaggi ineffabili, bell’esempio di mancanza di professionalità loro e di totale assenza di serietà del governo); oppure la infame campagna pubblicitaria della Regione Lombardia battezzata con atroce arguzia “The covid dilemma”, che ha lo scopo di scaricare sulla cittadinanza le colossali inefficienze del ceto amministrativo locale e i turpi traffici del presidente Fontana (il manifesto mostra una scritta sovrapposta al volto di una ragazza con la finta domanda: “Indossare la mascherina o indossare il respiratore?”, e la risposta colpevolizzante: “La scelta è tua”); o infine il caso, di cui si sta occupando giustamente la magistratura, della Regione Sardegna, con la riapertura delle discoteche per Ferragosto, e la immediata chiusura finiti i festeggiamenti, ma con lo strascico di contagi procurato.

Al netto di tutto questo, rimane il problema principale che è l’ente Regione. Alla stregua dei fatti, oggi dobbiamo chiederci, seriamente, se l’introduzione della Regione nell’ordinamento della Repubblica non sia stato un errore dei Costituenti. Errore, se tale fu (come ritengo) compiuto in perfetta buona fede, nell’idea che un po’ di decentramento amministrativo sarebbe stata cosa buona e giusta. 

E le Regioni, creazioni astratte, prive di un sostrato culturale e di un fondamento storico, si sono rivelate semplicemente centri di distribuzione e distruzione di risorse, senza produrre alcun valore aggiunto alla macchina statale. 

Ma come ricordava Pallante, i guai sono poi arrivati a valanga, negli ultimi vent’anni, soprattutto gli effetti della manomissione del Titolo V della Carta Costituzionale, e la concessione di poteri enormi all’Ente Regione sulla sanità, innanzi tutto, con gli strateghi del cosiddetto Centrosinistra, pronti a gettarsi all’inseguimento della Lega (che allora sbraitava sul “federalismo”) e a sacrificare poteri dello Stato.

Gli effetti eccoli qua. Impotenza dell’ente centrale, contenzioso incessante tra Stato e Regione, inefficienza totale della pubblica amministrazione, crollo del sistema sanitario e crisi di quello scolastico – l’uno e l’altro finora in piedi, benché a mal partito, solo per l’abnegazione del personale – e via seguitando. 

Allora, perché non prendere il toro per le corna? Lanciamo una campagna per una riforma della Costituzione: stavolta facciamola noi, dal basso, non aspettiamo che arrivino i guastatori, i Renzi, e i Salvini e compagnia cantante: perseguiamo due obiettivi.

Obiettivo minimo cancellazione delle modifiche al Titolo V del 2001, con recupero allo Stato di funzioni delegate alle Regioni; e se vogliamo esagerare diamoci come obiettivo massimo l’eliminazione dell’Ente Regione, e invece, piuttosto, rivitalizziamo le Province, che d’altronde, nella storia d’Italia hanno un’antica e nobile tradizione, a differenza delle Regioni. E hanno una dimensione che effettivamente può avvicinare l’istituzione alla cittadinanza. 

Restituiamo loro competenze e prerogative, con juicio, naturalmente. Per porre fine al cosiddetto “regionalismo”, alla destrutturazione della Repubblica, alla distruzione della stessa unità nazionale.

 Vogliamo tentare questa ragionevole follia?

*storico, professore emerito dell’Università di Torino, Articolo pubblicato su Il manifesto

