mercoledì 27 gennaio 2016

GEZA KERTESZ ALLENATORE DELL'ATALANTA E VITTIMA DELLA SHOAH

Nell'articolo preso dal sito di Atalantini.com(http://atalantini.gecosistemi.com/com/comfullheadline11.php?subaction=showfull&id=1453894200&archive=&start_from=&ucat=2& )si parla di un articolo già proposto anni addietro e che fa riferimento alla storia di una delle vittime dalla Shoah che è stato allenatore dell'Atalanta nel biennio 1938-39 e che troverà la morte per mano dei nazisti il 3 febbraio 1945 in Ungheria,sua terra d'origine.
La storia romanzata degli ultimi istanti di vita di Géza Kertész è toccante e coincide con la sua fine tragica come quella mi milioni di ebrei perseguitati dalla folle ideologia nazifascista,in quello che rimane il più grande sterminio di massa che la storia abbia mai avuto dall'esistenza dell'uomo sulla terra.
Un altro articolo preso da Bergamopost(http://www.bergamopost.it/chi-e/lallenatore-dellatalanta-che-salvo-gli-ebrei/ )parla di Géza Kertész dai suoi successi di allenatore fino alla morte

Nel giorno del ricordo della Shoah ricordiamo Géza Kertész.

Allenatore atalantino, ungherese, ebreo, Géza Kertész morto nell'Olocausto. Oggi il mondo ricorda la Shoah e lo facciamo anche noi con questo bel pezzo che abbiamo pubblicato 5 anni fa.

Ventisette gennaio.
Il professor Caudano, che della memoria è cultore, questa giornata se la sente addosso. E anche se a scuola ai ragazzi non ha detto nulla, in cuor suo ci pensa: non gli paiono tempi in cui ci si possa permettere il lusso di dimenticare alcunché, se mai ve ne sono stati.
Anni fa, neolaureato, accompagnò i suoi in un viaggio organizzato dalla diocesi di Jesi sul Danubio, e fecero sosta anche a Mauthausen. Ne conserva immagini indelebili: il paesino ridente, la strada che sale una collina infiorata e ilare e poi, dietro una curva, improvvisamente, le torrette, i fili spinati, le mura: i torvi segni della follia.
Ogni volta, il ventisette gennaio riguarda le poche foto che realizzò. Non erano ancora i tempi del digitale e della bulimia da scatto: si centellinavano le inquadrature, i rullini avevano limiti precisi (12, 24, 36 pose al massimo), si ignorava l'esito fino a sviluppo avvenuto. Tutto induceva alla parsimonia, eppure qualcosa di bello gli venne, quella volta. E non solo dal duomo di Ulm o nell'incanto di Passau, no: anche dentro il Lager, dove aspettò sempre che il gruppo fosse passato, per immortalare corridoi, baracche, docce e vialetti in un vuoto spettrale.

Oggi, dopo i giorni della neve, sui colli marchigiani osa un sole timido, che rende ambrato e dolce il pomeriggio. Il professore, come per un rito laico, ha riletto una pagina di Claudio Magris proprio su Mauthausen, ha risfogliato il suo album e ora sta cercando un testo per il primo scritto di Italiano del secondo quadrimestre. Deve far svolgere un riassunto in una prima, ma gli occorre un brano che possegga alcuni requisiti: vorrebbe infatti che non fosse né troppo breve né troppo lungo, né troppo semplice né troppo complesso, e che i ragazzi vi ritrovassero e riconoscessero alcune delle nozioni che hanno studiato, dall'inizio “in medias res” alla tecnica del “flash-back”.
Sfoglia antologie e libri suoi, passa di autore in autore, da Benni a Tonino Guerra, da Singer a Salinger, da Buzzati a Tabucchi. Niente: un racconto è troppo prolisso, l'altro troppo oscuro, l'altro troppo breve.
Il tempo passa e Caudano ha paura di non approdare a nulla. Ripiegare su qualcosa qualcosa di già utilizzato altri anni non gli va. Gli pare una sconfitta.
Allora, tanto varrebbe che se lo inventasse lui il racconto con le caratteristiche giuste... Se lo dice quasi per scherzo, ma poi si ferma a valutare quell'idea balzana, e se ne lascia tentare: scriverlo lui, questo benedetto testo, e poi somminstrarlo ascrivendolo a un autore fittizio. Tanto, un ragazzino di prima che ne sa?
Così ci può mettere ciò che vuole, delle diavolerie narratologiche che gli tocca affrontare seguendo le imposizioni dei programmi ministeriali.
La sfida con se stesso lo stimola, e potrebbe risolvergli davvero il problema.
Tanto più che è il ventisette gennaio, e lui da tempo ha in mente un volto e una storia. Anche se dell'uomo titolare del volto conosce in pratica soltanto quello, e della storia quasi niente.
Meglio, si dice: mi divertirò a inventare.
Sono quasi le cinque quando siede al tavolo inizia a scrivere fitto, con la sua ordinata grafia:

“Che ne sanno questi soldati tedeschi? Di sicuro non sanno chi sono né sanno nulla della mia vita. Gli avranno detto di venirmi, di venirci a prendere, e loro avranno immaginato il perché. Ma niente di più. Soprattutto, loro non possono indovinare che cosa mi porto io nel cuore e a che cosa mi piace pensare adesso, per regalarmi una consolazione con le ultime immagini che mi sfilano nella mente. Chi sono, lo sapevano quelli che li hanno mandati a prendermi, se mai. Ma forse anche loro sapevano solo che sono ebreo. E basta. Che siamo ebrei, anzi. Io e il mio amico Áron, che ora piange disperato e mi dice Géza è colpa mia, se non mi avessi ospitato a quest'ora non saresti qui, Géza questi ci fucileranno fra poco, hai capito? Sì, ho capito, l'abbiamo capito appena hanno bussato alla porta e si è sentita la loro lingua risuonare gelida e spigolosa sul pianerottolo, ma io gli sorrido senza parlare, e lo accarezzo sui capelli, mentre lui sussulta piangendo, la testa sul tavolo, la schiena curva. Povero Áron. La colpa non è sua. Forse è della mia vicina, o della portinaia, o chissà. Io preferisco pensare che sia solo del caso e che non esista nessuno che si vende la vita di qualcun altro per pochi soldi. Ho la faccia di un uomo buono, io; sono sempre stato un uomo buono. Intelligente e buono. Perché il primo tratto della vera intelligenza non può essere che la bontà, mi diceva sempre mia madre.
Áron non smette di piangere. Io gli sto accanto, gli sussurro che non ce l'ho con lui e intanto ricordo. Mi aggrappo ai ricordi.
Neanch'io so questo perché, o forse sì, lo so.
Io, Géza Kertész, ungherese nato a Budapest sotto il regno di Sua Maestà l'Imperatore Francesco Giuspeppe I d'Absburgo nel mese di novembre dell'anno 1894, a pochi istanti dalla mia morte penso a una piccola e bellissima città italiana che qui nessuno conosce né ha visto mai, ma che io porto nel cuore.
Come per una segreta rivincita.
O come per riandare a una lontana premonizione. O per scacciarla.
Di mestiere, ho fatto prima il calciatore e poi l'allenatore di calcio.
Amavo il verde del campo, l'odore dell'erba e il cielo azzurro sopra le corse, le fughe, le piroette e il pallone di cuoio scuro che si alzava così spesso, quasi a tentarlo.
Per un infortunio, ho iniziato presto ad allenare, in Italia.
Questi soldati non sanno niente, figurarsi...
Triste approdo, in uno stanzone lurido e poi nel cortile di caserma che intravedo li fuori e che Áron non ha il coraggio di guardare, triste tanto più per uno come me, che ha il calcio e lo sport nel sangue.
In Italia ero un allenatore stimato, in ascesa.
Avevo idee innovative, adoravo il calcio come la letteratura, pensavo che una buona squdra deve essere come un buon libro, piacevole e insieme con dei contenuti, capace di arrivare al suo fine.
Giocavano bene, i miei ragazzi.
Sono stato allenatore da molte parti.
Prima nelle serie inferiori: Liguria, Campania, Sicilia. E alla fine in serie A a Roma, la capitale. Ne sono scappato quando la guerra mi ha costretto. Rimanerci sarebbe stato un azzardo senza senso. Ma sono stato allenatore sia della Lazio sia della Roma.
In ogni caso, prima di Roma, in serie B ci fu la piccola e bellissima città.
