Oggi sono passati 3650 giorni dalla morte di un ragazzo che oggi avrebbe trentatrè anni,e dire se i fatti di quel tragico 20 luglio fosserro stati altri è inutile:lo sparo c'è stato e la vittima c'è stata,superfluo parlare del destino o di altre situazioni fumose.
Da allora Carlo è un'icona ed un esempio nella lotta contro lo Stato di polizia,contro il fascismo ed i regimi oppressori di tutto il mondo,cosa che forse avrebbe fatto meno ad impersonare ma che è successa e sono sicuro che da dovunque sia ci dia un occhio e una sorta di protezione.
I veri morti di quel giorno sono altri,e sapete a chi mi riferisco.
Links:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.com/2010/07/carlo-vive.html e http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.com/2009/07/20-07-2001-noi-non-dimentichiamo.html .
20 luglio 2001: Carlo fino all'ultimo è rimasto davanti.
Per Venerdi 20 luglio, il secondo giorno di mobilitazione contro il G8 a Genova, il corteo più grosso e più atteso, è quello dei disobbedienti , con partenza allo stadio Carlini.
Le tute bianche, hanno l'obiettivo di raggiungere la zona rossa per assediarla pacificamente.
Il corteo, composto da almeno diecimila persone si muove intorno alle 2, con i manifestanti alla testa, vestiti di gomma piuma, caschi e bottiglie di plastica legate alla meglio intorno agli arti, che sorreggono scudi per proteggere il resto dei manifestanti.
Intanto la violenza inaudita delle forze dell'ordine, incapaci di gestire l'ordine e mandate evidentemente allo sbaraglio inizia a manifestarsi contro il sit-in delle associazioni presente in Piazza Manin, caricato e gasato dai lacrimogeni all'improvviso.
Stessa sorte tocca al corteo delle tute bianche quando in via Tolemaide un plotone di carabinieri, (che poi si scoprirà trovarsi li per sbaglio), carica e riempie di lacrimogeni la testa del corteo che rimane imbottigliato senza via di fuga. A quel punto i manifestanti reagiscono iniziando violenti scontri con i carabinieri.
L'errore più grande però lo commette un gruppo di carabinieri che intorno alle 17.20 si sposta insieme a due jeep verso Piazza Alimonda per caricare i manifestanti ritrovandosi imbottigliato nella piazza. A quel punto i carabinieri provano ad arretrare ma le due camionette faticano ad invertire la marcia, tant'è che una delle due si incastra tra il muro ed un cassonetto. Da quel defender spunta fuori un braccio che punta una pistola ad altezza d'uomo. Un ragazzo, raccoglie un estintore nel tentativo di scagliarlo contro quella mano assassina, ma viene colpito in faccia da due colpi di pistola.
Le tute bianche, hanno l'obiettivo di raggiungere la zona rossa per assediarla pacificamente.
Il corteo, composto da almeno diecimila persone si muove intorno alle 2, con i manifestanti alla testa, vestiti di gomma piuma, caschi e bottiglie di plastica legate alla meglio intorno agli arti, che sorreggono scudi per proteggere il resto dei manifestanti.
Intanto la violenza inaudita delle forze dell'ordine, incapaci di gestire l'ordine e mandate evidentemente allo sbaraglio inizia a manifestarsi contro il sit-in delle associazioni presente in Piazza Manin, caricato e gasato dai lacrimogeni all'improvviso.
Stessa sorte tocca al corteo delle tute bianche quando in via Tolemaide un plotone di carabinieri, (che poi si scoprirà trovarsi li per sbaglio), carica e riempie di lacrimogeni la testa del corteo che rimane imbottigliato senza via di fuga. A quel punto i manifestanti reagiscono iniziando violenti scontri con i carabinieri.
L'errore più grande però lo commette un gruppo di carabinieri che intorno alle 17.20 si sposta insieme a due jeep verso Piazza Alimonda per caricare i manifestanti ritrovandosi imbottigliato nella piazza. A quel punto i carabinieri provano ad arretrare ma le due camionette faticano ad invertire la marcia, tant'è che una delle due si incastra tra il muro ed un cassonetto. Da quel defender spunta fuori un braccio che punta una pistola ad altezza d'uomo. Un ragazzo, raccoglie un estintore nel tentativo di scagliarlo contro quella mano assassina, ma viene colpito in faccia da due colpi di pistola.
" ma Carlo fino all'ultimo è rimasto davanti fino ad alzarsi con un estintore in primo piano ci ha insegnato a vedere cos'è un essere umano"
Il ragazzo, è Carlo Giuliani, 23 anni residente a Genova. Quella mattina aveva in programma di andarsene al in spiaggia, ma il clima che si respirava in città gli fece cambiare idea e partecipare al corteo.
"E ora nella dignita' mi specchio, nella dignita' del fratello che era insieme a noi nel mucchio, lui ha lottato,quando ha avuto l' occasione non ha voltato gli occhi e questa é la lezione da insegnare nelle scuole,nei racconti che disegnano le sere cosa sparava in faccia quel carabiniere, io porto con me il nome di Carlo Giuliani, noi facciamo la storia mentre quelli fanno i piani"
La famiglia di Carlo e tutte le vittime dei pestaggi di Genova cercano ancora di avere giustizia a dieci anni di distanza.
Mentre gli sbirri responsabili di ciò tutto ciò che è accaduto a Genova in quei giorni se la cavano con condanne fasulle e continue promozioni.
Mentre gli sbirri responsabili di ciò tutto ciò che è accaduto a Genova in quei giorni se la cavano con condanne fasulle e continue promozioni.
" e non spegni il sole se gli spari addosso, non spegni il sole se gli spari addosso!"
tratto da www.infoaut.org
20 luglio 2011
A dieci anni dai tragici fatti di Genova proponiamo e riproponiamo due articoli. Il primo di Pino d'Agostino che ripercorre le strategie repressive e il ruolo della polizia a Genova in occasione del G8 fino ai successivi avanzamenti di carriera per i poliziotti condannati. Il secondo un documento del 2001 di Claudio Albertani sulla composizione politica di quelle giornate dai black bloc agli zapatisti passando per i pacifisti.
Pur non condividendone alcuni passaggi in entrambi i documenti, riconosciamo il valore documentario di una ricostruzione che apre ad una riflessione articolata sulle vicende genovesi e sul movimento dell'epoca. Agli storici, e a coloro che si occupano di storiografia politica, il compito di un lavoro strutturato su questi temi. Senza rancori e rimozioni. red. 20 luglio 2011
Pur non condividendone alcuni passaggi in entrambi i documenti, riconosciamo il valore documentario di una ricostruzione che apre ad una riflessione articolata sulle vicende genovesi e sul movimento dell'epoca. Agli storici, e a coloro che si occupano di storiografia politica, il compito di un lavoro strutturato su questi temi. Senza rancori e rimozioni. red. 20 luglio 2011
G8 di Genova anno 2001, scuola Diaz. “Mi hanno bastonata e presa a calci, si divertivano a sentire i miei gemiti”. Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz. Era in preda al panico mentre quelli, i “tutori dell’ordine”, sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio “in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa”. Lei e il suo ragazzo avevano deciso di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo i poliziotti li trovarono, e purtroppo le braccia alzate servirono a poco. Lena Z. ha oggi 34 anni, ne aveva 24 al G8, quando tornò a casa, ad Amburgo, con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. “Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone”. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in soprannumero e a volto coperto. Delinquenti e vigliacchi, e ancor più vigliacchi perché agirono “coperti” e protetti da una divisa. “Io ero rimasta là, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con calci alla schiena e bastonate ai fianchi. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora. Ero sdraiata contro il muro, mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora. Al secondo piano mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. I poliziotti sono passati più volte accanto a me e ognuno di loro si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso”. Questa era la testimonianza della giovane tedesca la cui foto con il volto coperto di sangue fece il giro del mondo. Pochi le credettero al processo. Poi, a distanza di quasi 6 anni, nel 2007, Michelangelo Fournier, all'epoca del G8 vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, descrisse quello che vide al momento dell'irruzione nella scuola Diaz: "Sembrava una macelleria messicana". Poche parole, agghiaccianti, la cui crudezza dà, più di mille discorsi, il senso preciso di quel che fu quella spietata mattanza.