sabato 14 novembre 2020

QUANDO FINIRANNO GLI AIUTI DI STATO

E' lampante che tutti gli aiuti economici che stanno e dovranno essere utilizzati per cercare di mantenere a galla un'economia provata da una lontana crisi ed accentuata dalla pandemia avranno un termine temporale,con l'auspicio che le restrizioni con la conseguente contrazione dei redditi e del lavoro terminino al più presto.
Ma si devono fare i conti con l'oste,nel dettaglio il coronavirus,che non accenna a fermare la sua onda lunga di contagi e di decessi e che ci accompagnerà ancora per qualche mese come minimo:nel futuro immediato lo Stato sovvenzionerà con decreti parte di questa economia che finirebbe a gambe all'aria nel giro di poche settimane,ma nel nostro(italiano ed in larga parte riguardante l'occidente)sistema capitalista si entra in contrasto con la salute dei cittadini e con il loro sostentamento per mezzo dell'occupazione.
L'articolo di Contropiano(la-cinica-sincerita-di-de-bortoli )riporta il riassunto di un'analisi di De Bortoli,una firma del giornalismo italiano tra le più illustri ma non esente da un certo servilismo verso i poteri forti ma che dice una verità sacrosanta per quanto riguarda la società italiana:la salute conta meno dell'economia.
Rispondendo alle leggi di mercato,ivi comprese la concorrenza più o meno sleale e le tutele sempre meno presenti quando si parla di rapporti di lavoro,quella italiana come detto è destinata a implodere se la situazione pandemica si protrarrà oltre un certo limite che sta per essere raggiunto,con un potere ancora maggiore nelle mani di associazioni come Confindustria che viste le percentuali a caduta libera dell'economia non vedrà un secondo lockdown delle imprese(non che il primo sia stato massiccio soprattutto in alcune zone italiane).

La salute? Conta meno dell’economia. La cinica sincerità di De Bortoli.

di  Carlo Formenti   

Viva la sincerità. Onore a Ferruccio de Bortoli che sul Corriere della Sera di ieri (“Il dovere di parlare chiaro”) non le manda a dire e spiega qual è il punto di vista delle élite economiche nostrane. 

Dice soprattutto tre cose: 

1) in questa seconda ondata del covid19, dopo che abbiamo visto quanto costa il lockdown, va detto a chiare lettere che LA SALUTE CONTA MENO DELL’ECONOMIA e che quindi toccherà combattere ,senza se e senza ma, per difendere la tenuta dei mercati, consapevoli che ciò significa pagare un prezzo salato in termini di morti e feriti (come in guerra a morire saranno gli sfigati e non quelli che li spediscono al fronte);

2) si sappia che gli aiuti di Stato sono pannicelli caldi, ma soprattutto non possono essere illimitati (leggi: nel sistema neoliberista lo Stato, a differenza di quanto avviene nei regimi “dittatoriali” come la Cina, non gode di alcuna sovranità e autonomia nei confronti delle “leggi” del mercato, quindi non ha il potere di tutelare illimitatamente la salute, la vita e il lavoro dei cittadini);

3) si sappia che le crisi come quella in corso non sospendono le sacre leggi della concorrenza, per cui va dato per scontato che molte delle imprese che oggi chiudono non potranno riaprire né potranno (al pari dei cittadini) pretendere sostegni pubblici illimitati. 

Detto altrimenti: le crisi sono anche (per i più forti) opportunità, nel senso che accelerano il processo di concentrazione dei capitali, e le caste giornalistiche al servizio delle caste economiche è da anni che tuonano contro il “nanismo” delle imprese nostrane chiedendo a gran voce di spazzare via quei settori dove hanno trovato rifugio i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro a causa di ristrutturazioni tecnologiche, delocalizzazioni, e precedenti ondate di concentrazione produttiva e finanziaria (così si potrà “affamare la bestia” e costringerla a vendere la propria forza lavoro a prezzi ancora più bassi di quelli già imposti da decenni di “guerra di classe dall’alto”, e che nessuno si illuda di sopravvivere con aiuti di Stato perché il contenimento della spesa pubblica è un dogma talmente intoccabile che è stato introdotto nella nostra Costituzione, in palese contrasto con lo spirito e la lettera della Carta del ’48);

4) per offrire un contentino a quelli che invita a crepare senza rompere i coglioni sul fronte del profitto, il nostro ci dice infine (bontà sua) che anche i ricchi dovranno rassegnarsi a pagare le tasse in proporzione alla loro ricchezza (non gli costa nulla perché sa che questo auspicio resterà come sempre lettera morta). 

Che altro dire? Quando la crisi lo addenta ai garretti il sistema capitalista (e i suoi fedeli portavoce) fanno la faccia feroce e la voce grossa esprimendo cinicamente e senza giri di parole i propri interessi e spiegando ai sudditi che non resta loro altro che piegare la testa e servire. 