Lì il cielo era di un azzurro limpidissimo, quando era azzurro. Il pane, una delizia. La città era come su due livelli, quella bassa, moderna, e il borgo antico, quella alta.
Lo stadio,costruito da poco, era giù; io però abitavo in alto: un sortilegio di tetti e campanili, strade strette e fontane. Mi affascinavano la piazza, le mura, i colli intorno.
La squadra aveva disputato il suo primo campionato di serie A, l'anno precedente, ed era retrocessa. Avevano una grande smania di riscatto. Mi chiamarono perché c'era un nuovo presidente che ambiva anche a un gioco arioso. La gente ci seguì entusiasta, quella gente che mi volle subito bene, forse perché ero un uomo pulito e leale, e si vedeva; forse perché ero un austrungarico di nascita, e loro sotto gli austriaci in fondo erano stati bene; o forse perché è gente saggia e laboriosa, che sa distinguere quelli di cui si può fidare.
In campo, ricordo due nomi su tutti: il giovanissimo Amedeo Amadei, il fornaretto di Frascati, argento vivo addosso, che poi ritrovai alla Roma, e un ragazzo splendido e serissimo, umile, il centrocampista Severo Cominelli, ineguagliabile.
Eravamo una bella squadra.
Peccato fosse il '38 e cominciassero a soffiare i venti avvelenati che mi hanno portato fino a questo osceno luogo e a questo istante atroce.
Cercavo di non sentirli. Era tutto troppo perfetto perché la cieca crudeltà della Storia potesse rovinarlo. Giocammo un campionato strepitoso, l'impresa più squillante a Firenze, tre a zero contro i favoriti che poi in effetti si sarebbero aggiudicati il torneo. Tante trasferte vittoriose, da Vigevano a Lodi, da Sanremo a Casale.
Poi, poi venne l'ultima in casa, contro il Venezia...
Noi secondi a 43 punti.
Il Venezia, terzo a 41.
Si sale in due sole. Fiorentina e una fra noi e loro.
Possiamo al limite anche perdere, basta che segniamo un goal, perché decisivo è il quoziente reti. Invece, perdiamo uno a zero e restiamo in serie B.
Se ne dissero di tutti i generi.
Più persone, quando me ne andai chiamato dalla Lazio, mi salutarono con le lacrime agli occhi; e in un paio mi sibilarono all'orecchio che dentro la squadra qualcuno aveva tradito, nella partita decisiva.
Che ero troppo buono...
Io non ci ho mai creduto, però.
Come non voglio credere, adesso, che qualcuno abbia volutamente venduto me e Áron a questa morte inutile e stupida.
Altrimenti, quella maledetta partita con il Venezia sarebbe davvero stata davvero una premonizione oscura sul mio destino, e io questo non lo posso accettare.
Perché io di quell'anno, forse il più entusiasmante che abbia vissuto, preferisco tenermi negli occhi il campo da gioco, i pomeriggi di sole e di gioia, la mia squadra che vince e il profilo della città alta sullo sfondo del tramonto, come lo vedevo a fine allenamento nei giorni di primavera.
La mia esistenza non è né in quel finale assurdo né in questo.
Io ho avuto e sono stato altro.
Áron piange piano.
Fra poco grideranno il suo nome e cognome, poi il mio. Sono precisi, i tedeschi: seguiranno l'ordine alfabetico anche per mandarci a morire.
Sorriderò. Sorriderà, Géza Kertész .
Ma a una squdra e a una città lontane, e alla sua vita felice finché ha potuto essere vita”.

