giovedì 12 maggio 2022

GLI ORDINI DI BIDEN A DRAGHI

Il tour pancia all'aria del cagnolino Draghi negli States ha riconfermato,se ce ne fosse stato il bisogno,il totale servilismo italiano nell'ambito atlantista e tra i primi schiavi nell'Unione europea,nel giorno in cui altri leader europei hanno ribadito che la Russia non deve essere umiliata ma bisogna trovare al più presto una soluzione pacifica al conflitto ucraino.
Meglio senza l'intervento della Nato e degli Usa che continuano a foraggiare con investimenti e armamenti la nazione del fantoccio Zelensky,mentre altre voci fuori dal coro sempre più insistenti sia in Italia che in Ue non vogliono più aiuti militari diretti e cercano sempre più soluzioni diplomatiche senza sanzionare maggiormente la Russia.
L'articolo di Contropiano(sofferenze-europee-per-la-guerra-a-trazione-usa )parla dell'intervento dall'americano Draghi,che forse vuole un futuro ruolo di prim'ordine nella stessa Nato dopo esserne stato il fido banchiere,che in visita all'amico Joe ha detto quello che tutti si aspettavano,soprattutto gli statunitensi,con maggiori fondi per la guerra e la garanzia del proseguimento di sottomissione atlantista tanto cara a una platea trasversale di partiti politici nostrani.
Non sarà certamente questa legislatura,e nemmeno le prossime future a meno di clamorosi sviluppi,a farci togliere le basi militari dal nostro paese,anzi aumenteremo ancora le spese militari oltre a quelle per il gas Usa da rigassificare(maggiori costi e impatto ambientale),insomma questa scampagnata a spese nostre è un altro suicidio economico per le tasche degli italiani,sempre più vuote,sempre più logore.

Sofferenze europee per la guerra a trazione Usa.

di Dante Barontini

Qualcosa scricchiola nella poderosa “unità occidentale” contro la Russia. Sul piano continentale è evidente la differente impostazione tra Francia e Germania da un lato, e Italia (e paesi dell’Est) dall’altra.

Il giorno in cui Emmanuel Macron e Olaf Scholz si incontrano e delineano una posizione di “attenzione” nei confronti di Mosca (“non umiliare la Russia” pretendendo la sua sconfitta sul campo e il crollo economico), Mario Draghi detto “l’amerikano” sale su un aereo in direzione Washington.

E’ tradizione che i presidenti del consiglio italiani, nelle situazioni complicate, vadano a prendere indicazioni – o ordini – direttamente alla fonte, in modo da non sbagliare mosse e irritare gli Usa. Cominciò De Gasperi, siamo andati avanti così per 70 anni. E certo il più “euro-atlantico” dei premier europei, e sicuramente non un semplice cameriere ma un “consigliori” molto ascoltato, andrà a rappresentare le difficoltà che attraversano in queste settimane l’Unione Europea.

Comincia infatti a prendere corpo il costo spaventoso che la guerra in Ucraina impone all’Europa, troncando da un lato le forniture energetiche – al momento insostituibili, in quelle dimensioni e prezzi – e dall’altro parecchi mercati di esportazione (non solo la Russia, ma in qualche misura anche la Cina).

Non sembra un caso che lo stesso giorno Scholz abbia avuto una riunione in teleconferenza con Xi Jinping, con il leader cinese preoccupato di raccomandare per i due paesi relazioni bilaterali “sane e stabili“, per svolgere un ruolo “di stabilizzazione, costruttivo e di primo piano nella pace globale, soprattutto nel panorama internazionale attuale“.

Problemi che non riguardano – è stato fatto notare da molti – gli Stati Uniti, che al momento possono usufruire di una larga autonomia energetica, al punto da potersi proporre come fornitore sostituivo almeno parziale ma a prezzi decisamente più alti. Anche oltre il 50% in più. Ma che soprattutto – come emerge da sempre più analisti – hanno deciso di “buttare fuori pista” sia Mosca che Pechino e, nello stesso tempo, anche l’Unione Europea.

