sabato 7 aprile 2018

SICURI DELLA SICUREZZA?


Risultati immagini per sicurezza sul lavoro e terrorismo
Come un mantra la parola sicurezza ci è entrata talmente tante così tante volte in testa nel periodo elettorale che alla fine siamo sicuri di essere insicuri,e se il 100% di tale termine abusato e in fondo mai studiato all'altezza della sua importanza,è stato riferito alla lotta al terrorismo mentre il resto,cioè nulla,è stato speso per quella sul lavoro.
Nei primi due articoli(contropiano conflitti-globali e contropiano le-fake-news-in-stile-viminale )si mettono in evidenza due fattori ben distinti che legano la parola sicurezza alla migrazione globale(e quindi sinonimo di terrorismo come hanno deciso le forze che poi hanno vinto le elezioni),con un dilettantismo del Viminale rappresentato da Minniti(vedi il caso del tunisino risultato estraneo a quello cui era stato accusato,perseguitato per una chiamata anonima e che ha fatto scattare allarmi ovunque)e l'aumento di leggi liberticide.
Nell'ultimo articolo(left non-chiamatele-morti-bianche )quello che le forze che hanno vinto,ma anche le altre non è che ne abbiano parlato molto a parte le sinistre,si parla della vera emergenza sicurezza in Italia,quella sul lavoro che miete tre vittime al giorno e che non trova una fine nonostante proclami sterili e che francamente hanno cagato il cazzo(scusate la terminologia)...e qui è Poletti il dilettante.

Sulla lotta (di facciata) al terrorismo.

E' di ieri la notizia dell'arresto di un cinquantanovenne egiziano a Foggia, per presunta affiliazione all'ISIS, tra le accuse anche l'incitamento a distruggere le chiese e trasformarle in moschee. Oggi scattano le operazioni in svariate altre città nei confronti di altri sospetti militanti di ISIS in Italia: Milano, Torino, Napoli. Minniti gongola e prova a chiudere così il proprio mandato: recuperando sulla lotta al terrorismo il terreno perduto sulla credibilità politica. Questa storia ha qualcosa tra il comico ed il grottesco. Cosa occorre chiarire perché la guerra a ISIS sia una battaglia reale e non – solo – uno strumento di propaganda securitaria?

Il 5 febbraio scorso le istituzioni italiane e (udite udite!) il papa hanno ricevuto, con tutti gli onori riservati ad un capo di stato, il sultano Erdogan. In quell'occasione lo stesso Erdogan siglava accordi commerciali con aziende italiane private e di stato. Molti di questi accordi riguardavano forniture di apparecchiature e mezzi del comparto militare.
Il 20 gennaio dello stesso anno il governo turco aveva lanciato un'operazione militare denominata "ramoscello d'ulivo", con la quale invadeva il cantone, a maggioranza kurda, di Afrin in Rojava (Siria del Nord). L'obiettivo, mal celato, del governo turco era quello di compiere un'operazione di pulizia etnica contro i kurdi di Afrin e di mettere fine all'esperienza rivoluzionaria che aveva portato alla nascita di una nuova società basata sull'autogoverno delle comunità, sul protagonismo delle donne nella vita e nella difesa della comunità e sulla tutela di tutte le minoranze etniche e religiose. Il modello dell'autonomia democratica si era espanso via via in tutto il nord della Siria, dalla liberazione di Kobane a quella di Mambij Tabqa, Raqqa (capitale del califfato), fino ai territori ad est dell'Eufrate nel governatorato di Deir Ez Zor.

Nell' invasione, partita il 20 gennaio, l'esercito turco (secondo esercito NATO) si serviva dell'aiuto di milizie jihadiste legate ad Al Nusra ed a quel che restava dell'ISIS. Le stesse milizie erano state armate ed addestrate proprio dal governo turco, quindi armi NATO sono di fatto state consegnate a queste organizzazioni per l'invasione del territorio di un altro "stato sovrano" (solo per utilizzare la terminologia dell'inutile quanto inefficace diritto internazionale). Nel corso della sopra citata operazione militare sono state utilizzate armi chimiche; l'aviazione turca ha deliberatamente preso di mira obiettivi civili non riuscendo nell'avanzata via terra; elicotteri italiani hanno messo a ferro e fuoco villaggi nel cantone di Afrin. I corpi delle giovani combattenti delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne) sono stati mutilati e filmati in video di propaganda. Al cinquantesimo giorno di invasione, dopo il ripetuto bombardamento degli ospedali della città, le truppe turco-jihadiste sono entrate nella città di Afrin. Due persone sono state sgozzate pubblicamente, le case ed i negozi saccheggiati, le donne vivono tuttora nel terrore di violenze da parte dei miliziani jihadisti.
Nemmeno un briciolo dell’attenzione mediatica riservata all’arresto del cittadino egiziano è stata dedicata alla denuncia del genocidio in atto ad Afrin proprio contro coloro che hanno per anni lottato contro il terrorismo.
Il governo italiano ha di fatto sostenuto l’avanzata ed i crimini di guerra di milizie fondamentaliste salafite stringendo accordi con il governo turco. Laddove c’era una società democratica, antisessista e rispettosa di tutte le etnie e religioni oggi regna il terrore e l’intolleranza sul modello del califfato.
Quanto siamo ancora disposti a credere alla bufala di una lotta efficace al terrorismo che ne affronti le cause e non gli effetti?

