martedì 29 novembre 2016

IL NO CONTRO LE BUGIE DI RENZI

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Meno quattro giorni alla fatidica data del referendum costituzionale che può segnare in positivo o in negativo l'andazzo economico e sociale italiano per i prossimi anni,sottolineando da subito il fatto che il bugiardo Renzi dice per l'appunto una fesseria asserendo che il paese per i prossimi decenni non potrà attuare delle riforme.
I due pezzi qui sotto parlano principalmente dell'aspetto economico che naturalmente andrà a condizionare l'assetto sociale del paese con il primo che è un redazionale di Senza Soste(vota-no )che già dal titolo riflette il pensiero da becchino che circola negli ambienti Pd con scenari apocalittici se dovesse passare il NO.
Verso la fine si aggancia a quello espresso più ampiamente dal contributo ripreso da Contropiano(destino-delle-banche-italiane )dove le banche e soprattutto la MPS tengono banco sembrando che siano il ricatto d'eccellenza per poter far vincere il Si.
Non devo ribadire che così facendo gli altarini tra il Pd e il mondo delle banche(vedi Etruria:madn affari-di-famiglia )saltano fuori nella maniera più lapalissiana possibile,un intrigo tra capitale e politica spesso infarcito dalla criminalità e da migliaia di persone che hanno perso i risparmi di una vita.
Vengono nel complesso dei contributi evocati nomi come Bloomberg,Economist,spread,Financial Times,Brexit...tutti spunti che vengono strumentalizzati dal governo per dire che col NO le banche falliranno oltre che a episodi di disgrazia e tragedia biblica,una balla colossale che fanno parte dell'essere del Pinocchio fiorentino cui siamo abituati e spero vaccinati col voto del 4 dicembre.