Ma quando si dichiara la guerra, caro de Bortoli, non si è mai sicuri di vincerla: a volte capita di fare la fine di Mussolini.

venerdì 13 novembre 2020

PATRIMONIALE SUBITO...E NON SOLO

Mentre in Europa alcuni paesi non solo hanno già pensato ad una tassa patrimoniale sui grandi redditi ma ad esempio la Spagna ha già deciso sulla praticabilità dell'ipotesi,l'Italia ha una sorta di repulsione verso questo termine e per tutte le forze al governo è un tabù.
Già innumerevoli volte si è discusso su questo blog di tale direi naturale e giusta tassa per chi è ricco e che fondamentalmente deve redistribuire la propria ricchezza sottoforma di contributo in rapporto percentuale a quello che guadagna,senza entrare nel merito del come abbia ottenuto tale ricchezza:discorso ancor più ampio includendo le grandi aziende del web che non pagano il dovuto all'erario italiano(vedi:madn 46-miliardi-di-eurotanto-per-cominciare )
Nell'articolo di Contropiano(tassazione-dei-grandi-patrimoni-una-modesta-proposta )oltre a fare il discorso dai più conosciuto ed appurato da numeri sulla grande differenza che porta ad una diseguaglianza tra il numero di persone di chi detiene il patrimonio maggiore rispetto a quelle che non guadagnano le stesse cifre(vedi a livello globale:madn essere-l1-o-il-99 ),si pone la differenza enorme tra le tasse che riguardano il reddito da lavoro e quelle sulle attività finanziare.
Modificando in maniera decisa gli scaglioni in base al reddito alla faccia delle auspicate flat tax,combattendo in maniera costante ed efficace l'evasione fiscale e facendo tornare i patrimoni che finiscono verso paradisi fiscali esteri oltre a quello riportato sopra,sarebbe non solo un buon inizio ma quasi certamente la fine dell'oppressione fiscale soprattutto verso la grande maggioranza della popolazione italiana.

Tassazione dei grandi patrimoni. Una modesta proposta.

di  Sergio Cararo   

In tempi di crisi e di necessità di reperimento delle risorse per far sì che gli effetti della pandemia e delle misure “contro” la pandemia non riducano alla miseria milioni di persone, occorre fare due conti su chi avrebbe perdere da una tassazione sui patrimoni privati che consentirebbe di avere a disposizione consistenti risorse economiche per le casse pubbliche e per e esigenze sociali. 

E qui viene la prima domanda. In Italia chi avrebbe da temere da una “patrimoniale” sui grandi patrimoni? Solo 400mila ricchi su ben 60 milioni di persone, è molto meno dell’1% della popolazione.

E’ impressionante però che, appena si senta evocare la parola “patrimoniale”, la mano di alcuni corra subito alla pistola ed inizi un fuoco di sbarramento senza precedenti.

E’ vero che in passato il criterio della tassa patrimoniale ha avuto un estensione che l’ha arbitrariamente resa erga homnes, colpendo un po’ tutti e non solo i possessori di patrimoni rilevanti.

E’ stato il caso dell’ISI (Imposta Straordinaria sugli Immobili) nella Legge Finanziaria di Amato nel 1992, la stessa che in una notte fece il prelievo forzato su tutti i conti correnti. E’ stato il caso dell’Ici (Imposta Comunale sugli Immobili), introdotta sempre da Amato, per onorare la prima stangata “lacrime e sangue” in nome del Trattato di Maastricht. Poi c’è stata l’Imu, prima su tutte le abitazioni, poi escludendo le abitazioni di residenza.

Tutte imposte a loro modo patrimoniali (cioè sul patrimonio rappresentato dalle proprietà immobiliari), che però in passato hanno colpito anche chi aveva solo una casa dove abitava o aveva ancora un mutuo in corso, ovvero non era ancora pienamente proprietario dell’abitazione. Se avesse cessato di pagarne le rate, la proprietà diventava automaticamente della banca.

Nel corso degli anni, questa imposta “patrimoniale” sulle abitazioni si è riconvertita più saggiamente, esonerandone le prime case, quelle in cui si abita.

Poi c’è la tassazione sui prodotti finanziari (azioni, obbligazioni, titoli di Stato) che va da un minimo del 12,5% ad un massimo del 23%. Nulla a che vedere con la tassazione imposta sui redditi di lavoro che nella parte superiore ai 18mila euro, supera già questo ultimo livello.

