martedì 31 luglio 2018
NEL DRAMMA DELLA GRECIA NON SOLO GLI INCENDI
Mentre la conta totale delle vittime è ancora approssimativa ma dovrebbe superare le cento unità visti i dispersi che tutt'ora sono potenziali vittime dei roghi,per la Grecia,che è stata la nazione più martoriata dall'Europa e dai suoi rigidi dettami d'austerità,i tempi cupi non sono di certo finiti.
Nell'articolo(contropiano cartoline-dalla-grecia-lemergenza-e-finita )uno spaccato sulla società che è stata tradita da Syriza e da Tsipras,che era l'immagine nuova della sinistra europea e che a torto(più questo)o ragione si è dovuto inchinare alla trojka svendendo infrastrutture ed industrie greche agli offerenti stranieri che a prezzo di saldo si sono accaparrati di tutto e di più.
Anche il turismo,perno della ricchezza della Grecia su cui si è puntato quasi tutto,è nelle mani delle multinazionali delle vacanze,sfruttando i lavoratori e l'ambiente per i propri comodi economici,guardando bene al loro profitto e non alle condizioni sindacali del personale e quelle di salvaguardia della natura.
Un articolo amaro che evidenzia il fatto che i tardivi interventi per domare le fiamme nella zona di Atene ed in altre parti del paese sono frutto anche dei tagli lineari che hanno colpito tutti i servizi pubblici greci,altra mazzata dovuta al fatto che le montagne di milioni di Euro dati alla Grecia hanno un prezzo finale enormemente più alto.
Anche in termini politici visto l'impoverimento del popolo ed un aumento delle formazioni di estrema destra.
Cartoline dalla Grecia: l’emergenza è finita?
di Michele Franco
I devastanti incendi che hanno flagellato la regione attorno Atene hanno riportato l’attenzione dei media nostrani sulla Grecia.
A tutti gli osservatori – anche agli apologeti del liberismo più selvaggio – è apparso chiaro il pesante bilancio di danni e lutti provocati a fronte di incendi che, per quanto stavolta siano stati particolarmente impetuosi, non sono una novità in quelle zone già periodicamente interessate da questa fenomenologia.
Mai come ora è risultato evidente il gap materiale e tecnologico esistente tra le reali potenzialità degli apparati di emergenza e di prevenzione dello stato ellenico e gli standard minimi indispensabili che necessiterebbero in qualsivoglia paese costretto a misurarsi con calamità di questo tipo.
Il (triste) paradosso di questa vicenda è che, nei giorni scorsi, il primo ministro greco, Alexis Tsipras, dichiarava, soddisfatto, che la Grecia sta uscendo dal “tunnel della crisi” dopo i fatti del 2015 (il cedimento al Memorandum della trojka con buona pace della vittoria referendaria dell’OXI, nda) e che nel paese cresce la “fiducia verso il futuro prossimo”.
La realtà sociale, il paese reale e le condizioni di vita e di lavoro dicono altro
Il prossimo 20 agosto prossimo termina l’ultima parte del “programma di riforme strutturali” deciso da Bruxelles nei giorni del luglio 2015 quando, di fatto, la Grecia è stata sottoposta al commissariamento forzato di Bruxelles.
In effetti, però, dal gennaio 2019 scatterà un altro giro di vite sulle pensioni, il quattordicesimo, per “tenere in sicurezza la reale compatibilità dei conti pubblici” ed ogni trimestre la UE manderà i suoi commissari/controllori per verificare l’attuazione di queste misure e le “garanzie” per i creditori/cravattari che hanno “prestato” i 300 milioni di Euro alla Grecia.
Oggi, a distanza di alcuni anni, la disoccupazione è arrivata al 20%, una famiglia su cinque (il doppio del 2010) vive in condizioni di estrema povertà ed il fardello del debito (pubblico e privato) è ancora un macigno.
Inoltre la privatizzazione/svendita di gran parte dell’apparato industriale ed infrastrutturale ha comportato consistenti esternalizzazioni di operai ed impiegati, il peggioramento della qualità e di ciò che residuava dell’universalità dei servizi ed una generale svalorizzazione del lavoro e delle sue condizioni normative, giuridiche e di sicurezza.
Il governo Syriza/AKEL supinamente prono ai dettami della borghesia continentale europea (e della NATO) continua a ritenere – confermando la sua linea di condotta catastrofica per gli interessi dei settori popolari della società – che è possibile consolidare una sorta di “ripresa economica nazionale” confidando esclusivamente sul turismo, le nuove tecnologie e la “smart economy”.
Ma i fatti hanno la testa dura. Il turismo, in Grecia e non solo, non è un comparto che produce un miglioramento generalizzato dell’economia e una crescita della quantità/qualità del lavoro sempre e comunque. Anche questo comparto è sottoposto alle modalità del mercato, alle sue leggi ed alla crescente concorrenza internazionale
I flussi turistici (quelli consistenti) sono organizzati, gestiti e valorizzati dalle grandi corporation globali dell’entertainment.
Con buona pace dell’immagine iconoclastica dell’isoletta greca pura ed incontaminata e delle rustiche taverne dove si spende poco, si sta consolidando una industria del divertimento incardinata alle più feroci leggi del supersfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente naturale.
I porti, gli aeroporti (non a caso le infrastrutture svendute per prime, dopo il luglio 2015), i villaggi turistici, i tour operator, il selvaggio e vorticoso comparto dell’edilizia e persino le campagne propagandistiche e promozionali delle varie località, sono saldamente nelle mani di compagnie straniere le quali sono interessate unicamente alla massimizzazione dei profitti, non nutrono nessuna attenzione per gli standard ambientali dell’ecosistema e sono pronte, in qualsiasi momento, anche in considerazione dell’evoluzione generale del contesto geopolitico, ad indirizzare altrove i flussi turistici.
La stessa demagogia/illusione, da parte governativa, sul potenziamento delle nuove tecnologie è rivolta, stando ai fatti che registriamo, al rafforzamento ed alla crescita di questa infernale macchina del divertimento e non, invece, come sarebbe socialmente utile, alla riqualificazione/ammodernamento delle infrastrutture di base del paese.
Le reti energetiche nazionali, la qualità degli impianti ferroviari, del servizio sanitario nazionale e – come dimostrato tragicamente nei giorni scorsi – i servizi di pubblica emergenza sono fermi al palo o, addirittura, regrediscono ulteriormente.
Fotografano bene questa situazione le parole di Vassilis Primikiris, del comitato centrale di Unità Popolare (Lea), riprese anche dall’ultimo numero de “l’Espresso” in edicola questa settimana: “Rimarremo nelle grinfie della Troika per quasi cento anni. Altro che ritrovata autonomia. Con i tagli alle pensioni e l’introduzione della tassazione anche per chi guadagna 500 Euro al mese i greci sono condannati alla miseria perenne. Tsipras da comunista è diventato lo yesman dei poteri forti. E anche della NATO, con la decisione di non usare la facoltà di veto sull’ingresso della Fyrom nell’Alleanza Atlantica e il consenso al cambiamento del nome in “Macedonia del Nord”. Con questa mossa scellerata ha regalato migliaia di voti ai fascisti di Alba Dorata e distrutto lo storico rapporto amichevole con la Russia. Un disastro completo.”
In effetti, al di là di tutte le chiacchiere e le sparate propagandistiche, la Grecia, nonostante la cura da cavallo a cui è stata costretta, nonostante la manomissione diplomatica, economica e finanziaria che ha subito, non ha ottenuto dal complesso dei creditori internazionali il taglio del debito che doveva essere (nell’idea di Syriza, di Tsipras e dei soloni del Partito della Sinistra Europea) l’obiettivo che si sarebbe acquisito con l’accettazione del terzo Memorandum.
Cosa dire alla fine di questa “cartolina”?