Il segno meno della Borsa di Milano e, ancor più, del titolo Monte dei Paschi non ci coglie certo di sprovvista. Tanto meno la propaganda, prevedibile come una mossa dell’antico giocatore della Roma Andrade (detto “er moviola” non a caso), sul “se voti No a referendum falliscono tutte le banche”. Già il referendum scozzese e quello greco sono stati occasione, da parte di quelle entità che vengono chiamati “i mercati”, non sono di esprimere un’opinione ma anche di fare un po’ di soldi. E’ poi toccato alla Brexit e alle elezioni americane. Adesso è il turno del referendum di Renzi. La democrazia contemporanea è infatti un’occasione di prezzare un po’ di azioni e di obbligazioni, da parte degli attori finanziari globali, durante un periodo di transizione e di indecisione. Ci sarà chi ci guadagnerà e chi ci perderà, naturalmente, ma tra chi ci guadagna non ci saranno di certo le popolazioni. Non a caso all’indomani del referendum sulla Brexit, e degli scossoni di borsa che l’avevano accompagnato, avevamo scritto “la democrazia è ridotta ad essere un momento della necessaria creazione di volatilità per la speculazione finanziaria. Un rapporto tra democrazia e creazione di valore che non va affatto sottovalutato e che non è episodico ma, invece, fa parte della catena di creazione di valore dell’industria finanziaria” (Senza Soste, Brexit chi ha paura di un referendum? http://www.senzasoste.it/internazionale/brexit-chi-ha-paura-di-un-referendum-ecco-gli-scenari ).
Ma come funziona questa catena di creazione del valore? Semplice, esattamente al contrario di quello che dicono pubblicamente gli analisti quando affermano: “il mercato ha bisogno di certezze”. A queste frasi ci può credere un Pisapia, grande amico di Deutsche Bank quando era sindaco di Milano, o Grillo quando cerca, da un palco improvvisato come il suo discorso, di rassicurare gli investitori sul futuro dell’Italia. Il mercato, per fare soldi, oggi ha bisogno di incertezza. Ad esempio perché le obbligazioni rendono molto meno che in passato, e quindi ciò che per i grandi investitori era la certezza, ovvero un guadagno assicurato sugli interessi legati alle obbligazioni, va a scemare. Per far soldi, visto che la certezza non rende, il mercato ha bisogno quindi di incertezza. E i referendum, le elezioni in generale possono essere una bella situazione di incertezza, in uno scenario dove le istituzioni, messe proprio a incertezza dall’esito dalle elezioni, rappresentano comunque un significativo volano di investimento. La Gran Bretagna, con la maggior piazza borsistica d’Europa, si spiegava, in questo senso, da sola mentre l’Italia, terzo-quarto mercato obbligazionario al mondo, si spiega anche con il suo ruolo negli equilibri complessivi dell’eurozona. A quel punto in una situazione di incertezza, chi disinveste, o punta contro qualche titolo, ha un comportamento amplificato nei grandi media globali. E un giudizio degli analisti che comunque rafforza l’importanza dell’operazione di disinvestimento, o di scommessa, alla vigilia di una elezione o di un referendum. I risultati, per chi crea valore sulle elezioni democratiche, sono grosso modo tre: un grosso guadagno da posizioni ribassiste, scommettendo contro un titolo o una serie di titoli; un grosso guadagno acquistando, a tempo debito, assicurazioni contro il titolo che sta scendendo; un acquisto di titoli a prezzo scontato, causa crisi, che poi risaliranno dopo la fase di incertezza. Lo abbiamo detto in termini didascalici per esser chiari: il valore, nella finanza di oggi, si fa più con l’incertezza, con la volatilità. Se l’incertezza è alta, chi si sa muovere guadagna, grosso modo, attraverso questi sentieri. Questo anche per rovesciare il luogo comune che vuole una politica inefficiente e una società pigra alla base delle crisi finanziarie perché “puniti dai mercati” (una metafora originaria della società disciplinare che ha poco contatto con la realtà).
Il referendum italiano non poteva mancare entro questo schema di produzione di valore, che distrugge beni pubblici e risparmio come altra faccia della medaglia. L’avevamo indicato a settembre in “Ambasciatori americani, agenzie di rating e referendum italiani: la nuova normalità” (http://www.senzasoste.it/internazionale/ambasciatori-americani-agenzie-di-rating-e-referendum-italiani-la-nuova-normalita) dove segnalavamo: “Alle borse non interessa tanto il risultato di un referendum ma saper capire la volatilità dei mercati per estrarre valore”. Già perchè dire, in questa situazione, chi è il candidato delle borse, quello per il quale le piazze finanziarie festeggeranno il 5 dicembre, è un esercizio ideologico. Lo stesso Renzi, dal Financial Times che è il principale quotidiano finanziario del mondo, adottato e mollato (http://www.senzasoste.it/internazionale/clamoroso-il-financial-times-molla-matteo-renzi). Per poi essere di nuovo ripreso alla vigilia del referendum (http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2016/11/27/ft-con-il-no-a-referendum-otto-banche-a-rischio-fallimento_4fcee06e-1ab0-4d25-9db2-20cd30322df3.html ).
Queste posizioni giornalistiche non si spiegano solo sul piano delle differenti firme, e delle differenti diplomazie che fanno diverso effetto in una redazione, presenti in un giornale prestigioso. Ma anche sulla necessità, ed è un ruolo tipico della stampa finanziaria, di dare fiato, o meno, a posizioni di disinvestimento o di acquisizione di posizioni assicurative contro un rischio paese. Per cui, il Financial Times si è dedicato a coprire, alternativamente, le posizioni del “Si” e del “No”. E, come si capisce, è un comportamento che guarda alla produzione di valore durante un periodo di incertezza non al risultato di un referendum. Se guardiamo poi a testate come il New York Times, che ha fatto analisi cliniche ma anche ha dato spazio a chi vorrebbe lasciare l’Italia in caso di vittoria del No, o dell’Economist, che si è detto per il No ma oggi è anche espressione della famiglia Agnelli non certo nemica di Renzi, vediamo come esistano posizioni differenziate. Proprio perché, specie nel referendum del 4 dicembre, l’importante è seguire il denaro che si crea nella volatilità di borsa dovuta all’incertezza, processo di messa a valore della democrazia deliberativa, piuttosto che prendere davvero parte ad un voto. Poi, con una seria analisi degli spostamenti di capitale legati al referendum, si avrebbero un sacco di risposte interessanti. Nel frattempo ecco l’immancabile Bloomberg che, sull’Italia, fa uscire un articolo sul ribasso dei titoli bancari, e sulla crisi dei bond sovrani italiani, causa referendum.