Il reddito da lavoro oggi è più tassato di quello derivante da attività finanziarie. Chiaro?

Da questo punto di vista, per paradosso, sarebbe sufficiente equiparare la tassazione sui prodotti finanziari a quella sui redditi da lavoro per scaglioni (cioè la stessa aliquota su 30.000 euro da lavoro come su 30.000 euro da rendita finanziaria)  per avere soldi a palate nella fiscalità generale.

Ma anche da una “patrimoniale” mirata sui grandi patrimoni, in Italia chi è che avrebbe qualcosa da temere? Non tutti, non tanti, ma pochi. Andiamo a vedere.

L’edizione 2019 dello studio di Boston Consulting Group sulla ricchezza nel mondo, monitora anche quanti e quanto siano ricchi i ricchi in Italia. Il nostro paese figura al nono posto nel mondo per numero di milionari, con ben 5 mila miliardi di ricchezza finanziaria personale (prevista in crescita a 5,6 mila miliardi entro il 2023) sulla ricchezza privata complessiva (finanziaria e immobiliare al 95%) che si aggira sui 9mila miliardi di euro.

In pratica quasi il 60% della ricchezza privata è in mano ad un ristretto numero di persone. Non solo. Nella graduatoria dei Paesi in cui vivono persone dotate di un patrimonio superiore ai 100 milioni, l’Italia passa dalla ventiduesima alla quinta posizione, con il 4% dei super ricchi di tutto il pianeta.

Nella ricerca di Boston Consulting, si rileva che nel mondo le persone con un patrimonio compreso tra i 250 mila e 1 milione di dollari sono circa 76 milioni. Questi soggetti vengono definiti come “affluent”. Nel nostro Paese, gli affluent sono 1,4 milioni di persone, mentre i milionari veri e propri costituiscono un gruppo ristretto di 400mila persone su 60 milioni di abitanti, molto meno dell’1%.

In Italia ci sono dieci persone che da sole possiedono una ricchezza di 100 miliardi di euro. All’estero risultano depositati 174,9 miliardi di euro di ricchezza privata di soggetti italiani, ma sono solo quelli che si è riusciti ad individuare.

Nel nostro paese, mentre il 10% più ricco della popolazione (più o meno 5 milioni di adulti) ha aumentato la sua quota di reddito nazionale guadagnando il 30% del totale, la metà più povera degli italiani guadagna una quota sempre minore, circa il 24%. Il reddito totale italiano, così come riportato nei conti nazionali, è più o meno 1.500 miliardi di euro, quindi i 5milioni di italiani più ricchi hanno mediamente un reddito di 90 mila euro annui e i 25milioni di italiani più poveri, invece, si accontentano (in media) di circa 15mila euro lordi annui.

Poi ci sono gli ultra-ricchi, cioè circa 500mila adulti, che detengono il 7,5% del reddito nazionale nel 2016, cioè circa 225.000 euro a testa. Naturalmente annui.

La classe media invece, cioè i 20 milioni di adulti, in mezzo tra i più poveri ed i più ricchi, dopo un lungo trend decrescente ha visto negli ultimi tre anni un lieve aumento del reddito e nel 2016 il reddito medio di questa fascia della popolazione era, in media, circa 34.500 euro lordi annui, ovvero il 46% del reddito nazionale.

Si può quindi concludere che anche in Italia è presente una forte disuguaglianza dei redditi, che oltretutto non accenna a ridursi. Anzi.

Tuttavia, questo è solo uno dei vari aspetti delle disuguaglianze nel nostro paese. Uno studio della Banca d’Italia, ad esempio, riscontra una forte disuguaglianza di opportunità dovuta ad un’alta persistenza delle condizioni economiche di partenza degli individui. L’ascensore sociale, in altri termini, è bloccato; se nasci povero, difficilmente puoi cambiare il tuo status.

Se invece del reddito guardiamo poi alla ricchezza accumulata, un altro studio della Banca di Italia ha misurato una distribuzione del patrimonio italiano fortemente concentrata, per cui il 10% della popolazione con più ricchezza detiene il 46% del patrimonio totale.