Il popolo greco (che ha alle sue spalle una gloriosa e consolidata tradizione di lotta antifascista e per il progresso) è, tra i popoli europei, quello che ha pagato il più alto costo umano e politico alla costruzione del polo imperialista europeo. In Grecia, più che altrove, la “sinistra” ha attivamente lavorato per depotenziare e distruggere ogni aspettativa di rottura e di avanzamento politico e sociale verso un assetto culturale, economico e geopolitico che alludesse, per davvero, ad una possibile fuoriuscita dai micidiali dispositivi dell’Unione Europea e della NATO.
Non è un caso che – nel paese ellenico, ma anche altrove – crescono le destre razziste ed xenofobe nutrite dal malcontento e dal disorientamento dei ceti popolari dopo il “tradimento” della “sinistra”.
Una lezione politica, quindi, da non smarrire, ancora attuale, la quale rafforza la necessità della sfida teorica e pratica che vogliamo rilanciare per costruire nel nostro paese e nell’area euro/mediterranea una prospettiva di rottura, di riscatto e di liberazione fondata sull’unione popolare e non sui cascami di una “sinistra” sempre più integrata nella modernizzazione capitalistica ed imperialistica.
#poterealpopolo
lunedì 30 luglio 2018
VERI E PROPRI ATTACCHI DI FEROCI RAZZISTI
Mentre l'imbecille subumano Salvini e tutti quelli che la pensano come lui nascondono la polvere sotto al tappeto negando che in Italia ci sia un enorme problema di razzismo,gli atti intimidatori e le violenze non si placano ed aumentano con più casi al giorno,e sono solamente quelli più gravi quelli che finiscono nelle pagine di cronaca.
Nei due articoli di Contropiano(alla-fine-ci-scappa-il-morto-e-proprio-questo-volevano )e di Infoaut(l-integrazione-e-il-prezzo-del-prendere-in-parola-salvini )due casi eclatanti successi di recente,l'inseguimento folle di due autoproclamati sceriffi ad Aprilia che hanno causato la morte di un marocchino quarantenne che dopo l'uscita di strada dell'auto non ha potuto difendersi dall'aggressione del branco-ronda,mentre a Moncalieri nel torinese un'atleta della nazionale italiana di atletica è stata oggetto di un lancio di uova e rimasta ferita ad un occhio.
Notare che il movente razzista non è stato per ora preso in minima considerazione neppure dai carabinieri intervenuti,e ciò la dice lunga sull'impronta che le forze del disordine detengono su questi fatti,che sommati alle varie ingiurie e proiettili sparati a caso ma che sanno bene dove finire fanno degli stranieri in Italia un vero e proprio bersaglio,aizzati da politici dichiaratamente razzisti oppure non contrastati da quelli ignobilmente muti.
Alla fine ci scappa il morto. E proprio questo volevano…
di Alessandro Avvisato
Prova e riprova, alla fine uno capace di diventare un assassino l’hanno trovato. Ad Aprilia, alle porte di Roma ma già in provincia di Latina, dove il centrodestra ha tirato su – alle ultime comunali – un robusto 40%.
Nella tarda serata di sabato, intorno alle due, alcuni “cittadini preoccupati” hanno messo in piedi una “ronda” improvvisata, girando per le strade di un quartiere che di recente era stato teatro di alcuni furti. Una di quelle sciocchezze che si fanno quando si è esasperati e che, mille volte su mille, si traducono in una camminata a vuoto nella sera afosa. Se anche i ladri si fanno vivi, vedono che c’è casino e se ne vanno…
Ieri, invece, alcuni di questi “cittadini inquieti” avvistano quella che viene individuata subito come “un’auto sospetta”.
C’è da chiedersi da quali caratteristiche, un normale cittadino che nella vita fa tutt’altro, possa arrivare a una simile conclusione, problematica spesso anche per agenti di polizia di provata esperienza. L’auto ha una targa straniera e i due a bordo hanno tratti somatici da “marocchino” e tanto basta per scatenare una mini-caccia all’uomo.
La “macchina sospetta” scappa via, i prodi “rondoni” improvvisati montano sulla propria auto e si gettano all’inseguimento. Qualcuno chiama il 112, ma i tre non aspettano. Pochi minuti di folle imitazione di un film americano e l’auto fuggitiva esce di strada. Dei due a bordo uno fugge, uno resta sul posto, forse stordito dall’incidente.
Dei tre inseguitori, uno certamente lo colpisce – una o più volte, non è stato ancora ufficialmente chiarito – con pugni e forse calci. Il fuggitivo muore. L’autista resta sul posto e chiama la polizia, mentre gli altri se ne vanno. Soltanto più tardi uno si presenterà dai carabinieri dopo aver saputo di essere “attenzionato”.
I carabinieri, di fronte a questa prima sommaria ricostruzione, denunciano i due per “omicidio preterintenzionale” e li rimandano a casa.
Parte la “narrazione minimizzante”, che vede tutti compatti – con accenti diversi – i media “liberal” e quelli forcaioli.
L’uomo ucciso è effettivamente un marocchino, “ha un precedente penale” enfatizzano tutti, ma solo per documenti falsi (cosa abbastanza frequente, nel primo periodo di permanenza, tra quanti sono costretti alla clandestinità. Troppo poco per giustificare un omicidio…
E allora ecco spuntare uno zainetto “contenente arnesi da scasso”. Definizione generica, che si può attagliare a un cacciavite, a un piede di porco, a un seghetto… Chissà.
Anche per l’”omicida preterintenzionale” scatta la difesa d’ufficio accettando senza problemi la sua versione: si è difeso quando «ha visto il marocchino infilare le mani nel marsupio».
Batte tutti il Corriere della Sera, che riferisce senza alcun dubbio: “L’unico elemento che finora sembra emergere con chiarezza è che dietro alla vicenda non ci sia alcun motivo razziale”. La targa straniera e il look mediorientale sono eliminati con un tratto di penna…
Non sappiamo chi siano i “tre italiani incensurati”, tutti quarantenni come il marocchino morto. E avanziamo qui le domande che non possiamo far loro.
Ipotizziamo pure che i due fuggitivi fossero davvero dei ladri (sappiamo bene che tra i tanti mestieri alcuni immigrati fanno anche questo, e non certo perché “gli italiani non vogliano più farlo”, anzi…).
Hai preso il numero della targa e hai chiamato la polizia, perché non lasciare che sia lo Stato – la sua parte che più viene invocata in questi mesi – ad occuparsene con la competenza professionale, la conoscenza delle leggi, le “regole di ingaggio” elaborate nel corso dei secoli?
Non sei un poliziotto o un carabiniere, non hai alcun titolo e tantomeno alcuna esperienza per stare lì, nella notte, a chilometri da casa, a cercare di fermare un uomo che è “sospetto” soltanto in base a un’impressione tua o, peggio ancora, per quelle autoconvinzioni collettive che generano da sempre i mostri peggiori.
C’è però l’ipotesi in molti sensi peggiore. Quei due uomini magari non erano dei ladri. E quando hanno visto un certo numero di persone arrabbiate dirigersi verso di loro sono scappati. Di questi tempi, con quante ne succedono in Italia, signora mia, prima mettersi in salvo e poi cercare di capire…
Non c’è nulla da minimizzare, ci sembra. Quando il ministro dell’interno e vicepresidente del consiglio auspica e sostiene l’uso della violenza privata dei cittadini in base alla “presunzione di colpevolezza” in base al colore della pelle, ogni zucca vuota si sentirà autorizzata a far-da-sé.
Le conseguenze possibili sono già sotto i nostri occhi. E ancora non si sono verificati gli episodi che faranno certamente cortocircuitare parecchi cervelli. Ci sono ormai alcuni milioni di cittadini italiani con il colore della pelle “non bianco padano”. Ne vediamo tanti nel calcio, nell’atletica leggera, nelle università e persino sull’altare a dire messa.
Ce n’erano già sotto il fascismo… Uno di loro diventò persino generale dell’aviazione!
Per non dire poi di quegli italiani da mille generazioni che però hanno il “piccolo difetto” di essere un po’ “scuretti”, come tanti calabresi, siciliani, pugliesi, sardi o persino di qualche piccola valle bergamasca.