Eppure la descrizione che Fournier aveva fornito inizialmente era stata ben diversa. Ma gli va riconosciuto e dato onore che fu uno dei pochissimi ad avere la forza di dire, anche se in ritardo, come realmente erano andate le cose. Quelle terribili parole non le dimenticheremo mai. Ma ne disse anche altre Fournier, e altrettanto gravi: "Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sono rimasto terrorizzato quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: basta basta, e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza, per terra, c'erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale". Il dato di fatto è che con il pretesto di una sassaiola inesistente, della presenza di due molotov e di un altrettanto inventato accoltellamento, giustificarono il massacro di sessantuno persone, spaccando milze, teste ed ossa, senza pietà. Per arrestare 93 innocenti, i nostri “guardiani della legalità” arrivarono anche a manipolare le prove, o meglio, a inventarle e costruirle (come le false bottiglie molotov). Dal processo emergono le responsabilità dei superpoliziotti coinvolti nel massacro. Il 22 luglio del 2001, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi dichiara alle telecamere: “Ho avuto questa mattina una telefonata del ministro degli Interni, che mi ha rappresentato il ritrovamento di armi improprie all'interno del Genoa Social Forum e la individuazione di 60 persone appartenenti alle squadre violente che si erano occultate, tra gli esponenti stessi del Genoa Social Forum. […] non c'era una distinzione tra coloro che hanno operato la violenza e la guerriglia e gli esponenti del Genoa Social Forum che, anzi, avrebbero favorito e coperto questa loro presenza”. Degno premier di un paese “democratico” che consente scempi del genere. Lo stesso giorno la Polizia di Stato organizza una conferenza stampa nel corso della quale i giornalisti non possono fare domande, ma solo ascoltare la lettura di questo comunicato: ...”Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. Sono state sequestrate armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Le indagini successive hanno rivelato una verità differente: il Vicequestore Pasquale Guaglione, ha dichiarato ai PM genovesi che quelle bottiglie furono in realtà ritrovate da lui sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente.
Ma il G8 di Genova non fu solo la Diaz. G8 sono stati i Black bloc che attaccano e le forze dell'ordine che li ignorano e preferiscono scagliarsi con cariche e lacrimogeni contro i cortei autorizzati. Nell'inchiesta diranno che si erano sbagliati perché non conoscevano la città. G8 è soprattutto l'assassinio di Carlo Giuliani e il tentativo di attribuire la morte ai suoi compagni: "Siete stati voi a ucciderlo, bastardi, con le vostre pietre". Così urlavano i carabinieri. E per un momento forse tutti ci abbiamo creduto. E poi le torture nel “carcere” di Bolzaneto. Dieci anni fa la città di Genova fu violentata. Le regole della democrazia sospese e calpestate, gli fu sputato addosso. Un ragazzo fu ucciso. Migliaia vennero percossi senza alcuna ragione, senza aver fatto nulla, solo per il fatto che erano lì. Giorni che passano e ferite che ancora non si rimarginano, ed è meglio che sia così, che quelle ferite non si chiudano mai, perché ci costringeranno a non dimenticare. Quel movimento pacifico fece paura e fu stroncato a Genova con una repressione senza precedenti, come forse neanche in un regime dittatoriale sudamericano degli anni ‘70 ci si sarebbe azzardato a fare. Eppure eravamo in Italia ed era il 2001. E i responsabili di tali violenze, pur essendo stati condannati, sono ancora al loro posto, e molti sono stati promossi ai vertici del ministero dell’Interno. E anche il premier di allora, quel presidente del consiglio che tentò di proteggerli, è ancora qui. Strano paese il nostro…
Amnesty International definì quella mattanza la più grave violazione dei diritti umani dal secondo dopoguerra. Non c'è nessun altro Paese al mondo che abbia i vertici delle polizie e dei servizi segreti condannati in appello. E le immagini di quel G8 scorrono ancora davanti agli occhi di tanti di noi. E fanno male, tanto male. Ma non ai nostri occhi, ai nostri cuori e, spero, alle nostre teste. E mi auguro che questo dolore resti lì per sempre, come monito per il futuro.
Mi calo il cappello sugli occhi e mi addormento.
Pino D'Agostino da Interno 18
tratto da http://www.osservatoriorepressione.org
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Blocchi Neri, Tute Bianche e Zapatisti nel movimento antiglobalizzazioneTutti i mali che nascono nelle repubbliche si devono alle violente inimicizie che dividono la nobiltà dal popolo perché, mentre l'una vuole comandare, l'altro non vuole obbedire. [Niccolò Machiavelli]
...s'è accesa, a poco a poco, una nuova epoca d'incendi, di cui nessuno di coloro i quali vivono ora vedrà la fine: l'obbedienza è morta. [Guy Debord]
...s'è accesa, a poco a poco, una nuova epoca d'incendi, di cui nessuno di coloro i quali vivono ora vedrà la fine: l'obbedienza è morta. [Guy Debord]
Piu' di mezzo secolo fa, George Orwell scrisse che una societa' perviene ad essere totalitaria quando le sue strutture diventano palesemente artificiali, cioe' quando la classe dominante riesce a sostenersi unicamente grazie alla forza e all'inganno. Una tale societa' non puo' permettersi di essere tollerante, ne' puo' autorizzare un resoconto veridico di cio' che accade.
Oggi il Grande Fratello e' al governo ovunque e combattere le sue menzogne risulta piu' difficile che ai tempi di Orwell. Lo si e' visto in occasione delle manifestazioni contro il vertice dei potenti, tenuto a Genova a fine luglio 2001.
Ci e' parso utile, per ristabilire la verita', provare a ricomporre frammenti di quel resoconto, come strumenti da mettere a disposizione di chiunque intenda liberamente avvalersene.
In quei giorni erano all'opera un numero impressionante - forse centomila - fra microfoni, macchine fotografiche, cineprese e videocamere, la qual cosa, se da un lato ha attizzato la curiosita' malevola dei pubblici ministeri, dall'altro ha reso piu' facili la memoria e il ripensamento critico.
Inoltre, grazie alla creazione di Radio Gap e al suo sito Internet (www.radiogap.net/it ), l'informazione e' circolata in tempo reale ed ha potuto essere seguita in piu' lingue da qualsiasi parte del mondo.
Ci siamo dunque avvalsi di questo materiale e delle testimonianze che coloro i quali sono stati a Genova hanno, in prima persona registrato.
In un'epoca che pare avere perduto ogni certezza, e' molto difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di questo movimento, ma di sicuro, per molto tempo non potremo percorrere la via accidentata della liberazione umana, senza ricordarci di Genova.
Oggi il Grande Fratello e' al governo ovunque e combattere le sue menzogne risulta piu' difficile che ai tempi di Orwell. Lo si e' visto in occasione delle manifestazioni contro il vertice dei potenti, tenuto a Genova a fine luglio 2001.
Ci e' parso utile, per ristabilire la verita', provare a ricomporre frammenti di quel resoconto, come strumenti da mettere a disposizione di chiunque intenda liberamente avvalersene.
