Terremoto del 23 novembre 1980: una scossa mai terminata.
di Michele Franco
Era una domenica – precisamente le 19,34 – del 23 novembre ’80, quando il sisma si scatenò entrando, prepotentemente, nella vita, negli affetti, nel lavoro e nell’insieme delle relazioni sociali di una ampia area del meridione d’Italia. Dalle zone del Sud Pontino laziale fino giù verso la costa Tirrenica Calabrese, passando per l’intera Campania – con particolare virulenza in quel “cratere” localizzato nel cuore dell’Irpinia – ed allargando il suo raggio di morte fino ai paesi del versante potentino della Lucania. Un’ampia zona, quindi, dal mare alla catena appenninica, attraversata da un sisma che provocò – secondo le cifre ufficiali – 2914 morti, 8848 feriti e circa 280000 sfollati e senza tetto. Un disastro di proporzioni enormi i cui effetti, ad ampio raggio, sono riverberati fino ai giorni nostri.
Basta interloquire con una persona campana o lucana – che ha superato di poco i 40 anni – e si coglie subito che nei ragionamenti generali, nei modi di interpretare il tempo andato, O’ Terremoto costituisce un prima ed un dopo, una sorta di frattura temporale e di originale parametro di periodizzazione della propria ed altrui esistenza. Insomma – senza scomodare sociologi o altre figure accademiche – posso affermare che O’ Terremoto è stato un evento totalizzante, spalmato per decenni lungo diverse generazioni ed entrato, di fatto, nei comportamenti e nelle modalità di vita e di riproduzione sociale di milioni di persone nella più importante area del Meridione d’Italia.
Ma il Terremoto è stato – soprattutto – un potente fattore di accelerazioni politiche e strutturali che hanno profondamente modificato (..in peggio!) la composizione di classe, il tessuto produttivo, le forme di comando e controllo della governance capitalistica e l’intera forma della società. Un processo poderoso, lungo nell’arco dei decenni e profondamente permeante in tutti gli interstizi della società napoletana, campana e – per larghi tratti – meridionale.
40 anni in cui le molteplici forme dell’Intervento Statale (eravamo ancora nel pieno della cosiddetta Prima Repubblica, quella dei Gava, Scotti, De Mita ma anche dei Napolitano e Chiaromonte) da quelle economiche a quelle legislative fino alle politiche repressive hanno piegato – agli interessi del capitale, dell’imprenditoria e del sistema parassitario che sosteneva l’impalcatura politica/partitica che allignava in quella congiuntura politica – un evento naturale, e catastrofico, come un Terremoto.
A distanza di 40 anni nelle aree interne della Campania e della Basilicata poco è cambiato in termini di polarizzazione sociale, di squilibrio economico e di nuove e vecchie forme di emarginazione salariale (neanche lo stabilimento Fiat a Melfi ha modificato il dramma occupazionale esistente).
Tale condizione è una diretta – anche se non lineare – conseguenza del complesso delle scelte economiche e di pianificazione che furono adottate all’indomani del sisma attraverso quell’articolato sistema di potere che è riuscito a far dialettizzare tra loro la politica, l’impresa e i piccoli/grandi interessi criminali vigenti nei territori.
Parimenti, invece, nelle aree metropolitane e lungo la fascia costiera questa dinamica – magari ammantata da un alone di presunta modernità – ha squadernato l’insieme della patologie antisociali che connaturano le tipologie prevalenti delle metropoli imperialistiche collocate nei punti topici dello sviluppo capitalistico.
Infatti l’area metropolitana partenopea – la più grande d’Italia – anche a seguito degli sconvolgimenti indotti dal sisma del 23 novembre 1980 si è andata configurando, sempre più, con le caratteristiche antipopolari e fortemente polarizzanti che certificano la natura di un enorme agglomerato urbano in cui tutti gli indicatori statistici e materiali sono rilevatori di questa funzione antisociale e del suo costante imbarbarimento.
Da questo punto di vista non a caso – alla fine degli anni Ottanta – la città di Napoli fu sede di significativi momenti di discussione tra le varie teste d’uovo capitalistiche in materia di trasformazione architettonica ed urbanistica delle metropoli. Tali apprendisti stregoni provavano le loro alchimie nel vivo di una composizione sociale e di una città che si disponeva ad autentico laboratorio dove sperimentare queste forme di manomissione e di vivisezione antiproletarie.
Basti tornare alle elaborazioni ed agli studi di Confindustria, della Fondazione Agnelli, di alcune multinazionali statunitensi e di molte facoltà universitarie di quegli anni ed è possibile riscontrare progetti, idee/pilota e quant’altro che scaturì da quelle terribili progettazioni.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: aumento delle disparità sociali, incrudimento di tutte le questioni afferenti lo stato delle periferie, distruzione di ciò che residuava della vecchia industria di stato e frantumazione/polverizzazione del tessuto economico ed occupazionale con un aumento a dismisura delle tipologie di lavoro povero, nero, grigio e completamente deregolamentato.
Insomma O’ Terremoto servì a completare l’integrazione e la sussunzione a pieno titolo dell’area metropolitana napoletana nei dispositivi del capitalismo tricolore e dell’azienda/Italia che proprio alla fine degli anni Ottanta si predisponeva ad un cambio di passo con la fine della Prima Repubblica, il dissolvimento dei partiti storici (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista) e l’avvio del percorso dentro il processo continentale di costruzione del polo imperialista europeo.
La stessa dinamica storica, economica e sociale della dicotomia Nord/Sud conobbe una strozzatura ed un riadeguamento strutturale verso nuove definizioni materiali.
Il progetto di Ricostruzione Post Terremoto fu uno degli ultimi atti di una politica d’intervento statale che guardava, comunque, al Sud come ad un territorio che necessitava di atti straordinari e di un surplus di attenzione. Infatti, di lì a poco, nell’ambito del risanamento economico nazionale, fu abolita la Cassa per il Mezzogiorno e le altre forme di sussidiarietà verso il Sud facendo riemergere – di nuovo – una storica ma mai risolta Questione/Contraddizione Meridionale.
In questo contesto non mancò, anzi fu un soggetto attivo dentro i processi politici e le forme della ristrutturazione capitalistica il conflitto di classe e numerosi fenomeni di autorganizzazione popolare.
A seguito del Terremoto presero corpo lotte durissime, variamente articolate e diffuse in tutto il territorio. Dalla denuncia del criminale sistema dei soccorsi, alle lotte per il lavoro e per il diritto alla casa fino ad un significativo protagonismo attorno ai temi ed alle scelte del processo di Ricostruzione post sisma.
Per molti anni – dopo il 23/11/1980 – vasti movimenti di lotta hanno attraversato la metropoli partenopea ponendo il sacrosanto tema del diritto a vivere, finalmente, con dignità.
Movimenti di lotta e Vertenze che hanno conquistato migliaia di posti di lavoro, che hanno conseguito il raggiungimento dell’obiettivo del diritto all’abitare per decine di migliaia di famiglie e che sono stati una spina nel fianco alle diversificate esperienze di comando politico ed amministrativo che si sono succedute a Napoli e in Campania.
Ma questa è un’altra storia che andrebbe affrontata con una trattazione specifica e seriamente documentata. In rete e in libreria esistono molti lavori di riflessione ed altri sono in gestazione e saranno pronti nei prossimi mesi per cui rimandiamo a questi elaborati.
Ora, in occasione di questo particolare quarantennale – in piena crisi pandemica globale – abbiamo voluto ricordare questa pagina di storia della nostra vita e del nostro Sud.
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