In ogni paese europeo negli ultimi anni sono state formulate leggi liberticide motivate dallo spauracchio del “terrorismo islamico” proprio mentre i nostri capi di stato andavano a braccetto con Erdogan e stringevano accordi milionari con il governo turco. Sono stati proclamati stati di emergenza, in giro per l’Europa, che legittimavano qualsiasi livello di repressione in nome della lotta al terrorismo, ma allo stesso tempo la “comunità internazionale” non era capace di prendere una posizione rispetto ai crimini del governo turco ed al suo costante sostegno alle milizie fondamentaliste che hanno messo a ferro e fuoco la Siria negli ultimi 7 anni.
La stessa polizia che arresta l’egiziano accusato di affiliazione all’ISIS il 5 febbraio a Roma manganellava i solidali con il popolo kurdo che manifestavano contro gli onori riservati ad Erdogan dalle istituzioni italiane.
La lotta al terrorismo è riuscita nell’incredibile impresa di produrre un’ondata xenofoba che ha favorito il risveglio delle destre estreme, da sempre strumento di controllo del conflitto sociale. Le bufale della sicurezza e dell’antiterrorismo non sono altro che scuse per legittimare l’inasprimento dello stato autoritario.
Non ci servono leggi antiterrorismo se i nostri governi sono i primi a finanziarlo, è per questo che la solidarietà internazionalista va sostenuta perché unico strumento per contrastare le derive autoritarie dei regimi in Medio Oriente, così come in Europa.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Le fake news in stile Viminale.

di  Alessandro Avvisato   
Improvvisamente, qualche giorno fa, tutti i media italiani sono stati allertati con una notizia terrorizzante, più o meno riassumibile così:

Da stanotte sono state rafforzate le misure di sicurezza, anche perché Pasqua rappresenta un momento delicato per la difesa dal terrorismo internazionale. Così a Roma è scattata la caccia a un tunisino che si teme possa avere programmato un attentato. Un allarme che riguarda un uomo già noto alle forze dell’ordine per vicende di droga: la notizia è stata riportata da Tgcom24 in riferimento a una segnalazione dei carabinieri a loro volta in azione in base a una lettera anonima recapitata all’ambasciata italiana a Tunisi: in essa si cita la “intenzionalità terroristica” del 42enne. In attesa di ulteriori verifiche, tutte le stazioni dei carabinieri della Capitale sono state allertate. Secondo la nota “l’uomo avrebbe manifestato l’intenzione di commettere una serie di attentati nel Centro di Roma, nella metropolitana, nei caffè, nei centro commerciali“.

Del “sospettato” è stato fatto anche il nome e diffusa la foto segnaletica: Atef Mathlouthi. Roba seria, dunque. O almeno così doveva sembrare. Se la polizia (chi altri, se no?) diffonde ai media nome, precedenti, foto di una persona in relazione a un pericolo di attentati terroristici in mezzo alla folla si è obbligati a credere che la notizia sia assolutamente vera. Ossia verificata in gran segreto – stiamo parlando di Isis, non di ladri di polli – con controlli eseguiti su più canali e in più paesi, compreso quello di provenienza del sospettato.

Si è obbligati a crederci perché di fronte al dilagare delle fake news sui social network tutto il mondo politico, l’informazione mainstream, l’establishment in ogni sua diramazione, da mesi insistono sulla necessità di fermare il fenomeno, incaricando proprio le forze dell’ordine di arginare la marea. Qualcuno, timidamente o comunque da un media minoritario, aveva provato ad obiettare che così facendo si trasformava la polizia (e organi similari) in una sorta di ministero della verità. Il povero Orwell si sarà sentito fischiare le orecchie, ma non si sarebbe mai aspettato – neanche lui – di vedere confermate le sue previsioni così rapidamente.