In quei giorni erano all'opera un numero impressionante - forse centomila - fra microfoni, macchine fotografiche, cineprese e videocamere, la qual cosa, se da un lato ha attizzato la curiosita' malevola dei pubblici ministeri, dall'altro ha reso piu' facili la memoria e il ripensamento critico.
Inoltre, grazie alla creazione di Radio Gap e al suo sito Internet (www.radiogap.net/it ), l'informazione e' circolata in tempo reale ed ha potuto essere seguita in piu' lingue da qualsiasi parte del mondo.
Ci siamo dunque avvalsi di questo materiale e delle testimonianze che coloro i quali sono stati a Genova hanno, in prima persona registrato.
In un'epoca che pare avere perduto ogni certezza, e' molto difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di questo movimento, ma di sicuro, per molto tempo non potremo percorrere la via accidentata della liberazione umana, senza ricordarci di Genova.
La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato d'eccezione" in cui viviamo e' la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci stara' davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d'eccezione...
W. Benjamin
W. Benjamin
In preparazione del vertice, la citta' venne smontata e ricomposta in base a criteri che aggiornavano l'urbanistica controinsurrezionale del barone Haussmann, l'architetto che, dopo la rivoluzione del 1848 aveva demolito interi quartieri di Parigi per prevenire la costruzione di barricate e consentire i movimenti dell'artiglieria.
In bilico fra l'ostentazione del proprio potere e la consapevolezza di una crescente impopolarita', i signori governanti avevano stabilito di asserragliarsi nella «zona rossa». L'accesso rimase consentito solo a residenti – invitati in ogni modo a prendersi una piccola vacanza e diffidati comunque a non stendere antiestetiche mutande (?!) nelle vie proibite - portaborse, funzionari, giornalisti accreditati di un «passaporto interno».
Intorno, a dividere in due la citta', ventimila tra poliziotti, finanzieri e carabinieri, tremila militari, paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri, incursori, sommozzatori, e specialisti della guerra batteriologica, nucleare e chimica.
Nel contempo la temperatura politica veniva alzata artificialmente grazie a un maldestro remake della strategia della tensione: lettere-bomba, piccoli attentati, falsi allarme. Una mossa prevedibile. In Italia, ogniqualvolta appare un movimento di protesta, i corpi separati dello stato rimestano nel torbido.
Il 19 luglio, Genova aveva ormai assunto l'aspetto kafkiano di una citta' blindata e semi abbandonata: chiuse le stazioni ferroviarie, chiusi il porto e l'aeroporto, chiusa la strada sopraelevata lungo il mare come pure il principale accesso autostradale, chiusi gli accessi alle spiagge, chiusi i posti di lavoro, sospesi i matrimoni, le operazioni chirurgiche, i funerali, capillare ed ossessivo il controllo sul territorio e lo sfoggio di potenza militare. Nemmeno ai tempi dell'occupazione nazista o durante la grande sollevazione del luglio 1960, si era giunti a tanto.
Quel giorno, nel corso di una pacifica manifestazione per la tutela dei migranti (quelli residenti a Genova poco presenti in piazza, per via delle minacce recapitate dalla polizia, casa per casa, nelle settimane precedenti), cio' che si pote' constatare fu l'incompatibilita' della libera circolazione di tutti, e non solo dei clandestini, con la sicurezza dei governanti. Nell'ansia di difendersi dalle migliaia di assedianti giunti dai cinque continenti, e per verificare l'efficacia di nuovi dispositivi di dominio, essi avevano sospeso per decreto la rassicurante cappa della normalita' sociale.
La citta' era a tal punto intasata da reti metalliche barriere, percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, che il suo attraversamento a piedi da Ovest a Est – d'abitudine una bella passeggiata per il centro storico piu' grande d'Europa - avrebbe richiesto un percorso di varie ore attraverso i monti!
Il 20 luglio, quando tra calici di vino e linguine al pesto (rigorosamente senz'aglio, per compiacere le idiosincrasie alimentari del satrapo Berlusconi) l'e'lite globale - il senato virtuale del mondo, secondo la definizione di Noam Chomsky - si fu riunita infine a Palazzo Ducale per ragionare amabilmente del destino dell'umanita', poco lontano, al di la' delle barriere protettive, una parte di quell'umanita' decise di riprendere in mano il proprio destino.
La reazione non si fece attendere. Il cielo fu solcato da assordanti elicotteri da combattimento da cui - come nel film Apocalypse Now – si affacciavano, minacciose, le sagome dei gorilla di stato armati fino ai denti. Piu' sotto, squadracce di poliziotti e carabinieri sfogavano i loro istinti sadici contro manifestanti inermi e seminudi, arretrando di fronte ai Black Blocs i quali, altrove, colpivano con efficacia carceri, banche, commissariati e supermercati.
La sera del 21 gli sbirri, ansiosi di scrollare dai manganelli la polvere di troppi anni di quiete sociale, devastavano due scuole dove si trovavano centinaia di manifestanti. In una di esse, aveva sede il centro multimediale del movimento.
Gli arrestati, per la maggior parte sorpresi nel sonno, vennero massacrati al canto di Faccetta nera, la vecchia canzone fascista. Le violenze continuarono negli ospedali, nelle caserme, nelle carceri, scandite da slogan inequivocabili «Un, due, tre, evviva Pinochet, / quattro, cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, / sette, otto, nove, il negretto non commuove».
Piu' ancora di questo misero folklore, se vi e' un elemento nella condotta del governo italiano che davvero richiama il fascismo, e' l'inquietante modo di dare la caccia ai manifestanti, non gia' perche' facessero qualcosa di proibito o si astenessero da qualcosa di obbligatorio (non ci furono ne' intimazioni di sgombero, ne' ordini di scioglimento; la polizia, semplicemente, assali' il corteo), ma, come dei nuovi ebrei, per la semplice colpa di esistere.
Il bilancio fu di proporzioni belliche: piu' di 300 arresti, 600 feriti, decine di teste fracassate, braccia e gambe spezzate, un numero imprecisato di torturati in caserma, forse qualche desaparecido, e l'odore acre del sangue di un morto sull'asfalto ardente.
Fu un esperimento di controguerriglia freddamente pianificato nelle alte sfere dell'e'lite mondiale o, semplicemente, una bravata del centrodestra nazionale ansioso di consumare sui «rossi» la vendetta per la cacciata di quarantun anni prima?
La tempestiva proposta tedesca di creare una forza europea antisommossa, l'insistenza che si leva da ogni parte per la creazione di un'anagrafe internazionale dei sovversivi, farebbero propendere per la prima ipotesi, pero' la questione rimane aperta.
A Genova si trovava riassunto il peggio di due anni di repressioni globali: le torture e i canti nazisti a Praga e a Napoli, la rete metallica a Quebec, il blocco delle vie di fuga ancora a Napoli, l'assalto alle scuole concesse al movimento e i colpi di pistola ad altezza d'uomo a Goteborg.
Mentre Berlusconi non arrossiva proclamando: «Il G8 ha lavorato bene e, per la prima volta, si e' aperto alla societa' civile», da parte sua, il fiammeggiante vice primo ministro, Gianfranco Fini, avvertiva: «il nostro e' uno stato democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi siano soppressioni di liberta'».
Il messaggio e' chiaro: il nostro e' il migliore dei mondi possibili, nessuno si azzardi a sollevare obiezioni. E, giustamente, il ruolo di polizia del pensiero, i neofascisti al governo – eredi proprio di chi il vocabolo «totalitarismo» lo invento' – lo reclamano per se'.