https://www.bloomberg.com/news/articles/2016-11-28/energy-producers-drag-europe-stocks-lower-after-weekly-advance
Un articolo che spinge chi può movimentare denaro, dal piccolissimo trader al grande fondo pensioni aggressivo alla ricerca disperata di redditività, verso tre direzioni: scommettere contro i titoli bancari italiani, per guadagnare dalla scommessa, acquistare a basso costo titoli bancari oggi per vederli salire domani, scommettere su un rialzo dei tassi di interesse dei bond italiani domani (causa crisi o rialzo tassi federal reserve). Occhi anche ad un aspetto. Quella che Bloomberg chiama crisi di liquidità presente sui mercati. Cosa vuol dire? Altro non è che l’incapacità di poter vendere un’obbligazione per la mancanza di compratori: la causa principale della crisi di liquidità risiede oggi nei tassi di remunerazione negativi o pari a zero, in certi casi anche per le scadenze fino a sette anni, non compensando così nemmeno il tempo in cui si decide di restare investiti. E se la certezza è questa oggi, ben venga l’incertezza nei mercati. Permette, a chi si sa muovere, di predare ricchezza. Prezzando i referendum o le elezioni. Trasformando la democrazia in occasione di creazione di valore.
Che dire quindi del titolo del Financial Times sul fallimento di MPS, e di altre sette banche, in caso di vittoria del no?
Semplice, più che sul piano della notizia siamo su quello dello spettacolo fatto per la creazione di valore. Quello spettacolo che muove i comportamenti delle borse in modo da generare volatilità. Perché MPS è appesa ad un filo. Ma il referendum, nonostante la stessa MPS attenda il voto come un elemento di chiarificazione politica, con la situazione del monte dei Paschi c’entra poco. Casomai la banca di Siena deve avere un referente politico certo, comunque vada il referendum. Ma il punto qui non è solo che un titolo che perde, come ha fatto MPS, il 99% del valore in dieci anni non può, eventualmente, addossare la responsabilità del naufragio finale ad una consultazione referendaria. Sta, guardando all’oggi, piuttosto nel fatto, che il piano di “salvataggio” di MPS, che prevede un sacrificio economico dei possessori di obbligazioni e un forte investitore esterno (entrambi non proprio all’orizzonte), mostra più problemi di quanti ne sembra risolvere. Speculare in questa situazione prima di una data politicamente incerta, con ribassi degni del ’29, è un gioco da ragazzi. Tanto più che i giochi veri si faranno dopo il referendum, calendario crisi MPS alla mano. Se si guarda alle norme sul bail-in bancario poi, si vedrà come la presenza di un governo legittimato, aggiungiamo purtroppo, possa essere anche irrilevante in caso di precipitazione della crisi. Ma intanto si è fatto un favore a Renzi, a chi specula sui titoli bancari e posta qualche anticipazione su chi farà la voce grossa quando il gioco MPS si farà serio.
Altra questione importante che col voto non ha niente a che vedere ma che mina la situazione delle banche: diversi analisti sostengono come sia vicina, a livello di autorità bancarie sovranazionali, una revisione dei modelli interni di credito delle banche che porterebbe a nuovi buchi di capitale negli istituti di credito italiani; poi c’è l’imminente adozione del principio contabile Ifrs 9, che introduce nuovi modelli statistici di previsione delle perdite su crediti,ed è, anch’essa, sfavorevole alle banche italiane. E tutto ciò rischia di produrre una ulteriore stretta creditizia, in un momento in cui le banche sono il settore meno appetibile per gli investitori globali in genere. Confezioniamo la questione dentro la scatola referendum, mediatizzando così la crisi delle banche, e si avranno effetti in borsa. E sono quelli che contano, a prescindere dal risultato. Con chi vince poi, si farà capire chi comanda.
Ecco come l’Italia, Renzi potrebbe andarne orgoglioso, è entrata nell’uso della democrazia come occasione di produzione di valore. Un nuovo modo di interpretare la speculazione, probabilmente. D’altronde stiamo parlando di un fenomeno, la speculazione, che uno storico broker ha definito “vecchia come le colline”. Ed è un fenomeno vecchio che, dopo aver investito su ogni bene, non poteva non toccare la democrazia. D’altronde basta sapere di cosa stiamo parlando. Jesse Livermore che riuscì ad arricchirsi con il drammatico crack del 1907, quello che dette vita alla Federal Reserve e fu tra le cause della prima guerra mondiale, facendo milioni con il crollo del ’29, aveva una chiara stella polare: “non trasformare mai il capitale speculativo in capitale di investimento”. Oggi il capitale speculativo si muove entro i flussi di notizie globali. L’opinionismo renziano fa di tutto per alimentare l’equivoco che si tratti di capitale di investimento, pronto a scappare dall’Italia se vince il No. Del resto, dove c’è Renzi c’è un tasso così alto di alterazione della realtà che, altrimenti, se fosse inquinamento saremmo tutti morti. Così, a reti unificate, il no viene annunciato come un qualcosa che sta tra l’invasione delle locuste e il fallimento delle banche, i crollo della borsa. Fossimo il mago Otelma, una certa invidia per tutto questo spettacolo la proveremo. Perché, statene certi, almeno a reti unificate, Renzi dirà di averci indovinato. Comunque vada.