Aizzare l’odio sociale verso chi si porta in giro questi “segni di riconoscimento” è come piazzare una bomba nella propria auto e poi mettersi a guidare. L’unica incognita è l’ora dell’esplosione…
p.s. Neanche il tempo di scrivere e uno degli episodi “temuti” – perché statisticamente inevitabili – è avvenuto, a Moncalieri. Un’atleta della nazionale italiana di atletica, Daisy Osakue, di origine sudafricana, è stata aggredita ieri sera da un gruppo di giovani. Stava semplicemente rientrando a casa sua…
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"M'amano o non m'amano". Daisy, l'integrazione e il prezzo del prendere in parola Salvini.
Mi ricordo la foto delle campionesse italiane di atletica, nere, che girava alla fine dei Giochi del Mediterraneo. Tutti pensavano di fare un gran torto a Salvini condividendo a nastro la foto sul proprio profilo: “Alla faccia sua l’ integrazione funziona!”
Ma lui rispondeva dicendo che... "Sì infatti, sono proprio queste le nere che ci piacciono!"
Alcuni disperati poi cercavano di essere simpatici, ammiccando che se effettivamente le nere fossero state tutte così – e non delle scimmie ammaestrate, sottintendevano - ne avrebbero volute anche di più (come se le donne nere non aspettassero altro!)
Poi però, quando si torna a casa la sera a Moncalieri senza la divisa della nazionale di atletica l'ipocrisia si smaschera tutta in una volta: non tornano più i conti, non regge la menzogna.
"Una donna nera per strada cosa può essere? Una puttana!"
"Pensavano fosse una prostituta non l'avevano riconosciuta!", perché in fondo una prostituta si può anche colpire.
Oppure, come variante in cerca di empatia "Maledetti hanno picchiato una Italiana... un vero vero simbolo di integrazione!"
Mi chiedo anche perché ora il caso che più sconvolge, quello più condiviso è che smuove l'animo impietosito è quello di Daisy e non quello...
dell'uomo arabo inseguito e pestato a morte ad Aprilia (29 luglio)
dell'uomo nero sparato dal balcone a Cassola (27 luglio)
dell'uomo straniero sparato da un poliziotto a Porta Nuova (29 luglio)
del ragazzo colpito al volto da un piombino nel Casertano (27 luglio)
Non voglio essere fraintesa. Non sto sminuendo l'aggressione alla ragazza che anzi mi fa ribollire il sangue di rabbia perché è anche una violenza su una donna.
Voglio invece dire che non è un’utile difesa quell’idea di integrazione che si conserva profonda nella nostra società. Quella che pensa che i neri e le nere devono integrarsi per farcela, per integrarsi, per non essere picchiati o sparati per strada, per essere perdonati per essere... neri e nere.
È un’idea falsa, utile a preservare il compromesso fra la società perbenista di sinistra e quella razzista di destra: quello per cui chiudiamo un occhio se si fa del razzismo su dei "neri che sbagliano".
Quello che importa al razzismo è riconoscere le persone in base al colore della pelle, e se cammini per strada da solo o da sola e sei nero nessuno sa niente di te e un bianco ti vorrebbe uccidere lo stesso. "Qua c'è una guerra e qualcuno pensa di salvarsi" ho sentito da un ragazzo qualche mese fa, "ma alla fine quello che conta qua per i bianchi è che sei nero".
A tutte le persone che parlano con leggerezza, o commentano troppo facilmente dallo smartphone sul fatto che i neri se ne devono andare voglio ricordare che quanto succede è il risultato anche delle loro parole a vanvera. Ma cosa pensano che Salvini li pagherà per ogni volta che dicono Odio i neri? Cosa pensano che davvero staranno meglio e troveranno lavoro? Anche il loro illusorio sollievo somministrato in pillole di razzismo finirà per nuocere. A queste persone dico allora di guardarsi le spalle perché l'odio ha un prezzo.
Invece a quelli che predicano l'addomesticazione del nero vorrei ricordare che se queste persone nere si incazzano poi l'unico modo per distinguersi da Salvini sarà stare con loro.
Marigosa
sabato 28 luglio 2018
LA DIFESA DI FACCIATA DEI GRILLINI PER I NO TAV
Fin dagli albori il Movimento 5 stelle è sempre stato un fermo oppositore al progetto della Tav in Val Susa,tant'è che tra i primi comizi urlati di Grillo quello dell'alta velocità è sempre stato un tema molto ripreso e pure i risultati elettorali piemontesi hanno spesso beneficiato di questa propaganda(vedi i 5 stelle agli albori:madn suicidio-piemontese-annunciato ).
Che infine alla resa dei conti è rimasta tale,ed i giochetti di Di Maio che fa scaramuccia con Salvini è solo un contentino verso gli adepti come per dire,ci abbiamo tentato ma alla fine il Tav si farà perché pur se al governo alla fine va bene che si faccia.
Perché i grillini ormai anche al potere sono cagnolini che ogni tanto abbaiano ma non mordono le mani del leader della Lega e soprattutto quelle dell'Unione Europea,troppi i diktat e gli interessi in ballo e zero voglia di solo cominciare a fare un percorso rivoluzionario in materia.
L'articolo di Contropiano(dalleconomia-alla-tav-il-governo-a-tre-si-divide-in-tre )spiega questo poco rumore per nulla,un scivolamento sempre più comodo e profondo nelle poltrone che contano ed anche le ragioni del premier Conte fedele all'Europa e all'Euro in un contesto razzista con un piano economico ancora assente e scelte per l'appunto come quelle per la Tav che non credo verranno nemmeno mai discusse in Parlamento.
Dall’economia alla Tav il governo “a tre” si divide in tre.
di S.C.
“Per me la moneta unica europea, come l’appartenenza alla Nato, non sono in discussione. E non lo sono anche per il governo da me presieduto”. A chiarirlo, per chi fino ad oggi non lo avesse voluto capire, è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in una intervista con il Corriere della Sera.
Conte ci ha tenuto a smentire anche i contrasti con il ministro dell’Economia Giovanni Tria: “Non è così. Tria è il cerbero dei conti, il loro custode arcigno. Ma non esiste che lasci il governo. Attenzione, peraltro, a non considerarlo un corpo estraneo a questo esecutivo. È parte attiva e coinvolta nel tentativo di ottenere dall’Europa spazi di manovra che ci permettano di cambiare le cose”.
Ma pensando di poter fare e dire le stesse cose di quando stava all’opposizione e non al governo – un po’ come fa Salvini – anche Beppe Grillo ci ha messo del suo evocando lo spettro del Piano B: “Devi avere un piano B. Sono sicuro che la Germania e la Francia hanno un piano B. Non dico di lasciare l’Euro cosi, ma di lasciar decidere al popolo italiano con un referendum. Sarò sempre a favore di un referendum”, ha affermato Beppe Grillo in una intervista ad un programma statunitense.
Prevedibili gli effetti della “grillata” con una immediata conseguenza sul mercato dei titoli di stato con il Btp che ha visto un balzo dei rendimenti con un contestuale ampliamento dello spread, mentre Piazza Affari ha visto annullarsi il precedente rialzo, certo poco roba rispetto a botti come quelli di Zuckeberg a Wall Street, ma sono comunque segnali.
Ma quello sull’economia e il perverso rapporto di subalternità verso i diktat dell’Unione Europea, non è il solo tema di contrasto all’interno del governo “a tre attori” (i professori, i fascistoidi e gli honestisti”). Sul tavolo è infatti piombata anche la questione della Tav. Come noto il M5S in passato si è sempre detto contrario al suo proseguimento ottenendo consensi anche tra i No Tav della Val di Susa.
Adesso da Palazzo Chigi fanno notare che il dossier sulla Tav “al momento non è ancora giunto sul tavolo del Presidente del Consiglio, dunque nessuna decisione è stata ancora presa e soprattutto non ci sono state valutazioni al riguardo”. Il dossier, sottolineano le stesse fonti, “è in fase istruttoria presso il ministro competente Toninelli, il quale è impegnato in una valutazione costi-benefici, che poi sarà sottoposta e condivisa con il presidente del consiglio e con l’intero governo.