In bilico fra l'ostentazione del proprio potere e la consapevolezza di una crescente impopolarita', i signori governanti avevano stabilito di asserragliarsi nella «zona rossa». L'accesso rimase consentito solo a residenti – invitati in ogni modo a prendersi una piccola vacanza e diffidati comunque a non stendere antiestetiche mutande (?!) nelle vie proibite - portaborse, funzionari, giornalisti accreditati di un «passaporto interno».
Intorno, a dividere in due la citta', ventimila tra poliziotti, finanzieri e carabinieri, tremila militari, paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri, incursori, sommozzatori, e specialisti della guerra batteriologica, nucleare e chimica.
Nel contempo la temperatura politica veniva alzata artificialmente grazie a un maldestro remake della strategia della tensione: lettere-bomba, piccoli attentati, falsi allarme. Una mossa prevedibile. In Italia, ogniqualvolta appare un movimento di protesta, i corpi separati dello stato rimestano nel torbido.
Il 19 luglio, Genova aveva ormai assunto l'aspetto kafkiano di una citta' blindata e semi abbandonata: chiuse le stazioni ferroviarie, chiusi il porto e l'aeroporto, chiusa la strada sopraelevata lungo il mare come pure il principale accesso autostradale, chiusi gli accessi alle spiagge, chiusi i posti di lavoro, sospesi i matrimoni, le operazioni chirurgiche, i funerali, capillare ed ossessivo il controllo sul territorio e lo sfoggio di potenza militare. Nemmeno ai tempi dell'occupazione nazista o durante la grande sollevazione del luglio 1960, si era giunti a tanto.
Quel giorno, nel corso di una pacifica manifestazione per la tutela dei migranti (quelli residenti a Genova poco presenti in piazza, per via delle minacce recapitate dalla polizia, casa per casa, nelle settimane precedenti), cio' che si pote' constatare fu l'incompatibilita' della libera circolazione di tutti, e non solo dei clandestini, con la sicurezza dei governanti. Nell'ansia di difendersi dalle migliaia di assedianti giunti dai cinque continenti, e per verificare l'efficacia di nuovi dispositivi di dominio, essi avevano sospeso per decreto la rassicurante cappa della normalita' sociale.
La citta' era a tal punto intasata da reti metalliche barriere, percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, che il suo attraversamento a piedi da Ovest a Est – d'abitudine una bella passeggiata per il centro storico piu' grande d'Europa - avrebbe richiesto un percorso di varie ore attraverso i monti!
Il 20 luglio, quando tra calici di vino e linguine al pesto (rigorosamente senz'aglio, per compiacere le idiosincrasie alimentari del satrapo Berlusconi) l'e'lite globale - il senato virtuale del mondo, secondo la definizione di Noam Chomsky - si fu riunita infine a Palazzo Ducale per ragionare amabilmente del destino dell'umanita', poco lontano, al di la' delle barriere protettive, una parte di quell'umanita' decise di riprendere in mano il proprio destino.
La reazione non si fece attendere. Il cielo fu solcato da assordanti elicotteri da combattimento da cui - come nel film Apocalypse Now – si affacciavano, minacciose, le sagome dei gorilla di stato armati fino ai denti. Piu' sotto, squadracce di poliziotti e carabinieri sfogavano i loro istinti sadici contro manifestanti inermi e seminudi, arretrando di fronte ai Black Blocs i quali, altrove, colpivano con efficacia carceri, banche, commissariati e supermercati.
La sera del 21 gli sbirri, ansiosi di scrollare dai manganelli la polvere di troppi anni di quiete sociale, devastavano due scuole dove si trovavano centinaia di manifestanti. In una di esse, aveva sede il centro multimediale del movimento.
Gli arrestati, per la maggior parte sorpresi nel sonno, vennero massacrati al canto di Faccetta nera, la vecchia canzone fascista. Le violenze continuarono negli ospedali, nelle caserme, nelle carceri, scandite da slogan inequivocabili «Un, due, tre, evviva Pinochet, / quattro, cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, / sette, otto, nove, il negretto non commuove».
Piu' ancora di questo misero folklore, se vi e' un elemento nella condotta del governo italiano che davvero richiama il fascismo, e' l'inquietante modo di dare la caccia ai manifestanti, non gia' perche' facessero qualcosa di proibito o si astenessero da qualcosa di obbligatorio (non ci furono ne' intimazioni di sgombero, ne' ordini di scioglimento; la polizia, semplicemente, assali' il corteo), ma, come dei nuovi ebrei, per la semplice colpa di esistere.
Il bilancio fu di proporzioni belliche: piu' di 300 arresti, 600 feriti, decine di teste fracassate, braccia e gambe spezzate, un numero imprecisato di torturati in caserma, forse qualche desaparecido, e l'odore acre del sangue di un morto sull'asfalto ardente.
Fu un esperimento di controguerriglia freddamente pianificato nelle alte sfere dell'e'lite mondiale o, semplicemente, una bravata del centrodestra nazionale ansioso di consumare sui «rossi» la vendetta per la cacciata di quarantun anni prima?
La tempestiva proposta tedesca di creare una forza europea antisommossa, l'insistenza che si leva da ogni parte per la creazione di un'anagrafe internazionale dei sovversivi, farebbero propendere per la prima ipotesi, pero' la questione rimane aperta.
A Genova si trovava riassunto il peggio di due anni di repressioni globali: le torture e i canti nazisti a Praga e a Napoli, la rete metallica a Quebec, il blocco delle vie di fuga ancora a Napoli, l'assalto alle scuole concesse al movimento e i colpi di pistola ad altezza d'uomo a Goteborg.
Mentre Berlusconi non arrossiva proclamando: «Il G8 ha lavorato bene e, per la prima volta, si e' aperto alla societa' civile», da parte sua, il fiammeggiante vice primo ministro, Gianfranco Fini, avvertiva: «il nostro e' uno stato democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi siano soppressioni di liberta'».
Il messaggio e' chiaro: il nostro e' il migliore dei mondi possibili, nessuno si azzardi a sollevare obiezioni. E, giustamente, il ruolo di polizia del pensiero, i neofascisti al governo – eredi proprio di chi il vocabolo «totalitarismo» lo invento' – lo reclamano per se'.
Carlo Giuliani non era "vestito di nero". Non era un anarchico insurrezionalista. Non era uno squatter. Non era un punkabbestia. Era solo un ragazzo arrabbiato contro questo mondo, che si e' difeso uccidendolo.Non era uno dei pochi, era uno dei tanti.
Genova: pochi o molti? Comunicato firmato Alcuni anarchici 24.7.01
Mentre le polizie ed i governi del mondo - in special modo quello italiano – riesumavano il logoro fantasma dell'anarchico bombarolo, stampa e televisione scoprirono un nuovo filone su cui campare: il misterioso Black Bloc, ultimo antieroe della guerra sociale.
Poiche' la verita' non si annovera tra le aspirazioni dei giornalisti, un elenco delle loro menzogne risulterebbe lungo e tedioso. Con modeste varianti, il ritornello e' questo: da Seattle in poi, gruppi di manifestanti buoni protestano in maniera civile contro la globalizzazione neoliberale. Organizzano seminari, gruppi di studio, incontri. Hanno delle proposte. Vorrebbero essere ascoltati. E magari lo sarebbero anche se alcuni parassiti non ne approfittassero per compiere atti di vandalismo sconsiderato.
Il loro nome e' Black Bloc, vestono di nero e, come ninja, appaiono e scompaiono con grande rapidita'. Silenziosi e misteriosi, vengono da lontano: Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Paesi Baschi (e qui si evocava il fantasma di ETA…), Grecia, Europa Orientale.