La notizia “certa” di fonte ministeriale, infatti, era la più colossale delle fak news. Sia per il clamore suscitato da qualsiasi “allarme terrorismo”, sia – e soprattutto – per la fonte da cui proviene. E non è davvero ammissibile che la polizia “giochi” mediaticamente lanciando allarmi fasulli su possibili attentati (che sono oggettivamente possibili, vista la posizione internazionale dell’Italia…).

Cos’è accaduto, infatti? Sabrina Oueldi, giovane nipote del cittadino tunisino indicato come un terrorista pronto a colpire in Italia, secondo una lettera anonima recapitata all’ambasciata italiana a Tunisi, ha scritto su Facebook com’è andata la storia:

“È stata tutta una menzogna, questo poveruomo è mio zio, dicono che lo cercano a Roma mentre oggi la polizia tunisina l’ha trovato a lavorare in Tunisia ed ha passato tutta la giornata a farsi interrogare dai poliziotti.

Tutto ciò è stato causato da una lettera anonima inviata da una persona che gli voleva troppo male. Non voglio accusare nessuno.

Però a parer mio la polizia italiana ha agito troppo veloce senza prima avere delle certezze.

In 24 ore mio zio si è ritrovato su tutti i telegiornali del mondo con un’accusa talmente grave di fare parte dell’Isis e di voler fare un attentato a Roma mentre poverino stava lavorando a Tunisi per portare da mangiare alla sua famiglia.

Spero che tutto ciò si risolvi e che mio zio avrà tutte le scuse dovute“.

Il povero Atef Mathlouthi, in effetti, era tornato al suo paese per sbarcare il lunario, e sarebbe bastata una telefonata tra i ministeri dell’interno di entrambi i paesi per averne certezza.

Delle due l’una, insomma. O la notizia è stata diffusa dal Viminale senza alcuna verifica, oppure la verifica c’è stata ma la notizia è stata diffusa lo stesso.

Non si sa quale sia l’ipotesi peggiore…

Il Prefetto Gabrielli, attuale capo della polizia, si era distinto nelle scorse settimane con numerosi interventi sui giornali, pienamente supportato dal ministro Minniti. Una volta per “consigliare” loro come qualificare gli ex brigatisti, una volta per tentare di tacitare il pm Enrico Zucca che, sentenze definitive alla mano, aveva definito “torturatori” o loro complici alcuni funzionari di polizia condannati per le violenze o le false testimonianze a Genova nel 2001.

Non è tra i compiti della polizia quello di “stabilire la verità” – per questo esiste la magistratura, che istruisce i necessari processi e dà ordini alla polizia, non viceversa – e neanche quello di indirizzare l’informazione. 

Quando questo avviene si comincia a vivere in un altro regime. Dove le fake news e gli attentati sono la regola, non l’eccezione. Come per Piazza Fontana…

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Non chiamatele morti bianche.

di Simona Maggiorelli   
Sicurezza. È stata la parola più usata durante la campagna elettorale. Non solo da esponenti del centrodestra leghista e xenofobo. Ma anche dal centrosinistra. Con il ministro dell’Interno Minniti, il governo Gentiloni ne aveva fatto la propria parola d’ordine. Paventando invasioni (inesistenti) di migranti, Lega, Forza Italia, Pd e M5S, all’unisono, hanno sostenuto la necessità di maggiori controlli prospettando soluzioni emergenzialistiche e securitarie. Non uno che abbia usato la parola sicurezza in senso proprio, riguardo alla sicurezza che davvero manca in Italia, quella sul lavoro. Con quali conseguenze lo denunciamo già in copertina attraverso l’opera dell’artista Alessio Ancillai dal titolo Testo unico sulla sicurezza del lavoro con scarpe. Solo nei primi tre mesi del 2018 sono già 151 gli operai che hanno perso la vita sul lavoro. Non chiamatele morti bianche, ci ricorda lo scrittore Marco Rovelli che nel 2008 ha dedicato a questo tema un toccante libro reportage, Lavorare uccide. Non si può parlare di fatalità. Le morti sul lavoro sono omicidi. Le cause sono da cercare nell’accelerazione dei cicli di produzione, in nome della massimizzazione del profitto. Si nascondono in politiche che hanno imposto la flessibilità e la precarietà, attraverso contratti a tempo determinato che ostacolano la formazione perché le aziende in quel caso la considerano una spesa inutile.