Distribuzione di reddito e distribuzione di ricchezza sono molto differenti, ma sono fortemente correlate. La distribuzione della ricchezza è maggiormente diseguale ed a maggior concentrazione. La strettissima relazione tra le due comporta che ad aumenti della disuguaglianza nella distribuzione patrimoniale seguano aumenti nella disuguaglianza dei redditi.

Se i redditi da lavoro, unica fonte di reddito per la maggioranza delle famiglie, non crescono, è evidente come il capitale (la ricchezza patrimoniale, immobiliare e finanziaria) continua ad avere sempre maggiore importanza generando crescenti livelli di disuguaglianza.

I redditi delle sempre maggiori attività finanziarie aumenteranno lo stock di ricchezza patrimoniale anno dopo anno, e in un contesto con scarsi investimenti produttivi questa accumulazione non fa che aumentare la rendita finanziaria, ancor prima dei profitti.

La disuguaglianza inaccettabile è che, ad esempio, le imposte sul lavoro sono mediamente più alte di quelle sulla ricchezza dovuta a prodotti finanziari.

Quando si vende un titolo azionario con un guadagno, viene tassata la differenza tra il prezzo di vendita (al netto delle commissioni pagate all’istituto bancario) e il cosiddetto prezzo di carico, o fiscale, ossia il valore di acquisto comprensivo delle commissioni. Su questa differenza si applica un’imposta del 26%. La stessa aliquota del 26% è applicata ai dividendi staccati dal titolo.

Per le obbligazioni societarie l’imposta, su interessi e plusvalenze, è passata dal luglio 2014 dal 20% al 26%. In questa categoria sono comprese obbligazioni italiane ed estere. Anche le plusvalenze sui derivati (opzioni, future, swap, certificati o cfd) sono tassate al 26%.

I guadagni da titoli di stato come BTP (e BTP indicizzati), BOT, CCT e CTZ sono invece tassati al 12,5%.

Sugli stipendi da lavoro dipendente sono attualmente previsti 5 scaglioni di reddito, pagando le imposte alla fonte (qui nessuna evasione è possibile per il salariato) in base alla relativa aliquota Irpef, collocata in un range tra il 23% e il 43%.

A questa si sommano le addizionali Irpef comunali e regionali da versare agli enti locali, in base alla residenza. Le Regioni possono applicare l’imposta entro il tetto massimo di 3,3% mentre i Comuni entro lo 0,8%, tranne casi particolari (a Roma ad esempio è dello 0,9%).

Le imposte sui redditi da lavoro, appena si superano i 15mila euro lordi l’anno (tassati a 23%, ad esclusione della no tax area), vedono balzare le imposte ad una aliquota del 27%, superiore di un punto a quella sui prodotti finanziari. Se poi si superano i 28mila euro lordi – nei redditi da lavoro – si salta subito al 38%, ben 12 punti in più della tassazione sui prodotti finanziari.

Possiamo dirlo allora che nel nostro paese il vero problema della crescente disuguaglianza sociale, della mancata redistribuzione sia del reddito che della ricchezza, sono proprio i ricchi? In questi anni di crisi –ed ora con la pandemia di Covid – si sono arricchiti ancora di più a discapito del resto della popolazione.

Ma i soldi – come abbiamo visto – ci stanno eccome, stanno solo e ancora nelle mani sbagliate, invece di essere messi a disposizione lì dove servono. Jonathan Swift, l’autore di Gulliver, fece scalpore nel Settecento con la sua provocatoria “modesta proposta”: quella di far mangiare ai poveri i propri figli. Oggi potremmo rispondere con il suo contrario: Eat the rich!! Mangiamoci i ricchi e ce ne sarà per tutti. Se non vorranno essere mangiati aprano i cordoni della borsa e partecipino allo sforzo generale del paese in questa fase di crisi globale.

Il problema della enorme appropriazione privata della ricchezza in Italia e delle accresciute disuguaglianze sociali che ne derivano, verrà acutizzata spaventosamente dalla recessione accentuata dalla pandemia in corso. Il problema della redistribuzione della ricchezza si pone e si pone concretamente, già nel breve periodo. E sarà una lotta feroce.