C'erano tutti gli elementi per costruire il mostro: il cattivo anarchico non e', di preferenza, un prodotto nostrano. Un'idea questa, del male in genere e dell'anarchico in particolare, di chiaro stampo statunitense: il nazionalismo nordamericano contemporaneo si forma, fra l'altro, intorno alla campagna contro i sovversivi stranieri.
«Zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per tutti» – li definira' la Tuta Bianca Marco Beltrami, portavoce del «Laboratorio del Nord-Ovest», dimenticando che, prima di Genova, in un'intervista con un esponente dei BB americani, la rivista Carta, vicina al suo gruppo, aveva addirittura manifestato un interesse a diventarne l'interlocutore privilegiato in Italia.
Inoltre, in giugno, a Goteborg, Tute Bianche e BB si erano trovati in piazza insieme, senza particolare conflitti. Fu, solo dopo il 20 luglio, che le Tute individuarono nei BB il capro espiatorio ideale.
«Perche' non li hanno fermati alla frontiera?», tuonarono tutti i quotidiani, compresi Liberazione e Manifesto, che fino al giorno prima avevano strepitato a favore della libera circolazione dei manifestanti.
Nelle ore successive alla morte di Carlo Giuliani circolarono tutte le ipotesi, comprese le piu' stravaganti. Hooligans? Infiltrati? Tifosi diffidati cui era stata garantita l'impunita'? Agenti al servizio di interessi oscuri? Di sicuro, comunque, provocatori.
Ogniqualvolta ci si imbatte nella parola «provocatore», emerge inevitabilmente una mescolanza di rabbia e di simpatia. Rabbia perche' chi non abbia interamente abdicato alla memoria non puo' proprio sopportare la riscoperta del linguaggio sinistro – «provocatore anarchico» - che reca l'impronta sanguinosa di Stalin. Simpatia perche', a ben guardare, le esperienze rivoluzionarie piu' significative del Novecento non avrebbero avuto luogo se non ci fossero stati dei «provocatori» a provocarle.
Provocatori furono di volta in volta gli insorti di Kronstadt; gli anarchici e i comunisti libertari nella Spagna del 1937; gli operai in rivolta nei paesi chiamati socialisti, a Berlino, Budapest, Danzica; i ribelli di maggio in Francia e quelli del 1977 in Italia.
Forse non tutti ricordano che, nel gennaio 1994, la medesima etichetta fu affibbiata anche agli zapatisti messicani per essersi azzardati a tagliare, con la loro pretesa di vivere nella liberta' e nella dignita', la fallimentare strada verso il potere della sinistra elettorale.
Poiche' la verita' non si annovera tra le aspirazioni dei giornalisti, un elenco delle loro menzogne risulterebbe lungo e tedioso. Con modeste varianti, il ritornello e' questo: da Seattle in poi, gruppi di manifestanti buoni protestano in maniera civile contro la globalizzazione neoliberale. Organizzano seminari, gruppi di studio, incontri. Hanno delle proposte. Vorrebbero essere ascoltati. E magari lo sarebbero anche se alcuni parassiti non ne approfittassero per compiere atti di vandalismo sconsiderato.
Il loro nome e' Black Bloc, vestono di nero e, come ninja, appaiono e scompaiono con grande rapidita'. Silenziosi e misteriosi, vengono da lontano: Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Paesi Baschi (e qui si evocava il fantasma di ETA…), Grecia, Europa Orientale.
C'erano tutti gli elementi per costruire il mostro: il cattivo anarchico non e', di preferenza, un prodotto nostrano. Un'idea questa, del male in genere e dell'anarchico in particolare, di chiaro stampo statunitense: il nazionalismo nordamericano contemporaneo si forma, fra l'altro, intorno alla campagna contro i sovversivi stranieri.
«Zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per tutti» – li definira' la Tuta Bianca Marco Beltrami, portavoce del «Laboratorio del Nord-Ovest», dimenticando che, prima di Genova, in un'intervista con un esponente dei BB americani, la rivista Carta, vicina al suo gruppo, aveva addirittura manifestato un interesse a diventarne l'interlocutore privilegiato in Italia.
Inoltre, in giugno, a Goteborg, Tute Bianche e BB si erano trovati in piazza insieme, senza particolare conflitti. Fu, solo dopo il 20 luglio, che le Tute individuarono nei BB il capro espiatorio ideale.
«Perche' non li hanno fermati alla frontiera?», tuonarono tutti i quotidiani, compresi Liberazione e Manifesto, che fino al giorno prima avevano strepitato a favore della libera circolazione dei manifestanti.
Nelle ore successive alla morte di Carlo Giuliani circolarono tutte le ipotesi, comprese le piu' stravaganti. Hooligans? Infiltrati? Tifosi diffidati cui era stata garantita l'impunita'? Agenti al servizio di interessi oscuri? Di sicuro, comunque, provocatori.
Ogniqualvolta ci si imbatte nella parola «provocatore», emerge inevitabilmente una mescolanza di rabbia e di simpatia. Rabbia perche' chi non abbia interamente abdicato alla memoria non puo' proprio sopportare la riscoperta del linguaggio sinistro – «provocatore anarchico» - che reca l'impronta sanguinosa di Stalin. Simpatia perche', a ben guardare, le esperienze rivoluzionarie piu' significative del Novecento non avrebbero avuto luogo se non ci fossero stati dei «provocatori» a provocarle.
Provocatori furono di volta in volta gli insorti di Kronstadt; gli anarchici e i comunisti libertari nella Spagna del 1937; gli operai in rivolta nei paesi chiamati socialisti, a Berlino, Budapest, Danzica; i ribelli di maggio in Francia e quelli del 1977 in Italia.
Forse non tutti ricordano che, nel gennaio 1994, la medesima etichetta fu affibbiata anche agli zapatisti messicani per essersi azzardati a tagliare, con la loro pretesa di vivere nella liberta' e nella dignita', la fallimentare strada verso il potere della sinistra elettorale.
Signori il tempo della vita e' breve, e se viviamo, viviamo per calpestare i re
William Shakespeare
Slogan del Network per i diritti globali
William Shakespeare
Slogan del Network per i diritti globali
Roberto Bui, ideatore di Luther Blissett, aspirante nuovo leader delle Tute Bianche, scrisse in rete che, «nel momento in cui le pratiche del BB sono state usate contro di noi, dobbiamo dire con forza che queste persone sono politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza dovrebbero essere i primi a fare l'esame di coscienza e suicidare un'esperienza che si e', di fatto, conclusa a Genova» (23 luglio, Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo).
"Sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa. La verita' pero' e' che sono stati i carabinieri a far saltare tutto"
Luca Casarini, Il Nuovo, 27.8.01
Luca Casarini, Il Nuovo, 27.8.01
"Non conta aver dato la propria parola. E' a chi l'hai data, che conta"
Dutch – Ernest Borgnine, nel film "Il mucchio selvaggio"
1969, di Sam Peckinpah
Dutch – Ernest Borgnine, nel film "Il mucchio selvaggio"
1969, di Sam Peckinpah
Le Tute Bianche amano presentarsi come un movimento di tipo nuovo, creativo, nonviolento. Sebbene provengano da esperienze operaiste ed ultra leniniste piuttosto truculente la cui espressione teorica e' l'opera di Toni Negri, ripudiano adesso l'idea della conquista del potere, rifiutano i modelli monolitici e ostentano l'influenza degli zapatisti messicani e, piu' precisamente, l'influenza del subcomandante Marcos.
L'immagine e' falsa. Infatti, aldila' delle apparenze, le Tute rassomigliano piu' ad un partito tradizionale con tanto di leader – ora chiamati portavoce –, una separazione netta tra dirigenti ed esecutori, un'ideologia che si allontana sempre piu' dalla pratica, un raffinato lavoro di lobbying istituzionale, e perfino candidati a cariche elettive nelle amministrazioni comunali e regionali.