Ad ogni modo – rammenta la nota – la soluzione sarà in linea con quella contenuta nel contratto di governo” nel quale la questione Tav veniva così affrontata: “Ci impegniamo a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”. Una sintesi piuttosto sibillina sulla quale però si è gettato di pesa quello che è diventato “l’azionista di riferimento” di questo governo cioè Salvini.
La realizzazione della Tav “deve andare avanti” ha dichiarato Salvini, in un intervento su Radio 24. “Dal mio punto di vista sulla Tav occorre andare avanti, non tornare indietro. L’opera serve e se per caso da un’analisi attualizzata del 2018 non serve, costa di più bloccarla che non proseguirla? Questo è il ragionamento che varrà su tutto – aggiunge Salvini – la Tap, la Pedemontana, Terzo Valico”.
Ma anche sulla Tav, come sulle priorità nelle scelte economiche, i governo a tre dovrà fare i conti con i diktat di Bruxelles. La Commissione europea ha infatti fatto sapere che si tratta di “un progetto importante non solo per Francia e Italia ma per l’intera Europa. E’ importante – ha affermato un portavoce della Commissione, interpellato sul tema durante l’incontro di metà giornata con la stampa – che tutte le parti mantengano gli impegni a completare i lavori nel tempo previsto”.
venerdì 27 luglio 2018
E' IL SISTEMA MARCHIONNE CHE DEVE MORIRE
A bocce ferme dopo la ridondanza vomitata per troppi giorni su tutti i telegiornali e la carta stampata naturalmente a senso unico come bravi schiavi sottomessi sulle qualità eccezionali e semidivine di Marchionne,ora fortunatamente l'eco della sua morte si fa sentire sempre più in dissolvenza.
Idolatrato da colleghi manager,padroni,servi del capitale,Marchionne è sempre stato funzionale al capitalismo,quello più becero e volgare,che non guarda in faccia a niente e nessuno,spietato e individualista,un uomo nuovo che per fortuna non ha mai calcato i palcoscenici della politica anche se è stato spesso non solo invitato ma spinto a farlo.
Nei due articoli di Infoaut(editoriale/c-e-chi-non-piange-per-marchionne )e Contropiano(editorialemarchionne-il-peggiore )la figura imprenditoriale di uno che pian piano calpestando prima i suoi simili per poi divorare tutti quelli che sono stati suoi sottoposti(essendo il capo cioè tutti),ma se Marchionne è morto il modo di fare perfido ed insensibile di certo non se ne va con la sua dipartita,anzi mentre ancora era agonizzante il mondo degli squali cui è sempre stato funzionale ne aveva già deciso il successore.
C'è chi come lui fa carriera o tenta di farlo,facendo la spia,gettando fango sul collega,lavorando più col la lingua che con le mani e la testa,gli esempi pratici li abbiamo tutti i giorni nei nostri posti di lavoro,tanti piccoli Marchionne che vogliono ascendere con il ricatto,con la cattiveria ed il menefreghismo,tanti piccoli omuncoli che un ritorno di fiamma della lotta dei lavoratori deve costringere a fermarli prima di farli diventare potenti.
In fondo la sua strategia veramente da pelo sullo stomaco è sempre stata quella di abbattere i costi di lavoro lasciando a casa migliaia di persone(nella sua gestione italiana i dipendenti alla sa mercé sono passati da 120 a 29 mila),ed è quello che accade in ogni azienda in Italia e nel mondo,quindi non trovo affatto di buon gusto mettere sul piedistallo personaggi del genere.
Perché le fortune sue e della Fiat,la maggior azienda che ha usufruito dei suoi servigi,è il fatto che sono stati mantenuti in vita dal finanziamento pubblico mai restituito e dal lavoro massacrante cui migliaia di operai si sono adoperati.
C'è chi non piange per Marchionne.
Mentre l’(ex) ad Fiat Sergio Marchionne si ritrova ricoverato a Zurigo, in lungo e in largo per lo stivale da giorni dilagano commenti e rimbalzano opinioni contrastanti sulla sua figura.
Un vero patriota, per alcuni, anche se non se ne capisce il motivo. Una persona da non irridere o su cui non infierire, per altri, quando da secoli la satira e l’irrisione dei potenti è uno dei minimi mezzi a disposizione per far venire alla luce l’odio di classe.
Andando aldilà della figura personale, sembra che odiare un padrone ed esplicitarlo a chiare lettere – senza ipocrisie – sia qualcosa di deplorevole, a partire – e come non poteva essere così? - dal Patrito democratico e i suoi accoliti, che si sono stretti attorno al capezzale del patron abruzzese. Se per i politici di alto bordo questo è normale, essendo i garanti degli interessi padronali assieme alle guardie e alle corporazioni sindacali “padronalizzate”, non lo dovrebbe essere per molte persone “normali” che abbiano a mente la cronistoria, anche a grandi linee, degli ultimi due decenni in Italia o almeno dall’avvento della crisi capitalistica.
Crisi che si é acuita, estesa a macchia d’olio, divenendo strutturale e dunque “normalizzata” a scapito dei poveri, anche tramite l’implementazione bieca dei tanti modelli Marchionne a livello globale. Altro che interesse di bandiera o “illuminato” spirito imprenditoriale. La sua innovazione in Fiat è stata quella degna delle tante multinazionali volte a generare profitto che magari tanti benpensanti di queste ultime ore hanno aspramente – e giustamente – disprezzato.
Scorporare la produzione, indebolendo la forza operaia; delocalizzare; fagocitare miliardi di euro “pubblici” tranquillamente destinabili a implementare altri modelli produttivi per investirli per interesse privato in nome di “mantenere l’occupazione”. Sono questi i tratti del modello Marchionne, epigono esemplare del passaggio finale al post-fordismo avanzato nell’italietta alla fine dell’era berlusconiana poi governata direttamente da banchieri o faccendieri di questi fino all’attualità reazionaria giallo-verde.
Ci ricordiamo come proprio la non-accondiscendenza delle grandi burocrazie sindacali all’intransigenza operaia in Fiat contro l’applicazione del modello Marchionne (intransigenza che venne invece recepita e compresa nella sua politicità complessiva dal movimento studentesco dell’onda), fu dirimente alla escalation padronale contro ampie fette di popolazione sfruttabili e ricattabili. Cedere al modello Marchionne fu la chiave di volta per decretare la fine del sindacato giallo che non è mai stato concepibile come strumento di lotta, per poi arrivare al Jobs Act renziano e ai tanti altri attacchi a precari, giovani, anziani.
Marchionne dunque a noi pare degno di essere ricordato come un nemico – simbolo di una offensiva padronale non riconducibile solo al mondo della finanza – altresì strettamente legata a dinamiche di sfruttamento che hanno minato gravemente le possibilità di riproduzione sociale nel Paese e nei suoi territori.
Non cogliere o far finta di non cogliere questo passaggio all’interno della società italiana a cavallo tra primo e secondo decennio di questo secolo è prestare il fianco alla faciloneria reazionaria dei proclami leghisti, cosa che pare il PD in primis stia facendo alla grande..
Perchè, se è vero che Sergio Marchionne in questo momento è ricoverato in stato di urgenza, per la maggiorparte dei quattrocento operai morti solo in questa porzione di anno solare mentre venivano sfruttati non c’è stata manco la possibilità di arrivare vivi in ospedale...
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Marchionne, il peggiore.
di Dante Barontini
Non abbiamo mai rispettato l’invito al parce sepulto (risparmiare cattiverie nei confronti di un morto). E tantomeno lo facciamo nel caso di Sergio Marchionne, ancora vivo seppur in condizioni definite “irreversibili”.
Abbiamo di proposito lasciato scendere il polverone di salamelecchi e scodinzolamenti che tutta la stampa padronale ha dedicato al “migliore di tutti loro”. Abbiamo registrato una dose di piaggeria e falsità che non verrà probabilmente sparsa neppure quando Elisabetta d’Inghilterra raggiungerà i suoi predecessori.