redazione, 28 novembre 2016

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Il destino delle banche italiane dipende dal referendum? Solo un patetico imbroglio.

Ieri sul Financial Times leggevamo: "Alti funzionari e banchieri dichiarano che fino a otto banche italiane rischiano il fallimento se Renzi perde il referendum costituzionale". Non è indispensabile conoscere i nomi di questi segreti informatori del FT: svariati capitani  dell'alta finanza hanno apertamente evocato in questi giorni la minaccia di turbolenze bancarie se domenica i No alla riforma dovessero prevalere. Il motivo, essi dicono, è che un'eventuale sconfitta costringerebbe il Premier e i suoi ministri a dimettersi, con la conseguenza di interrompere i tentativi del governo di stabilizzare il sistema bancario italiano.
Oggi che la borsa è in rosso e che le banche vanno per l'ennesima volta sotto, una pletora di commentatori nostrani rilancia le parole degli alti finanzieri: il pericolo sta nelle urne, nel rischio di una vittoria del No al referendum.
Questa lettura della partita referendaria è del tutto fuorviante, e francamente anche un po' patetica. La ragione è semplice: essa presuppone che le iniziative del governo, dall'istituzione del fondo Atlante alla gestione del dossier Montepaschi, siano in grado di scongiurare una crisi bancaria.
La verità, purtroppo, è che le misure adottate finora dal governo sono state del tutto inadeguate, e persino controproducenti. Il caso Montepaschi è un esempio emblematico. Matteo Renzi avrebbe dovuto finalmente avviare la ricapitalizzazione pubblica della banca, come in questi anni si è fatto innumerevoli volte nel resto del mondo, dagli Stati Uniti alla Germania. A tale scopo, Renzi avrebbe potuto persino ricorrere all'applicazione di regole europee vigenti, secondo le quali il salvataggio statale di una banca è consentito senza bail-in qualora sia in gioco la stabilità finanziaria di un paese.
Invece, riesumando una stantia retorica liberista, il Premier ha voluto imporre una sgangherata "soluzione di mercato": vale a dire, trovare investitori privati disposti ad acquistare la banca a prezzi di saldo. Questa iniziativa non sta funzionando, per usare un eufemismo. Nello scenario attuale, chi detiene ingenti capitali prevede ulteriori cali dei prezzi e magari svalutazioni incontrollate, che permetterebbero di fare incetta delle banche dei paesi in difficoltà a prezzi ancor più scontati. Ecco perché è così difficile trovare oggi degli acquirenti privati. L'unica certezza della "soluzione di mercato" è che anche nel caso in cui essa fallisca Montepaschi dovrà comunque pagare laute commissioni a JP Morgan, la banca d'affari a cui Renzi ha affidato la gestione dell'operazione.
La linea d'azione del governo aiuta dunque a stabilizzare il sistema bancario nazionale? Chi lo sostiene è un bell'incosciente. O forse ha interessi in gioco.
Con Dani Rodrik e altri sostenemmo proprio sul Financial Times che i guai dei mercati finanziari e dei sistemi bancari, italiani e non solo, dipendono da cause profonde, legate alla struttura dell'Unione monetaria e alla funesta politica deflazionista con cui le autorità europee e i governi nazionali stanno gestendo la crisi: in questo scenario nuovi tracolli bancari e quindi ulteriori crisi dell'eurozona saranno eventi inesorabili. L'unica ragione per cui finora le turbolenze sono state circoscritte sta nel fatto che la BCE ha inondato i mercati di liquidità ad ogni fiammata ribassista. Ma ad ogni attacco il banchiere centrale deve rispondere con azioni sempre più incisive ed estese, al limite rivolte non più solo ai titoli pubblici ma anche privati. Ecco perché gli speculatori non stanno cambiando idea: essi sono pronti a buttare giù il mercato ogni volta che sorga un dubbio sulla capacità di Mario Draghi di convincere il direttorio a spingere sempre di più la politica monetaria oltre i confini degli accordi europei.
In un simile inviluppo macroeconomico, il referendum è solo uno dei tanti pretesti possibili: in realtà ogni occasione è propizia per alimentare nuove onde al ribasso del mercato. Con buona pace di chi sostiene che sotto l'euro siamo protetti.
Se si volesse davvero iniziare ad affrontare la situazione bisognerebbe prepararsi a nazionalizzazioni bancarie e a controlli sui movimenti di capitale, con o senza il consenso delle istituzioni europee. Simili soluzioni trovano riscontri persino all'interno del Fondo Monetario Internazionale e sono state ampiamente praticate altrove, ma in Italia non sembrano attecchire. A quanto pare, siamo talmente sedotti dalle "soluzioni di mercato" che qualcuno sarebbe capace di rifilarcele anche in caso di uscita dall'euro. Di questo passo, al cospetto di una crisi di portata storica, potremmo a breve essere additati come una delle ultime province occidentali tuttora disposte a bersi le vecchie, sballate ricette del liberismo finanziario.
La situazione delle banche in Italia è dunque grave ma non è seria. Legare la stabilità del sistema bancario agli esiti del referendum e al destino del governo Renzi è solo un patetico imbroglio.
da http://brancaccio.blogautore.espresso.repubblica.it

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