La quale, a sua volta, si ritrova stretta come il vaso di coccio tra potenze dotate di forte potere politico centralizzato, eserciti rodati nei secoli o almeno decenni, e un più chiaro senso strategico.

Voler partecipare all’”ipercompetizione mondiale” che fa seguito alla stagione della “globalizzazione unipolare” è un’aspirazione che espone a rischi fortissimi, se non si riesce a mettere in campo qualcosa di adeguato.

Vero è che fin dall’inizio «L’Europa sarà costruita sulle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate di fronte ad esse», come aveva scritto Jean Monnet ai tempi della Dichiarazione Schuman, ma non tutte le crisi sono della stessa natura e dimensione. Una guerra in Europa, che gli Stati Uniti vorrebbero lunga quanto basta a vedere “la Russia indebolita al punto di non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”, rischia di essere uno shock troppo difficile da sfruttare per costruire un’unità più drastica.

Si è visto proprio in questi giorni con le reazioni alla proposta di Mario Draghi – guarda caso… – di “superare il metodo dell’unanimità” per assumere decisioni comunitarie. Subito ripresa anche da Macron, von der Leyen e Scholz, perché i paesi più grandi ed economicamente forti “soffrono” la lentezza decisionale a causa dei veti nazionali. Che ostacola – com’è ovvio – la reattività della UE alle sfide dell’”ipercompetizione”.

Ma questo richiede una radicale modifica dei trattati europei, che – in loop – richiede l’unanimità. L’intenzione sarebbe quella di avviare il lungo processo di revisione già a giugno, in occasione del prossimo Consiglio Europeo. Ma, prima ancora di cominciare la discussione su quali temi andrebbero esclusi dall’approvazione all’unanimità, un gruppo di tredici Paesi ha sottoscritto una dichiarazione comune in cui si rifiuta radicalmente questa ipotesi.

Si tratta di Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia, Romania, Svezia e Slovenia (ma si potrebbero aggiungere anche l’Ungheria e la Slovacchia). Anche qui, in gran parte, si tratta di quei paesi dell’Est che più sono “sensibili” alle sirene statunitensi; chi per antica “russofobia”, che per motivi assai più concreti, come il margine di autonomia decisionale in materia di bilancio, già ridotta quasi a zero dal Fiscal Compact e dal duo Two Pack-Six Pack (sulle procedure per l’approvazione delle leggi di stabilità nazionali).

Nella loro dichiarazione congiunta questi paesi – non tutti “piccoli”, oltretutto – ricordano che “ciò che conta è affrontare le idee e le preoccupazioni dei cittadini”. Quanto di più lontano immaginabile per i fautori dell’”austerità” che avevano dato forma alle politiche UE fino allo scoppio della pandemia e che mordono il freno per tornare a quell’andazzo.

In pratica, metà dei paesi UE non è disposto a rinunciare al proprio diritto di veto. E non sarà semplice superare questa opposizione nel bel mezzo di una guerra sul territorio europeo e con gli Usa che lavorano tutti i giorni per incentivare quel “divide et impera” che è da sempre il segreto degli imperi.

Ma proprio questa evidente pressione di Washington lavora a dividere, anche sul piano nazionale italiano, le forze politiche di governo da Mario Draghi. Forse è un po’ esagerata (e speranzosa) la copertina che Il Fatto Quotidiano ha dedicato oggi al premieri in partenza per gli Usa – “Abbandonato da tutti, Draghi vola da Biden”, ma certo cresce anche nella più miserabile classe politica del mondo l’insofferenza per una politica eccessivamente sdraiata sugli interessi statunitensi.

Lo avevano fatto capire nei giorni scorsi i lamenti di Confindustria – cone la guerra la produzione industriale a marzo è scesa del 2,9%, quasi del 4 in Germania – al punto che persino “Letta con l’elmetto” ha dovuto moderare il proprio atlantismo smodato e invitare a cercare”le vie del negoziato”.

Gli ideali, come sempre, “c’entrano una sega”… A parte le poche industrie del settore armi, tutte le altre attività imprenditoriali sono sotto minaccia di crisi nerissima. Come anche le borse in questi giorni stanno ricordando…

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