E’ servita una dose mostruosa di melassa per coprire il tanfo di cinismo proveniente dai vertici di Fca (Fiat Chrysler Automobiles), che mostravano al pubblico la lacrima al termine di un cda convocato in tutta fretta a mercati chiusi per limitare eccessivi contraccolpi al valore azionario del titolo. Non è servito a molto, in questo senso, ma dà la misura di quanta “sensibilità” attraversi gli uffici della maison Agnelli-Elkann.
E’ la logica del capitale, nulla di strano. Gli uomini, in questa logica, non sono persone, ma “risorse” da sfruttare finché ce n’è, poi si buttano. Vale anche per il super-manager, che quella logica ha rappresentato al livello più alto possibile.
Perché Marchionne, non era “un padrone”, ma un funzionario del capitale. Abile, cattivo, insensibile e violento (licenziare migliaia di persone e gettarle nella disperazione non è esattamente un gesto gentile, equivale a un bombardamento…), ma sostituibile e sostituito con tutta la rapidità possibile. Anche il “coccodrillo” dettato da John Elkann – mentre il suo “dipendente” è ancora in vita – è stato un atto di cinismo degno della casata da cui proviene.
Nessuno ha fatto notare che la “riservatezza” che ha circondato il ricovero in un prestigioso ospedale svizzero – ufficialmente non è stato neppure ammesso che sia lì, non si sa in quale reparto, per quale ragione una “operazione alla spalla” abbia portato al coma irreversibile, ecc – somiglia dannatamente a quei “raffreddori” mortali che in epoca brezneviana colpivano i vertici del Cremlino. Quasi che neanche i tumori possano sfiorare l’eccelsa superiorità di certi vertici…
“Umanità” a parte, ci sono almeno due punti nella narrazione beatificante Marchionne che risultano impossibili da lasciar passare il silenzio.
Il primo è legato al “salvataggio della Fiat”, al rilancio della sua “italianità”, alla “conquista dell’America”. Balle.
Marchionne ha certamente rilevato la Fiat quando era in stato comatoso, dopo la gestione di Fresco. Un produttore di automobili che non azzeccava più un modello da tempo immemorabile, che aveva seminato “bidoni” inguardabili e soprattutto invenduti. Una galassia di società pronte per essere assorbite da General Motors, a sua volta in condizioni altrettanto brutte.
La sua prima “genialata” è stato un colpo da avvocato d’affari, più che da imprenditore; ed è consistita nello sciogliere il legame legale con GM esercitando l’allora famosa opzione put (negoziata da Fresco, in precedenza): gli americani erano contrattualmente obbligati a comprare tutte le azioni Fiat su richiesta di quest’ultima, ma – non potendo farlo per problemi finanziari gravissimi – concordarono nello sciogliere il contratto in cambio di 2 miliardi di dollari.
Fu Obama ad offrire Chrysler alla Fiat, impegnandosi a prestare parecchi miliardi pur di far rinascere il terzo marchio storico degli Usa, di fatto chiuso dopo l’esperienza fallimentare con Mercedes Benz.
Soldi pubblici (da restituire, in caso di successo) per fare business; un modello che Fiat conosceva benissimo per averlo praticato per oltre un secolo, in Italia (senza restituire mai nulla, qui). L’apporto industriale italiano fu importante (motori e tecnologie “pulite”, consumi ridotti) e rivitalizzante, soprattutto per la gallina dalle uova d’oro di casa Chrysler: il marchio Jeep.
Ma il prezzo fu la trasformazione definitiva della Fiat in una multinazionale di fatto statunitense, con conseguente abbandono – nemmeno troppo lento – della produzione in Italia, dove lascia ben presto quasi soltanto i marchi di lusso, quelli col più alto indice di reddito per unità venduta (Ferrari, Maserati, Alfa, i suv), chiudendo stabilimenti (Termini Imerese, quasi tutta Mirafiori). Una scelta confermata solo due mesi fa, con l’abbandono dei modelli Punto e Mito, il ritorno della Panda in Polonia e la produzione di suv Maserati e Jeep rispettivamente a Mirafiori e Pomigliano.
L’operazione riesce soprattutto perché apre a Chrysler il mercato europeo, fin lì ostacolato da dazi tariffari (a quel punto Jeep è un’”auto italiana”) e consumi impensabili per le abitudini continentali. Non avviene infatti l’opposto (Fiat negli Usa vende poco o nulla). E’ quindi anche il peso del mercato a decidere che, in fondo, Fca è ora stars and stripes.
L’altro pilastro del “successo” – completamente occultato dalla narrazione beatificante – è l’azzeramento del costo del lavoro sulle due sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti Marchionne strappa un contratto-capestro in cui i salari dei pochi lavoratori Chrysler riassunti vengono di fatto dimezzati, così come i piani sanitari e pensionistici (negli Usa non c’è un sistema pubblico). Poi racconterà in giro che “gli operai americani lo ringraziavano per aver loro salvato la pelle”, ma persino il capo del morbidissimo sindacato Uaw – Ron Gettelfinger – rifiutò allora di stringergli la mano esclamando: “State distruggendo un secolo di sindacalismo americano”. Poca roba, certamente, ma meglio del nulla imposto da Marchionne…
E’ stato però in Italia che Marchionne ha segnato l’epoca dell’azzeramento del potere contrattuale dei lavoratori, quindi sia dei salari che delle condizioni di lavoro.
E dire che aveva cominciato presentando un profilo molto moderato rispetto all’aggressività della Confindustria dei primi anni del nuovo millennio. Poteva permetterselo, spiegava, perché in Fiat il costo del lavoro rappresentava ormai solo il 6-7% dei costi complessivi; il resto era materie prime, energia, trasporti, ecc.
Ma quando decise di spostare la produzione della Panda dallo stabilimento polacco di Tychy a quello napoletano di Pomigliano d’Arco, anche quel margine risicato era diventato di colpo appetibile e da rosicchiare al massimo. Il manager col maglione ruppe tutte le regole consolidate nelle relazioni industriali di questo paese. Le “nuove regole interne” erano dittatoriali, tanto che furono accettate all’inizio soltanto dal Fismic, l’ex Sida, storico “sindacato aziendale” finanziato e creato dalla stessa Fiat (Cisl e Uil ci misero solo pochi minuti in più…). La minaccia fu subito esplicita e ripetuta, da allora in poi, in ogni stabilimento italiano: o accettate queste regole con un referendum, oppure chiudo e me ne vado a produrre da un’altra parte.
Rifiutò – dopo quasi 70 anni – di sottoscrivere il contratto nazionale dei metalmeccanici, uscendo per questo da Confindustria e Federmeccanica (il ramo settoriale dell’associazione imprenditoriale). L’intento era rivendicato: eliminare il sindacato, in quel momento soprattutto la Fiom, che condusse l’ultima dignitosa battaglia di resistenza, incoronando momentaneamente Maurizio Landini come “grande speraza della sinistra”.
Il “modello Pomigliano” è una galera-caserma dove i ritmi sono infernali, le pause tutte soppresse, l’usura fisica altissima (aumentano rapidamente i casi di operai che diventano “inabili al lavoro”, presto messi in cassa integrazione e di lì sulla via del licenziamento).
Addirittura venne istituita una gogna pubblica per chi commette qualche errore. Diventò presto famoso il “”rito dell’acquario”, in cui un operaio che ha sbagliato qualcosa viene messo davanti a colleghi e dirigenti chiamati a decidere la sua punizione; il tutto dentro stanzoni con le pareti di vetro, perché da fuori tutti possano vedere la sua umiliazione. A condurre il rito, quasi sempre, “capi” Fiat in odor di cattive frequentazioni sul territorio napoletano. Se la contestazione del “metodo mafioso” fosse avanzata anche in sede di fabbrica, se ne vedrebbero della belle….
Marchionne ha portato nelle relazioni industriali italiane la pratica per cui l’azienda “si sceglie il sindacato” con cui trattare, rifiutandosi di riconoscere gli altri. Ha potuto farlo per un clamoroso errore politico commesso soprattutto dalla Cgil negli anni lontani in cui era effettivamente il principale e vero rappresentante dei lavoratori, rifiutando l’idea che si potesse fissare in una legge il ruolo e la funzione del sindacato.