Le Tute Bianche sono violente o nonviolente? Diciamo che difendono violentemente le ragioni della nonviolenza. Mentre, ad esempio, i Black Bloc, attaccano la proprieta', le Tute amano spaccare la testa di coloro che contravvengono le loro regole.
I paradossi non finiscono qui: nonostante l'antipatia sovente manifestata in Italia nei confronti dei libertari e delle loro idee, essi coltivano all'estero la fama di essere anarchici. In Messico, dove hanno fatto molto chiasso, sono considerati degli irresponsabili. Ed in Italia sono riusciti a gettare il discreto sul tentativo, nobile all'inizio, di creare un movimento neozapatista nel nostro paese.
In realta', la pratica delle Tute Bianche nasce all'interno dell'Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall'alleanza di centri sociali definita nella cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora.
I centri sociali (spesso menzionati con la sigla CSOA, dove O sta per occupato e A per Autogestito), nati da esperienze locali negli anni 70, nell'area generalmente conosciuta come Autonomia Operaia, costituirono vere e proprie isole di socialita' alternativa strappate al grigiore dei ghetti metropolitani, che si dimostrarono capaci di una certa resistenza al riflusso degli anni ottanta.
Aggiungiamo che non sono mai stati una realta' omogenea, ma piuttosto una serie d'esperienze locali che si sono venute diversificando – a volte contrapponendo - nel corso del tempo.
Verso l'inizio degli anni novanta, una parte di essi prese la decisione, molto criticata, di allacciare rapporti di collaborazione con autorita' ed enti locali, con l'obiettivo di legalizzare il possesso degli edifici, ottenere riconoscimento istituzionale ed accedere a finanziamenti pubblici.
Non e' nostra intenzione scagliare anatemi per questo, ne' entrare nella merito di una storia complessa e accidentata. Il problema non e' trattare con lo stato, ma come e perche' si tratta. In Messico, ad esempio, gli zapatisti hanno mostrato che e' possibile farlo, mantenendo, allo stesso tempo, un ragionevole margine di autonomia e senza venire meno a due principi irrinunciabili: la trasparenza e la verita'.
In quanto all'Italia, la profonda frattura che si era venuta creando all'interno dei centri sociali tra antagonisti e negoziatori venne in parte colmata proprio in seguito alla massiccia ondata di entusiasmo suscitata dalla ribellione degli indigeni messicani il primo gennaio 1994. Si apriva la possibilita' di cominciare da capo e di costruire un nuovo grande movimento, non piu' sul modello della solidarieta', ma su quello, ben piu' appassionante, del coinvolgimento e della condivisione.
Segui' una tappa unitaria, di breve durata, culminata nel Primo Incontro Intercontinentale per l'Umanita' e contro il Neoliberalismo, celebrato in Chiapas nell'agosto 1996, su invito del sub comandante Marcos. Quell'incontro puo' essere considerato come l'atto di battesimo dell'attuale movimento contro la globalizzazione.
I problemi ricominciarono quando, in seguito alla proposta zapatista di organizzare un secondo incontro in Europa, si avviarono i dibattiti sulle modalita' e i percorsi del nuovo appuntamento.
Le future Tute Bianche fondarono allora l'Associazione Ya Basta presentando la proposta di organizzare l'incontro a Venezia con l'appoggio del comune (il sindaco era Massimo Cacciari una persona non certo affine agli zapatisti, ne', ad esempio, alla problematica degli immigrati clandestini), piu' quello di Rifondazione (che allora sosteneva il governo neoliberista dell'Olivo) e de Il Manifesto.
Il viaggio di Bertinotti in Chiapas, insieme con alcuni esponenti del CSOA Corto Circuito di Roma, - organizzato con gran fragore pubblicitario nel gennaio 1997 - siglo' la nuova alleanza, di cui gli zapatisti erano solo un pretesto, mentre cio' che realmente contava erano le dinamiche interne italiane e il difficile equilibrio tra forze molto eterogenee.
Per Rifondazione, partito con un occhio puntato sui movimenti e l'altro sui sondaggi elettorali, era vitale mettere radici in quel grande serbatoio di voti che sono i giovani; e per questi centri sociali era importante proseguire la lunga marcia nelle istituzioni. La coalizione dell'Ulivo, da poco insediata grazie alla somma dei voti degli ex comunisti e degli ex democristiani, offriva nuove, inaspettate, opportunita' all'operazione.
Tanto in Europa come in Italia, pero', il grosso del movimento boccio' la formula veneziana, preferendo la proposta presentata dai collettivi spagnoli di un incontro autorganizzato ed autofinanziato in cinque localita' della Spagna.
A quel punto Rifondazione e Ya Basta scelsero la via dei rapporti diretti e privilegiati con il comando zapatista, boicottando l'incontro spagnolo con il significativo pretesto che gli organizzatori non erano altro che … un mucchio di anarchici, e spedendo in Chiapas Gianfranco Bettin, prosindaco di Venezia, per invitare gli zapatisti a un incontro concorrenziale, messo in piedi in gran fretta per la fine di settembre.
In seguito, gli aderenti a Ya Basta, non esitarono a proclamare se' stessi Comunita' Zapatiste, dando luogo a equivoci grotteschi. Infatti, una cosa e' il proclamarsi ribelle di una comunita' india a partire da una pratica reale di rottura ed autonomia ed un'altra, molto differente, e' che un gruppo di persone si autoproclami «comunita'», senza che a cio' corrisponda nulla di autentico.
Nei mesi successivi, il Messico continuo' ad essere al centro delle preoccupazioni di tutti in Italia. Il massacro di Acteal (23 dicembre 1997) apri' una nuova fase unitaria il cui punto culminante fu la grande manifestazione di gennaio a Roma: 50.000 persone in piazza per protestare contro la politica genocida del governo messicano.
Su iniziativa dei collettivi che avevano sostenuto l'Incontro in Spagna, in febbraio vi fu l'iniziativa della Commissione Civile Internazionale per l'Osservazione dei Diritti Umani.
Poiche' la Costituzione messicana prevede l'espulsione degli stranieri che si intromettono negli affari interni, la commissione si muoveva sul filo del rasoio. Per visitare le zone del conflitto, come a gran voce chiedevano le comunita' maya colpite dalla repressione, era necessario ottenere il permesso delle autorita', il che imponeva evidenti limitazioni. Anche la pretesa di essere degli osservatori «neutrali» era un assurdo, pero' erano in gioco molte vite umane e ne valeva la pena.
L'iniziativa ebbe successo. La Commissione, alla quale parteciparono anche alcuni membri di Ya Basta, riusci' ad intervistare centinaia di persone, scrivendo poi un rapporto dettagliato che fu di grande utilita' per tutti coloro che lavoravano sul Chiapas.
Un paio di mesi dopo, in aprile, Ya Basta torno' in Messico, questa volta senza l'ingombro di altra gente. Se in Italia proseguiva a gonfie vele la politica di avvicinamento al governo di centro sinistra, il Chiapas offriva un terreno ideale per dare sfogo alla spinta rivoluzionaria che continuava a venire dalla base.
Il 6 maggio 1998, 135 militanti di Ya Basta forzarono un posto di blocco tenuto da cinque agenti della polizia di frontiera in piena Selva Lacandona. Seguiti da uno stuolo di giornalisti, essi irruppero nel villaggio di Taniperla, uno dei piu' conflittuali della regione, dove il gruppo paramilitare Movimiento Indígena Revolucionario Antizapatista (MIRA) terrorizzava da tempo la popolazione civile.