Posa la penna, Caudano. I fogli son colmi di parole e di cancellature.
Può essere quello il finale?
E può reggere, il racconto?
No, Elvio è un buon lettore e lo sa: è stata una fatica totalmente inutile.
Il suo testo è non solo il peggiore di tutti quelli che ha passato in rassegna, ma anche il meno adatto per un riassunto in una prima.
Suonano le sette: tempo ormai di passare da sua madre, e per la verifica di domani gli rimane ancora tutto da risolvere. Ha solo perso tempo.
Per una volta, però, non gliene importa.
Forse, aveva solo voglia di scrivere e di fantasticare sul volto umanissimo di Géza Kertész, ed è contento di averlo fatto.
Anche se non servirà a nulla perché nessuno leggerà quel tributo di affetto al più sfortunato degli allenatori passati da Bergamo e dall'Atalanta.
Alla sua promozione persa sul filo e alla sua esistenza persa per niente.

Secundus
"Figurine"
28/01/11


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L’allenatore dell’Atalanta che salvò gli ebrei.

Lo chiamano “lo Schindler del Catania”, perchè fu alle pendici dell’Etna in cui trovò la sua città italiana d’adozione e perchè proprio in Sicilia ricordarono per primi il suo terribile destino, anticipato da gesta profondamente nobili sul lato umano. Géza Kertész, però, è passato anche da Bergamo dove allenò la Dea e sfiorò la promozione in massima serie.
Profeta nel Sud Italia. In Italia ci arriva a metà degli anni Venti, quando uno stragrande numero di allenatori ungheresi si dirige verso la penisola. La prima meta è Carrara, dove, curiosamente, verrà sostituito da Imre Payer, tre volte tecnico dell’Atalanta. Al Sud trova maggior spazio fra terza e seconda serie fino a vincere il campionato di Serie C con il Taranto nel 1937. Nel 1938 i nerazzurri puntano al ritorno in Serie A e si affidano al coach magiaro che, nel frattempo, è diventato uno dei sostenitori del “Sistema” (o WM), ovvero lo schema con 3 difensori, 4 mediani e 3 punte introdotto da Herbert Chapman in Inghilterra. Assieme a lui, arriva dalla Roma, in prestito, un ragazzo diciassettenne al quale Kertész dà immediatamente grande fiducia: Amadeo Amadei, futuro centrattacco di Roma, Inter e Napoli.
La promozione sfumata a Bergamo. Nonostante il “Fornaretto”, come verrà simpaticamente chiamato nella capitale, l’Atalanta faticherà molto a trovare la via del gol e sarà probabilmente questo a fare la differenza al termine del torneo. L’Atalanta ingrana la quarta nel girone di ritorno ed inanella una serie di vittorie importanti, anche se due arriveranno a tavolino per intemperanze del pubblico a Casale Monferrato e Vigevano. Il colpaccio di Firenze del 7 maggio (3-0 con reti di Scategni, Nicolosi e Cominelli) sembra il preludio alla promozione con quattro giornate d’anticipo, ma si rivela un incredibile boomerang. La Dea, infatti, perde 4-1 a Vercelli e non va oltre il pari con Anconitana e Spal: la promozione si decide all’ultima giornata nello scontro diretto interno con il Venezia e basterebbe un pareggio per ritornare dopo solo un anno in Serie A. Il gol di Pernigo, nel secondo tempo, premia i lagunari ed il sogno promozione termina, così come termina l’esperienza bergamasca di Géza Kertész.
Sulle panchine delle due romane. Il tecnico magiaro, però, raccoglie i frutti di quanto seminato a Bergamo e troverà prima una panchina alla Lazio e poi a Catania. Nel 1942, infine, viene richiamato nella capitale, questa volta per sostituire Alfréd Schaffer, suo connazionale e artefice dello scudetto di pochi mesi prima. Schaffer rientrerà in Ungheria per poi allenare il Bayern Monaco fino alla morte improvvisa, sopraggiunta durante un viaggio in treno in Baviera a guerra appena conclusa. La guerra è anche la ragione per cui Kertész deve abbandonare la Roma, perchè nel frattempo il torneo nazionale è stato sospeso e presto la sua Ungheria sarà invasa dalla Germania nazista dopo l’armistizio separato di Horthy, poi destituito dal golpe di Szálasi.