Marchionne ha insomma sfruttato un varco esistente tra il ruolo del sindacato come soggetto collettivo privato, firmatario però di contratti validi erga omnes, ossia per tutti i lavoratori (anziché soltanto per i propri iscritti). Ossia un soggetto che esercita una funzione pubblica (valida per tutti) pur mantenendo una forma privata. Di fatto, il riconoscimento del sindacato come soggetto abilitato a contrattare a nome di tutti i lavoratori era sostanzialmente dato dalla controparte, ossia dalle aziende. Quel riconoscimento reciproco era un “patto” che stava in piedi solo per volontà di entrambi, ma non validato da alcuna legge.
Anche qui, insomma, una “genialata” da avvocato d’affari, da esperto in codicilli e regole legali, ma sulla base di rapporti di forza mai così favorevoli alle imprese. Ma per quanto riguarda il successo industriale, sarà forse il caso di segnalare che “il settimo gruppo automobilistico del mondo” è anche l’unico, al momento, a non aver una linea di modelli ibridi, una ricerca seria sull’elettrico, ecc. Non proprio “all’avanguardia”, insomma. In definitiva, il “grande successo” delle operazioni di Marchionne si è risolto in una messa in sicurezza della struttura finanziaria della proprietà e della famiglia Agnelli. E tutto ciò viene raccontato come un “successo per gli interessi del paese”. Basti ricordare che i dipendenti in Italia, sotto la sua gestione, sono passati da 120.000 a 29.000. Ferrari e Maserati comprese…
Per questo e per altro, in definitiva, i lavoratori italiani – e noi con loro – non abbiamo mai considerato Marchionne né un “santo”, né un “difensore dell’italianità” della Fiat. Lo sapeva anche lui, del resto, quando ricordava che i lavoratori italiani “volevano fargli la pelle”. Come in guerra, dunque, ognuno piange i suoi morti e solo quelli.
Vedi anche: http://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2018/07/26/marchionne-romiti-valletta-e-la-famiglia-agnelli-0106161
venerdì 20 luglio 2018
DALLA PARTE DEL GIUSTO
Diciassette anni di ingiustizie sull'omicidio di Carlo Giuliani,una data quella del 20 luglio 2001 che pur allontanandosi nel tempo riesce a fare rivivere ancora ricordi contrastanti,rabbia e dolore,amore e commozione e odio e tenerezza.
Tutto il mondo si fermò per quel G8 genovese e tutti gli occhi puntati sulle manifestazioni dei non global che sempre di più col senno del poi hanno dimostrato di avere avuto ragione per le loro proteste.
Nell'articolo di Left(perche-17-anni-dopo-la-morte di Carlo )a firma del papà Giuliano,non ci sono parole d'odio ma piuttosto ancora di rabbia,giustificata sia per la fine del figlio che per le violenze e le torture di quei giorni e per tutto quello che è accaduto nelle varie inchieste e nei vari processi,che nessuno ha visto però giudicare la morte di Carlo,insabbiata e depistata da perizie vergognose.
Tutti sappiamo come sono andati i fatti,e la sete di giustizia,non di vendetta,della famiglia Giuliani è anche la nostra sete(noi un poco più di vendetta a dire la verità ce l'auguriamo),e quel tragico luglio(madn i-morti-siete-voi )dimostra ancora una volta che la lotta non si ferma e non lo farà fino a quando gli ideali di libertà saranno nei nostri cuori.
Nell'articolo successivo(contropiano.org )una breve spiegazione ancora sulle ragioni dei cortei contro la globalizzazione nemica dell'umanità e dei suoi diritti,oltre che della natura e dell'economia e di una società equa.
Perché 17 anni dopo la morte di Carlo è giusto pretendere la verità.
di Giuliano Giuliani
Diciassette anni. Non si attenuano l’indignazione, la rabbia, la voglia di verità. È giusto indignarsi. Perché quando chi occupa un ruolo importante in una istituzione dello Stato si comporta e decide in maniera contraria alle regole e spesso anche alla decenza, quel comportamento non soltanto lede chi è oggetto di quelle decisioni ma offende e mina la credibilità della stessa istituzione. E contribuisce così al disfacimento della società.
È giusto arrabbiarsi. Perché sempre più spesso non solo quei comportamenti vengono giubilati, imitati, mai redarguiti, ma addirittura sono all’origine di nuove e in molti casi incomprensibili promozioni. È giusto pretendere verità. Perché solo attraverso di essa può ricostruirsi un vivere sociale rispettoso delle diversità. La triste e tragica vicenda del G8 di Genova 2001 e l’omicidio di Carlo sono pietre miliari e il principale sostegno di queste argomentazioni. Il comportamento violento e in qualche caso persino criminale di reparti dei carabinieri (il duro giudizio è sorretto da quanto ha scritto la Corte di Cassazione genovese: «cariche violente, indiscriminate e ingiustificate») è all’origine dei drammatici eventi di venerdì 20 luglio, che saranno la premessa di un comportamento altrettanto irresponsabile e criminoso di reparti della polizia, culminati con la “macelleria messicana” alla Diaz e le torture nella caserma di Bolzaneto. Ma se appartenenti alla polizia, dei gradi più alti, sono stati processati e condannati (anche se poi, alcuni, promossi!), nei confronti dei carabinieri non è stato aperto nessun procedimento: la quarta forza armata dello Stato, anche quando è impegnata (cioè sempre ormai) in azioni di ordine pubblico (cioè quasi sempre di repressione) è intoccabile a prescindere. Ed è questa condizione che rende difficile quel piano di riconciliazione invocato dal capo della polizia Gabrielli e che pure avrebbe una sua ragione.
A Carlo non viene concesso neppure un processo. Magistrati inadeguati archiviano in fretta il procedimento, basandosi sull’imbroglio di quattro periti che inventano, a dispetto delle evidenze filmiche e fotografiche, lo sparo per aria e la sfortunata deviazione verso il basso del proiettile da parte di un calcinaccio che vola verso la jeep. Lo sparo per aria accresce la validità della legittima difesa, mentre nessuno ha voluto tener conto che la pistola è già armata e puntata e che Carlo, a oltre quattro metri dalla jeep, raccoglie quell’estintore (lanciato pochi attimi prima da un altro manifestante) soltanto tre secondi prima della sparo! È il 2003, l’obiettivo è togliere di mezzo il fatto più grave di quelle giornate, per poter continuare a parlare per anni di «manifestanti violenti» e di «perquisizione legittima» (dopo le indecenti sentenze di primo grado nei processi Diaz e a venticinque manifestanti, la Cassazione ristabilirà un po’ di verità nel 2012). L’oscena amministrazione della giustizia nei confronti di Carlo non finisce qui. Abbiamo tentato, per avere almeno la dignità di un processo, di affrontare una causa civile. E una delle questioni che abbiamo sollevato è l’atrocità del gesto compiuto da un carabiniere che spacca la fronte di Carlo con una sassata mentre è agonizzante, allo scopo di poter mettere in atto quello squallido tentativo di depistaggio (il vice questore Lauro che accusa un manifestante di aver ucciso Carlo con un sasso!). Fotografie e filmati non propongono equivoci sulla efferatezza del gesto, ma una indecorosa giudice civile ha dedicato al fatto due sole parole: pura congettura. Il 20 luglio non smetteremo di chiedere verità, e lo faremo per la diciassettesima volta in piazza Alimonda, pardon, in piazza Carlo Giuliani, come canta Alessio Lega!
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Eravamo no global, avevamo completamente ragione e Carlo fu ucciso per questo.
di Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)
A Genova nel luglio del 2001 ci fu il vertice del G8, allora c’era anche Putin nel gruppo, e decine e decine di migliaia di persone, in gran parte giovani, vennero nella città per far sentire la propria voce di dissenso.