Dopo alcuni spintoni e un paio di momenti drammatici, i militanti di Ya Basta tornarono a San Cristobal, non senza rilasciare dichiarazioni incendiarie. Seguirono il rituale dell'espulsione, ed un grottesco viaggio a Strasburgo a bordo di un aereo noleggiato dal governo messicano. È dubbio il beneficio che ne trassero gli indigeni di Taniperla i quali vivevano un dramma autentico. Inoltre, l'incidente servi' da pretesto per ridurre ancor piu' l'erogazione di visti agli osservatori, pero' l'obiettivo di Ya Basta, far parlare di se' e creare scandalo, era raggiunto.
Piu' recentemente, in occasione della marcia zapatista del marzo 2001, le Tute Bianche monopolizzarono la sicurezza dell'EZLN, comportandosi come Hell's Angels a un concerto, ed agendo in maniera violenta ed autoritaria nei confronti degli altri membri della carovana.
Queste prodezze messicane illustrano bene la doppiezza del gruppo: essere intransigenti e rivoluzionari all'estero, ma accettare tutti i compromessi, compresi i piu' disonorevoli, a casa propria.
Anche l'idea della tuta, messa per la prima volta a Milano verso la fine del 98, si ispira esplicitamente agli zapatisti. Infatti, gli «invisibili» metropolitani vestono di bianco, cosi' come gli indigeni del Chiapas si coprono il volto di nero: per essere visti.
Tuttavia, se il fine e' di essere ripresi dai telegiornali, invitati ai talk show e magari stipendiati da qualche istituzione, l'oro delle comunita' diventa piombo volgare, mentre le poetiche immagini dei maya («camminiamo interrogandoci», «esercito di sognatori») si convertono in fastidiosi e vuoti ritornelli.
E, per risultare piu' telegeniche, le contestazioni stesse finiscono per essere concordate con la polizia e gestite come vere e proprie performance teatrali (Guerriglia urbana? Ma vi prego…, Il Manifesto, 1 febbraio 2000). A Milano si e' arrivati al punto di presentare come una grande vittoria la chiusura di un lager per immigrati che era gia' stata decisa dalle autorita'.
In occasione del G8 di Genova, nonostante Berlusconi offrisse una sponda assai meno rassicurante dei governi «amici» che lo avevano preceduto, pare ormai accertato esistesse un accordo piu' o meno esplicito per consentire al corteo dei disubbidienti (altro nome delle Tute Bianche) di operare uno sfondamento simbolico della Zona Rossa in piazza Verdi, seguito da altrettanti simbolici fermi, che sarebbero dovuti cessare la sera.
Ma il nubifragio della notte di giovedi' impose alle Tute di posticipare al mattino successivo la «prova generale» dell'attacco, e di partire quindi con piu' di due ore di ritardo sulla tabella di marcia concordata. Come per Napoleone a Waterloo, la pioggia si doveva rivelare fatale: prima che il corteo potesse infine raggiungere il punto prestabilito, si trovo' davanti «alla violenza della Storia» (Marco d'Eramo, Il Manifesto, 24.7.01).
E cosi' la lunga marcia e' arrivata al traguardo. Partiti dalla contestazione totale e dal brivido voluttuoso del passamontagna di negriana memoria, essi sono pervenuti a pretendere sconti, treni speciali, aerei e alberghi per andare a contestare, esattamente come i sindacati di regime.
Loro li chiamano «rapporti di concretezza con le istituzioni», pero' collaborare non e' lo stesso di trattare. Si tratta quando si e' differenti, mentre quando si collabora si e' omologhi. Ne era ben consapevole, gia' il 23 aprile 1998, un Casarini ancora poco noto che dichiarava al quotidiano Il Gazzettino «Lo Stato non e' piu', d'ora innanzi, il nemico da abbattere, ma l'omologo con cui dobbiamo discutere».
Tale collaborazione, che li ha condotti, di volta in volta, ad intrecciare relazioni con Rifondazione, i Verdi e gli stessi DS (Casarini e' stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato), a ricevere sponsorizzazioni da grandi aziende, a presentare e talvolta far eleggere rappresentanti nei consigli comunali di Venezia, Roma, Milano, ha ormai superato tutti i limiti.
Piu' volte e in differenti luoghi (Bologna, Aviano, Treviso, Rovigo, Roma, Venezia, Padova… ) le Tute hanno fatto le veci della polizia, aggredendo fisicamente anarchici, autonomi, o semplicemente persone che non condividevano le loro indicazioni.
Istruttivo e' anche il loro «breviario della disobbedienza civile», in cui spiccano istruzioni quali: «7. Qualunque iniziativa va concordata con le tute bianche; 8. Non ci deve essere ne' lancio di alcunche' ne' altro che non sia concordato con gli organizzatori; 11. Durante il corteo nessuna iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto; 12. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa succeda».
Esasperati da questi comportamenti, alcuni anonimi compagni dell'area antagonista diffusero a principio di luglio, un violento documento contro le Tute che recava il titolo significativo di «Pompieri della rivolta» (lista ecn.org).
L'ultimo episodio vergognoso e' avvenuto a Venezia, pochi giorni dopo i fatti di Genova, allorche' un gruppo di Tute appartenenti al CSOA Rivolta di Mestre ha aggredito un gruppo di persone intente a un banchetto di solidarieta' con gli incarcerati.
L'immagine e' falsa. Infatti, aldila' delle apparenze, le Tute rassomigliano piu' ad un partito tradizionale con tanto di leader – ora chiamati portavoce –, una separazione netta tra dirigenti ed esecutori, un'ideologia che si allontana sempre piu' dalla pratica, un raffinato lavoro di lobbying istituzionale, e perfino candidati a cariche elettive nelle amministrazioni comunali e regionali.
Le Tute Bianche sono violente o nonviolente? Diciamo che difendono violentemente le ragioni della nonviolenza. Mentre, ad esempio, i Black Bloc, attaccano la proprieta', le Tute amano spaccare la testa di coloro che contravvengono le loro regole.
I paradossi non finiscono qui: nonostante l'antipatia sovente manifestata in Italia nei confronti dei libertari e delle loro idee, essi coltivano all'estero la fama di essere anarchici. In Messico, dove hanno fatto molto chiasso, sono considerati degli irresponsabili. Ed in Italia sono riusciti a gettare il discreto sul tentativo, nobile all'inizio, di creare un movimento neozapatista nel nostro paese.
In realta', la pratica delle Tute Bianche nasce all'interno dell'Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall'alleanza di centri sociali definita nella cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora.
I centri sociali (spesso menzionati con la sigla CSOA, dove O sta per occupato e A per Autogestito), nati da esperienze locali negli anni 70, nell'area generalmente conosciuta come Autonomia Operaia, costituirono vere e proprie isole di socialita' alternativa strappate al grigiore dei ghetti metropolitani, che si dimostrarono capaci di una certa resistenza al riflusso degli anni ottanta.
Aggiungiamo che non sono mai stati una realta' omogenea, ma piuttosto una serie d'esperienze locali che si sono venute diversificando – a volte contrapponendo - nel corso del tempo.
Verso l'inizio degli anni novanta, una parte di essi prese la decisione, molto criticata, di allacciare rapporti di collaborazione con autorita' ed enti locali, con l'obiettivo di legalizzare il possesso degli edifici, ottenere riconoscimento istituzionale ed accedere a finanziamenti pubblici.