Ritorno in Ungheria. Già nel 1943, però, il coach è ritornato a casa e siede per la prima volta sulla panchina di una squadra ungherese: allena l’Ujpest in uno dei pochi campionati mantenuti attivi, nonostante il conflitto. Passa un anno e la vita nella capitale è terribile: il regime delle Croci Frecciate, l’assedio dell’Armata Rossa alle porte della capitale ungherese e la deportazione degli ebrei diventano un peso insostenibile per Géza Kertész, sulla cui attività, però, scende un alone a metà fra il mistero e la leggenda, perchè, di ciò che accade nei suoi ultimi mesi di vita, non è rimasto in piedi praticamente nulla.
Dallam, gli allenatori-partigiani. Gábor Andreides è uno storico ungherese, ma è anche un appassionato di calcio italiano e ha dedicato un libro ai 78 allenatori magiari che stazionarono in Italia fra gli anni Venti e Trenta, portando il calcio nazionale a vincere due mondiali, di cui uno proprio a scapito dell’Ungheria, nel 1938. Cosa accade nel 1944 fra gli allenatori ungheresi? «Va detto innanzitutto che la storia non è chiara nemmeno per noi ungheresi, ma è plausibile che grazie ai contatti con Tóth-Potya, che in precedenza aveva allenato l’Ambrosiana Inter e la Triestina, Kertész entrò a far parte di questa rete clandestina che si opponeva ai nazisti chiamata Dallam, che in ungherese significa Melodia». E come mai questa storia è rimasta sconosciuta? «Queste persone, anzi, questi che non esito a definire eroi, erano un gruppo piuttosto raro nell’Ungheria dell’epoca, perchè la maggior parte degli oppositori alle Croci Frecciate e ai Nazisti erano simpatizzanti di sinistra ed erano vicini all’Unione Sovietica, mentre i componenti di Dallam erano liberali e conservatori, appartenenti alla borghesia cittadina o alla piccola ala filobritannica dell’esercito. Ad esempio Tóth-Potya era un ufficiale di complemento dell’aeronautica». È possibile che le loro imprese siano state tenute nascoste dal successivo regime comunista? «È possibile che anche per questa ragione la storia ungherese sia stata costretta a dimenticarsi di questi personaggi e dico con profondo dolore che le vicende di Dallam siano tutt’oggi fra le meno conosciute».
I ponti di Budapest. Il compito dei componenti di Dallam è simile a quello dei diplomatici dei paesi neutrali: protezione degli ebrei rimasti a Budapest e condannati a rimanere nel ghetto sino alla deportazione in Polonia e Germania, consegna dei salvacondotti per chi cercava rifugio nelle case delle legazioni straniere e supporto alle truppe e ai servizi segreti dei paesi in guerra con la Germania, come ad esempio Stati Uniti ed Inghilterra. Si adopereranno, purtroppo inutilmente, anche per salvare dal bombardamento il ponte Francesco Giuseppe, ora conosciuto come Ponte della Libertà.
A una settimana dalla resa. «Il gruppo a cui appartenevano Kertész e Tóth-Potya venne tradito da alcuni delatori e molto rapidamente vennero fatti prigionieri», racconta Andreides. Nel 1980, ancora in epoca comunista, venne pubblicato su un’enciclopedia storica il resoconto dell’attività clandestina di Tóth Potya: il 6 dicembre venne prelevato dalla Gestapo (e si presume, con lui, anche Kertész) e venne processato per alto tradimento. I due, assieme ad altri oppositori ungheresi e tedeschi, conosceranno la morte lo stesso giorno, il 6 febbraio 1945, all’interno del Palazzo Reale di Buda, che in quel momento ospitava la sede del ministero dell’Interno, dopo numerose torture. Meno di una settimana dopo le truppe tedesche abbandoneranno il castello ed il 13 febbraio la città si arrenderà alle truppe sovietiche. Nel 1946 i due allenatori furono sepolti, l’uno accanto all’altro, nel cimitero di Kerepesi a Budapest. A dare l’ultimo saluto a Géza Kertész fu la figlia Kata, che ricoprì di bara la terra durante una commossa cerimonia funebre.

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