Ci chiamavano NOGLOBAL perché avevamo capito che la globalizzazione era nemica dei diritti e della democrazia, della natura e della stessa umanità. Avevamo capito tutto, per questo fecero di tutto per distruggerci.
Avevamo ragione, ma il potere, allora governava Berlusconi ma col centrosinistra fu uguale, non solo non lo volle riconoscere ma cancellò con la forza più spietata le nostre ragioni. La violenza della polizia, le torture verso gli arrestati, il massacro della scuola Diaz e l’assassinio di Carlo Giuliani, il 20 luglio 2001.
Il sangue di Carlo e delle centinaia di feriti fu il prezzo pagato per avere ragione. La nostra sconfitta di allora invece la paga oggi tutta la società, con la sua ingiustizia, la sua incapacità anche solo di pensare un futuro degno e giusto, la sua regressione verso la barbarie.
Carlo aveva ragione, il mondo giusto per cui lottava è oggi più che mai la sola alternativa umana alla ferocia che dilaga. Per questo Carlo vive, perché le ragioni per cui è stato ucciso a venti anni alla fine si devono affermare, alla fine si affermeranno.
giovedì 19 luglio 2018
TRUMP RETTIFICA SE STESSO
Pochi politici hanno il dono di contraddire se stessi come cambiarsi un paio di mutande,l'eccellenza italiana rimane Berlusconi mentre a livello globale fa passi da gigante Trump,passato simile all'ex premier puttaniere e stessa propensione a spararle grosse e soprattutto la grande capacità di farsi credere da milioni di persone.
Nell'articolo di Rai News(trump-russia-fa-dietro-front )il susseguirsi frenetico di dispacci di agenzie sugli umori e le dichiarazioni alterate con rettifiche e commenti che riguardano nuovamente la vicenda Russiagate(madn trump-trema )con le accuse,poi le smentite e nuovamente minacce di inasprimenti di sanzioni contro Mosca nonostante l'esito definito positivo del vertice di Helsinki avvenuto col premier russo Putin.
Dopo le proteste Trump fa dietrofront: "Forse la Russia ha interferito su elezioni"
Il presidente ha detto di credere ai suoi 007 ma poi ammette che a ingerire sulle elezioni potrebbe essere stato qualcun altro. "L'incontro tra me e il presidente Putin è stato un grande successo fatta eccezione per i media fake news". Il Senato usa valuta nuove misure contro Mosca.
18 luglio 2018Il presidente Donald Trump proprio non accetta le critiche che gli sono piovute addosso per essersi schierato con il capo del Cremlino, Vladimir Putin, e contro l'intelligence Usa, negando le interferenze di Mosca nelle presidenziali. "L'incontro tra me e il presidente Putin è stato un grande successo fatta eccezione per i media fake news", ha twittato Trump, attaccando ancora una volta la stampa dopo aver offerto una parziale rettifica, dichiarando di credere ai suoi 007 sulle ingerenze di Mosca ma aggiungendo che potrebbe comunque essere stato qualcun altro. Ieri il presidente ha fatto dietrofront sulle ingerenze della Russia nelle presidenziali americane ma solo fino a un certo punto. "Accetto le conclusioni della nostra comunità di intelligence sul fatto che le ingerenze russe nelle elezioni del 2016 siano avvenute", ha dichiarato il miliardario dopo lo sdegno bipartisan che lo ha accolto a Washington al suo rientro da Helsinki dove si è schierato dalla parte del capo del Cremlino, Vladimir Putin, a scapito degli 007 americani, negando le interferenze. "Ma potrebbe essere stato qualcun altro. Tante altre persone", ha tenuto ad aggiungere Trump, parzialmente vanificando la sua retromarcia.
Il presidente degli Stati Uniti ha spiegato di aver semplicemente sbagliato parola quando con Putin al suo fianco ha smentito l'intelligence Usa. "Mi sono reso conto che alcune mie dichiarazioni richiedono un chiarimento: nella frase chiave delle mie esternazioni ho usato la parola 'dovrebbe' anziché 'non dovrebbe'. Ciò che intendevo, ha argomentato, è 'non vedo per quale ragione non dovrebbe essere la Russia'". Eppure durante un'intervista a Fox News, dopo la conferenza stampa congiunta con Putin, Trump non ha minimamente accennato a questo 'errore' che era già rimbalzato sui media di tutto il mondo. Il presidente americano ha anche twittato che il vertice con Putin e' andato meglio di quello con gli alleati Nato.
Intanto il Senato degli Stati Uniti sta valutando nuove misure legislative contro Mosca dopo la resa del presidente Donald Trump che si è schierato con il capo del Cremlino, Vladimir Putin, negando le interferenze russe nelle presidenziali Usa, salvo poi tentare una rettifica. "Penso sia importante che loro (i russi) capiscano che almeno qui, da parte di entrambi i fronti politici, in entrambe le aule del Congresso, c'è un forte sostegno per le nostre alleanze, un ampio sostegno nel difendere il nostro sistema rispetto alle ingerenze", ha detto ai cronisti il senatore repubblicano John Thune, numero tre del Grand Old Party (Gop) in Senato.
I senatori stanno discutendo anche della possibilità di imporre nuove sanzioni contro Mosca dopo l'incriminazione di 12 russi per interferenze nelle elezioni. Lo scorso anno il Congresso ha approvato a larga maggioranza sanzioni contro Mosca nonostante le resistenze di Trump. Il leader di maggioranza in Senato, il repubblicano Mitch McConnell ha dichiarato che "c'è la possibilita'" di nuove sanzioni. Anche lo Speaker del Camera, il Gop Paul Ryan, ha indicato di essere pronto a considerare misure addizionali contro la Russia.
mercoledì 18 luglio 2018
GLI EUROPEI E LO"STUPRO ACCETTABILE"
Non è il primo e sicuramente non sarà l'ultimo caso di uno stupro dove la vittima oltre a subire danni fisici e psicologici viene additata a provocatrice e complice di quello che ha subito,e non è tanto la sentenza della Cassazione che comunque ha condannato i due colpevoli che ora sta facendo molto discutere,quanto l'atteggiamento delle persone a giustificare queste violenze.
Infatti è risaputo di casi nei quali flirtare,vestirsi in una certa maniera,essere ubriache come nel caso in questione,viene visto come un concorso di colpa per le vittime di violenza,e come detto nel breve articolo preso da Contropiano(dopo-una-sbronza-mi-aspetto-un-mal-di-testa-non-uno-stupro )i due cinquantenni non hanno avuto l'aggravante in quanto la donna ha bevuto volontariamente alcol senza essere stata costretta dai due commensali stupratori.
La legge parla chiaro ma questo non vuol dire che sia giusta,potrebbe e dovrebbe essere cambiata in quanto la vittima,che assuma droghe o alcol o che sia minacciata da armi,mica si cerca la violenza come spesso accade in casi sia italiani che europei(vedi:limportanza-della-divisa-in-un-processo )dove la percezione dello"stupro accettabile"sta sempre più aumentando.
Dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa, non uno stupro!
di NonUnaDiMeno
Secondo la sentenza della Corte di Cassazione numero 32462 emessa dalla terza sezione penale, uno «stupro non ha aggravanti se la vittima si è ubriacata».
Per i Supremi giudici lo stupro di gruppo c’è stato, ma va esclusa l’aggravante per l’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti perché la ragazza ha assunto alcool “volontariamente”.
Una sentenza molto grave che sposta l’attenzione dallo stupro alla colpevolizzazione della donna e della sua vita. Ribadisce il concetto patriarcale che se scegli di bere scegli anche di essere violentata. L’ennesima violenza sui corpi, sulle menti e sull’autodeterminazione delle donne!
Sottolineiamo le affinità tra il caso de la Manada in Spagna e il caso dello stupro di Firenze da parte di due carabinieri in servizio ai danni di due studentesse americane.
Non Una Di Meno scese in piazza contro la cultura machista delle forze dell’ordine e la violenza dei tribunali, ribadendo che: «dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa non uno stupro!».
martedì 17 luglio 2018
L'OPPOSIZIONE ACCORCIA LA MEMORIA
Quelli che una volta erano di sinistra e che a bocconi ogni tanto si risvegliano indignandosi di quello che loro per primi hanno contribuito ad iniziare e compiere,stanno moltiplicandosi essendo passati all'opposizione loro malgrado e naturalmente sto parlando in maniera quasi totale dei politici e dei sostenitori del Pd.
Le dichiarazioni di Maurizio Martina riportate qui sotto dal contributo di Contropiano(la-memoria-cortissima-di-martina )parla effettivamente dell'ennesima pagina vergognosa cui siamo da settimane abituati con i costanti respingimenti di disperati che cercano un migliore futuro e che sono sballottati come merce da un porto all'altro.
Peccato che per Martina e per il Pd questo scempio l'abbiamo proprio cominciato loro con gli accordi con la Libia presi per conto dell'Ue dal governo Gentiloni e dallo sceriffo Minniti,in maniera a sua volta molto criticata dalla vera sinistra mentre ora i rapanelli piddini che sono all'opposizione in maniera schifosamente ipocrita denunciano come criminale.
La memoria cortissima di Martina.
di Sergio Scorza
C’è una “sinistra” che si indigna, ma solo quando sta all’opposizione. È la “sinistra” che non fa mai autocritica e che non ammette mai i propri errori, nemmeno quelli tragici.
Ieri #Martina (PD) ha dichiarato: ” Non si fa una trattativa con i paesi della UE tenendo in ostaggio 450 migranti com’è avvenuto tra sabato e domenica a #Pozzallo.”*. Vero, quella trattativa fatta lasciando al largo 450 esseri umani – tra i quali tanti bambini – disidratati, denutriti, in mezzo ad un caldo torrido ed in emergenza sanitaria, è stato un atto criminale, schifoso, abominevole.
Ma perché non dirla tutta?
Perché non dire che quella povera gente era reduce dai terribili campi di concentramento libici frutto del patto stretto con Tripoli dal governo Gentiloni e dall’ex ministro dell’interno Minniti per conto dell’Unione Europea (leggi: accordo stretto dal governo italiano con quello di Fayez Al Sarraj)?
Lo sa Maurizio Martina cosa sono i “Mezra”? Lo sa che sono orribili prigioni fuori da ogni regola in cui i boss del traffico di esseri umani tengono rinchiusi donne, bambini e uomini che vengono continuamente seviziati con la corrente elettrica, picchiati con tubi di gomma, lasciati senza cibo per giorni e nei quali le ragazze vengono sistematicamente e brutalmente stuprate?
Martina forse non ricorda che che anche l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU definì l’accordo italo-libico del febbraio 2017 “disumano” e la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia “un oltraggio alla coscienza dell’umanità”.
Martina non ricorda nemmeno che gli osservatori dell’ONU inviati in Libia parlarono di “migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi basilari”.
Intanto in Libia, oggi, ieri sono morti soffocati nel container di un camion otto migranti, tra cui sei bambini.
lunedì 16 luglio 2018
CHI TUTTO E CHI NULLA
C'è voluto l'acquisto del giocatore portoghese Cristiano Ronaldo per focalizzare il punto sulla situazione degli operai visto che gli scioperi di oggi in alcune delle sedi della Fca,una delle maggiori aziende che foraggiano la Juventus prossima meta del calciatore,sono stati indetti per protestare contro questo investimento di centinaia di milioni di Euro.
Il fatto che l'azienda che deriva dalla Fiat degli Agnelli abbia sempre negato di avere soldi da spendere per gli aumenti degli stipendi e dei salari dei lavoratori e ora ne abbia molti da poter partecipare all'acquisto ed all'ingaggio di CR7,è stata la scintilla che ha fatto sì che questa vicenda calcistica abbia sconfinato nel sociale e che abbia fatto il giro del mondo.
Nell'articolo di Contropiano(lavoro-conflitto )un commento riguardo a questo fatto.
Cristiano Ronaldo? Finalmente si parla della condizione operaia in Italia.
di Usb
Il gruppo FCA, che conta decine di migliaia di operai nel nostro paese, fa parte dello stesso gruppo economico proprietario della Juventus; le condizioni di lavoro e salariali degli operai della FCA Italia sono indegni di una nazione civile, ma ci voleva Ronaldo per metterle in evidenza.Lo sciopero proclamato dall’Unione Sindacale di Base di Melfi per il prossimo lunedì ha proprio l’obiettivo di denunciare la condizione lavorativa e salariale degli operai italiani e, in particolare di quelli FCA, mettendo a confronto le cifre spropositate che vengono investite per assicurarsi le prestazioni del calciatore più famoso al mondo e le misere paghe che ricevono gli operai.Gli operai di Melfi non sono del resto nuovi a questo tipo di contestazione/rivendicazione, avendo scioperato anche quando Marchionne si concesse un super bonus da 30 milioni di euro.Ma il motivo vero dello sciopero risiede proprio nel comportamento della proprietà, la Exor (la vecchia IFI/IFIL, dal 2016 trasferita dagli Agnelli in Olanda) cui fa capo la stessa Juventus, che sfrutta in maniera vergognosa i lavoratori, mente spudoratamente sui piani industriali e lascia migliaia di lavoratori in cassa integrazione per anni.Con la proclamazione di sciopero dell’USB di Melfi si è viceversa sollevato il velo che ha nascosto per anni la condizione degli operai italiani; nonostante le promesse e gli impegni assunti da Marchionne, in termini di investimenti e di piena occupazione, la realtà della FCA rimane ben diversa: da anni migliaia di lavoratori sono in cassa integrazione o in solidarietà, i nuovi modelli e i relativi investimenti arrivano con il contagocce e non risolvono i problemi del gruppo, nonostante i proclami dei soliti sindacati fiancheggiatori.La FCA è ormai diventata una fucina di precarietà, di lavoratori poveri, di persone che subiscono danni alla salute a causa dei gravosi ritmi e dei carichi di lavoro, quando hanno “la fortuna” di lavorare, e in questo l’impianto di Melfi è all’avanguardia, se di avanguardia si può parlare per l’unico impianto che nel mondo lavora ancora a ciclo continuo.La FCA applica, peraltro, un contratto di gruppo peggiore persino di quello scellerato firmato da Fim Fiom Uil per il rinnovo del CCNL Metalmeccanici.
Non ci si deve meravigliare quindi se c’è chi si stanca di essere preso in giro da una proprietà che dice sempre di non avere i soldi per i salari e l’occupazione ma poi li trova per l’acquisto di un grande calciatore.Ancora oggi migliaia di lavoratori di Pomigliano, di Grugliasco, di Mirafiori, della New Holland di San Mauro, di Melfi sono infatti in cassa integrazione e altre migliaia in solidarietà, ossia sopravvivono con le indennità erogate dallo Stato.
Nessuno parla più di queste cose, della dignità dei lavoratori, dei salari da fame, degli organici insufficienti, delle patologie che affliggono moltissimi lavoratori a causa dell’attività in FCA.La stessa situazione la ritroviamo in tante altre fabbriche italiane.
E allora è giusto scioperare contro le disuguaglianze e per un futuro migliore.
Se oggi in tutto il mondo si sta guardando a quello che accade in FCA, è merito della proclamazione di questo sciopero da parte di USB e del coraggio dei lavoratori e delle lavoratrici che lunedì non varcheranno i cancelli della fabbrica.Intanto anche la Sevel, fabbrica abruzzese del gruppo FCA che conta oltre 6000 dipendenti, ha deciso di scioperare le ultime 4 ore di venerdì 13 e per otto ore nella giornata di sabato 14, facendo proprie le motivazioni dei colleghi di Melfi, ma anche per rivendicare il ripristino delle pause fisiologiche tagliate da FCA.
Il contratto stipulato con Ronaldo e i super bonus di Marchionne dicono che i soldi nella cassaforte della Exor ci sono. Vengano usati allora anche per fare investimenti veri, per la piena occupazione di tutti i lavoratori del gruppo e per erogare aumenti contrattuali veri.
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