Le cause sono da cercare in un sistema industriale italiano che, in tempi di crisi, continua a produrre senza innovazione, con macchinari vecchi, per giunta risparmiando sulla sicurezza, approfittando degli scarsi controlli e del fatto che al più si rischia una multa. Sono pochissimi i casi in cui una denuncia porta all’apertura di un fascicolo e poi al processo. E anche quando si va a processo sono rare le cause vinte dai lavoratori e dai loro familiari. La disoccupazione è un’altra potente arma di ricatto. Chi ha un impiego anche se precario e sotto pagato, cerca di tenerselo stretto, anche accettando turni massacranti. Così chi ha un lavoro povero viene contrapposto a chi ne ha uno ancora più povero; come i migranti costretti a lavorare in nero, fino a condizioni di sfruttamento da schiavitù. Se il lavoratore protesta gli viene risposto che c’è un’intera fila in cerca di un posto come il suo. Così si viene spinti ad accettare condizioni di lavoro sempre più mortificanti, che negano la dignità, che impattano pesantemente sulla vita privata, sulle relazioni sociali, perfino su sogni e aspirazioni.

Pensiamo per esempio ai lavori a chiamata che non permettono di organizzare la propria vita. Oppure pensiamo ai giovani collaboratori delle piattaforme digitali che vengono considerati imprenditori di se stessi e per questo non avrebbero diritto neanche al sempre più fantomatico reddito di cittadinanza. Anche i giornali mainstream hanno riportato con evidenza il progressivo aumento dei morti sul lavoro. Nelle settimane scorse, a Catania due vigili del fuoco, a Livorno due operai, come a Treviglio, e drammaticamente la strage continua. Secondo l’ultima indagine del 2017, il 20% delle vittime sono agricoltori schiacciati dal trattore. Ma a morire più di tutti sul lavoro sono gli edili. Il 10% dei morti sul lavoro sono stranieri mentre il 25% delle vittime ha più di 60 anni. E aumentano anche le persone che preferiscono tacere, e non denunciare gli infortuni. Il quadro dettagliato e sconvolgente lo potete leggere in questo ampio sfoglio di copertina. Ci siamo interrogati sulle cause di questa drammatica e inaccettabile ecatombe ma ci siamo chiesti anche perché oggi prevalga la rassegnazione, che poi, troppo presto, diventa oblio.

Per contrasto torna alla mente il dolore, l’indignazione e l’incazzatura di cui raccontava Luciano Bianciardi dopo l’esplosione nelle miniere di Ribolla nel 1954. La disperazione delle famiglie si accompagnava a una vibrante denuncia da parte degli operai, con la ferma e determinata richiesta di un cambiamento. Dopo lo sciopero passarono all’occupazione dei pozzi della Montecatini. Il 28 giugno 1958 Bianciardi scriveva: «48 operai minacciati di licenziamento rimasero nel pozzo per 3 giorni. La polizia bloccò gli accessi, sperando di prenderli per fame, ma senza risultato. Allora l’azienda decise l’intervento armato, dirigeva le operazioni insieme al vice questore, il direttore della miniera, il dottor Riccardi, commercialista, direttore politico del gruppo delle miniere. Organizza circoli culturali per impiegati e tecnici, e ha istituito il prete di fabbrica, cioè un sacerdote che avvicina gli operai anche in fondo i pozzi e li “rieduca”. Anche il premio di crumiraggio è opera sua». Pretendevano giustamente quegli operai lavoro in condizioni di sicurezza. Allora non c’era la robotizzazione, ma oggi c’è, perché si continuano a mandare gli operai nelle cisterne? Allora non c’era ancora una avanzata legislazione sulla sicurezza, perché oggi non c’è una forte lotta per la sua piena applicazione?

Finita l’epoca fordista, il turbo capitalismo in cui viviamo ha portato con sé una frammentazione, atomizzazione della classe lavoratrice, mentre i sindacati sono stati bypassati da un centrosinistra che ha pensato di poter fare a meno della intermediazione. Basta tutto questo a spiegare l’indifferenza che circonda le morti sul lavoro in Italia? C’è molto su cui interrogarsi, molto da studiare e capire perché non si tratta di numeri ma di persone. Non ci arrendiamo all’idea che nel 2018 non si possa pensare un nuovo modello di società e di sviluppo che non sia basato sullo sfruttamento e sulla negazione dei diritti umani.

Nessun commento: