I presidenti e le Regioni sono parte del problema, non della soluzione.
di Sergio Cararo
Abbaiano come cani alla luna nel tentativo, contraddittorio, di allontanare da sé le proprie responsabilità. Sono i presidenti delle Regioni, soprattutto di quelli finiti in zona rossa, ma anche di quelle colorate in modo diverso da quanto atteso (o temuto) e quindi sottoposte a maggiori o minori restrizioni.
Quello che sicuramente non ha diritto di parola è Fontana. Le sue responsabilità sullo smantellamento della sanità pubblica ancora prima della pandemia, sono evidenti e totali. C’è da augurarsi che la Procura di Milanno prima o poi prenda in esame il dettagliato esposto presentato ad aprile da Giorgio Cremaschi e Viola Carofalo, i due portavoce di Potere al Popolo.
Fontana, con senso del ridicolo, si appella al fatto che “L’ultima valutazione della Cabina di Monitoraggio del Cts con l’analisi dei 21 parametri – ha argomentato Fontana – risale a circa 10 giorni fa”. Dati non aggiornati quindi, secondo Fontana che parla di “schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. E poi rincara la dose: “A rendere ancor più incomprensibile questa decisione del Governo sono i dati attraverso i quali viene adottata: informazioni vecchie di dieci giorni che non tengono conto dell’attuale situazione epidemiologica”. Gli fa eco il presidente del Piemonte Cirio (Lega) finito anch’esso in zona rossa.
Eppure tutti sanno che sul piano sanitario le cose con il passare dei giorni sono peggiorate e non migliorate.
Il più scandaloso di tutto, ma sul piano politico, è il presidente della Regione Sicilia Musumeci che ha parlato di “decisione immotivata” ricordando la possibilità di ricorrere alla giustizia amministrativa. “Eravamo assolutamente convinti che saremmo stati inseriti nella fascia gialla – ha detto – altre regioni che potevano stare al posto nostro e questo alimenta sospetti. Tutte le zone penalizzate sono regioni che appartengono al centrodestra: non ho la certezza, ma il sospetto sì”.
Il ricorso contro il Dpcm accennato come ipotesi da Musumeci, viene invece annunciato ufficialmente dalla Calabria. “Impugneremo la nuova ordinanza del ministro della Salute che istituisce la zona rossa in Calabria. Questa regione non merita un isolamento che rischia di esserle fatale”, ha affermato il presidente facente funzioni Nino Spirlì che parla di volontà preconcetta di chiudere una regione i cui dati epidemiologici, di fatto, non giustificano alcun lockdown. Ovviamente Spirli tace completamente sulla situazione disastrosa della sanità pubblica in Calabria smantellata e commissariata da anni e non assolutamente in grado di fare fronte ad una emergenza pandemica anche largamente inferiore di quella in altre regioni.
Al momento fanno i pesci in barile Michele Emiliano, presidente dell’altra regione ‘arancione’, la Puglia, e quello del Veneto Luca Zaia che dispensa anche pillole di saggezza. “L’area gialla non è ‘area verde’ – ha sottolineato – il virus c’è e il giallo al semaforo dura poco e poi c’è il rosso. Non è un gioco a premi né c’è da vantarsi di essere i primi della classe perché può accadere di tutto da qui ad una settimana. Non ci deve essere entusiasmo oltre misura e bisogna ricordare che c’è una componente che ci fa passare da giallo ad arancione o a rosso che dipende solo dai cittadini”.
Preso in contropiede e contraddittorio come sempre è il presidente della CampaniaVincenzo De Luca che si è detto “convinto della necessità di misure nazionali unitarie, anche più rigorose, per una azione più efficace di contrasto al Covid, a fronte di una diffusione sostanzialmente omogenea del contagio”. Secondo De Luca “si rischia ora un paradosso, che chi è in zona rossa o arancione fra un mese riapre tutte le attività, avendo frenato il contagio; e chi oggi chiude gli occhi, dovrà bloccare tutto nel periodo natalizio”.
Allineati al governo invece Nicola Zingaretti per la Regione Lazio e il presidente toscano Eugenio Giani, entrambe zona gialla. apprezza il provvedimento del governo. Allineato anche Stefano Bonaccini. “Non esistono zone verdi – ricorda il presidente dell’Emilia Romagna – la priorità ovunque nel Paese è una sola: invertire la curva pandemica, frenare il contagio, perché la situazione e’ peggiorata nelle ultime settimane. Dobbiamo evitare che nelle prossime settimane le strutture sanitarie e ospedaliere subiscano una pressione tale da mettere in discussione servizi e prestazioni ordinarie, per tutelare la salute di ogni persona”.
Insomma, ancora una volta, i presidenti delle Regioni hanno dato dimostrazione della loro inaffidabilità, anzi della loro dannosità nella gestione di una emergenza nazionale come la pandemia. Non solo. Le loro responsabilità sullo stato disastroso con cui la sanità pubblica (di loro competenza) si è trovata a far fronte all’emergenza, sono apparse evidenti indipendentemente dalla collocazione politica dei presidenti e delle giunte.
La filosofia delle Regioni in questi decenni è stata quella di tagliare la sanità pubblica, smantellare la sanità territoriale e dare spazio alla profittabilità della sanità privata. Ormai si impone un cambio di passo sull’esistenza delle Regioni come istituzioni di governo. Cinquanta anni dopo la loro istituzione il bilancio che se ne trae è pesantemente negativo e l’idea di scioglierle non deve più essere un tabù. In primo luogo occorre i poteri interdittivi della Conferenza Stato-Regioni e ridurla a mero organismo consultivo. Il secondo segnale da inviare subito è quello di seppellire immediatamente ogni discorso sull’autonomia differenziata che queste contraddizioni vorrebbe aumentarle per scelta.
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