Non e' nostra intenzione scagliare anatemi per questo, ne' entrare nella merito di una storia complessa e accidentata. Il problema non e' trattare con lo stato, ma come e perche' si tratta. In Messico, ad esempio, gli zapatisti hanno mostrato che e' possibile farlo, mantenendo, allo stesso tempo, un ragionevole margine di autonomia e senza venire meno a due principi irrinunciabili: la trasparenza e la verita'.
In quanto all'Italia, la profonda frattura che si era venuta creando all'interno dei centri sociali tra antagonisti e negoziatori venne in parte colmata proprio in seguito alla massiccia ondata di entusiasmo suscitata dalla ribellione degli indigeni messicani il primo gennaio 1994. Si apriva la possibilita' di cominciare da capo e di costruire un nuovo grande movimento, non piu' sul modello della solidarieta', ma su quello, ben piu' appassionante, del coinvolgimento e della condivisione.
Segui' una tappa unitaria, di breve durata, culminata nel Primo Incontro Intercontinentale per l'Umanita' e contro il Neoliberalismo, celebrato in Chiapas nell'agosto 1996, su invito del sub comandante Marcos. Quell'incontro puo' essere considerato come l'atto di battesimo dell'attuale movimento contro la globalizzazione.
I problemi ricominciarono quando, in seguito alla proposta zapatista di organizzare un secondo incontro in Europa, si avviarono i dibattiti sulle modalita' e i percorsi del nuovo appuntamento.
Le future Tute Bianche fondarono allora l'Associazione Ya Basta presentando la proposta di organizzare l'incontro a Venezia con l'appoggio del comune (il sindaco era Massimo Cacciari una persona non certo affine agli zapatisti, ne', ad esempio, alla problematica degli immigrati clandestini), piu' quello di Rifondazione (che allora sosteneva il governo neoliberista dell'Olivo) e de Il Manifesto.
Il viaggio di Bertinotti in Chiapas, insieme con alcuni esponenti del CSOA Corto Circuito di Roma, - organizzato con gran fragore pubblicitario nel gennaio 1997 - siglo' la nuova alleanza, di cui gli zapatisti erano solo un pretesto, mentre cio' che realmente contava erano le dinamiche interne italiane e il difficile equilibrio tra forze molto eterogenee.
Per Rifondazione, partito con un occhio puntato sui movimenti e l'altro sui sondaggi elettorali, era vitale mettere radici in quel grande serbatoio di voti che sono i giovani; e per questi centri sociali era importante proseguire la lunga marcia nelle istituzioni. La coalizione dell'Ulivo, da poco insediata grazie alla somma dei voti degli ex comunisti e degli ex democristiani, offriva nuove, inaspettate, opportunita' all'operazione.
Tanto in Europa come in Italia, pero', il grosso del movimento boccio' la formula veneziana, preferendo la proposta presentata dai collettivi spagnoli di un incontro autorganizzato ed autofinanziato in cinque localita' della Spagna.
A quel punto Rifondazione e Ya Basta scelsero la via dei rapporti diretti e privilegiati con il comando zapatista, boicottando l'incontro spagnolo con il significativo pretesto che gli organizzatori non erano altro che … un mucchio di anarchici, e spedendo in Chiapas Gianfranco Bettin, prosindaco di Venezia, per invitare gli zapatisti a un incontro concorrenziale, messo in piedi in gran fretta per la fine di settembre.
In seguito, gli aderenti a Ya Basta, non esitarono a proclamare se' stessi Comunita' Zapatiste, dando luogo a equivoci grotteschi. Infatti, una cosa e' il proclamarsi ribelle di una comunita' india a partire da una pratica reale di rottura ed autonomia ed un'altra, molto differente, e' che un gruppo di persone si autoproclami «comunita'», senza che a cio' corrisponda nulla di autentico.
Nei mesi successivi, il Messico continuo' ad essere al centro delle preoccupazioni di tutti in Italia. Il massacro di Acteal (23 dicembre 1997) apri' una nuova fase unitaria il cui punto culminante fu la grande manifestazione di gennaio a Roma: 50.000 persone in piazza per protestare contro la politica genocida del governo messicano.
Su iniziativa dei collettivi che avevano sostenuto l'Incontro in Spagna, in febbraio vi fu l'iniziativa della Commissione Civile Internazionale per l'Osservazione dei Diritti Umani.
Poiche' la Costituzione messicana prevede l'espulsione degli stranieri che si intromettono negli affari interni, la commissione si muoveva sul filo del rasoio. Per visitare le zone del conflitto, come a gran voce chiedevano le comunita' maya colpite dalla repressione, era necessario ottenere il permesso delle autorita', il che imponeva evidenti limitazioni. Anche la pretesa di essere degli osservatori «neutrali» era un assurdo, pero' erano in gioco molte vite umane e ne valeva la pena.
L'iniziativa ebbe successo. La Commissione, alla quale parteciparono anche alcuni membri di Ya Basta, riusci' ad intervistare centinaia di persone, scrivendo poi un rapporto dettagliato che fu di grande utilita' per tutti coloro che lavoravano sul Chiapas.
Un paio di mesi dopo, in aprile, Ya Basta torno' in Messico, questa volta senza l'ingombro di altra gente. Se in Italia proseguiva a gonfie vele la politica di avvicinamento al governo di centro sinistra, il Chiapas offriva un terreno ideale per dare sfogo alla spinta rivoluzionaria che continuava a venire dalla base.
Il 6 maggio 1998, 135 militanti di Ya Basta forzarono un posto di blocco tenuto da cinque agenti della polizia di frontiera in piena Selva Lacandona. Seguiti da uno stuolo di giornalisti, essi irruppero nel villaggio di Taniperla, uno dei piu' conflittuali della regione, dove il gruppo paramilitare Movimiento Indígena Revolucionario Antizapatista (MIRA) terrorizzava da tempo la popolazione civile.
Dopo alcuni spintoni e un paio di momenti drammatici, i militanti di Ya Basta tornarono a San Cristobal, non senza rilasciare dichiarazioni incendiarie. Seguirono il rituale dell'espulsione, ed un grottesco viaggio a Strasburgo a bordo di un aereo noleggiato dal governo messicano. È dubbio il beneficio che ne trassero gli indigeni di Taniperla i quali vivevano un dramma autentico. Inoltre, l'incidente servi' da pretesto per ridurre ancor piu' l'erogazione di visti agli osservatori, pero' l'obiettivo di Ya Basta, far parlare di se' e creare scandalo, era raggiunto.
Piu' recentemente, in occasione della marcia zapatista del marzo 2001, le Tute Bianche monopolizzarono la sicurezza dell'EZLN, comportandosi come Hell's Angels a un concerto, ed agendo in maniera violenta ed autoritaria nei confronti degli altri membri della carovana.
Queste prodezze messicane illustrano bene la doppiezza del gruppo: essere intransigenti e rivoluzionari all'estero, ma accettare tutti i compromessi, compresi i piu' disonorevoli, a casa propria.
Anche l'idea della tuta, messa per la prima volta a Milano verso la fine del 98, si ispira esplicitamente agli zapatisti. Infatti, gli «invisibili» metropolitani vestono di bianco, cosi' come gli indigeni del Chiapas si coprono il volto di nero: per essere visti.
Tuttavia, se il fine e' di essere ripresi dai telegiornali, invitati ai talk show e magari stipendiati da qualche istituzione, l'oro delle comunita' diventa piombo volgare, mentre le poetiche immagini dei maya («camminiamo interrogandoci», «esercito di sognatori») si convertono in fastidiosi e vuoti ritornelli.
E, per risultare piu' telegeniche, le contestazioni stesse finiscono per essere concordate con la polizia e gestite come vere e proprie performance teatrali (Guerriglia urbana? Ma vi prego…, Il Manifesto, 1 febbraio 2000). A Milano si e' arrivati al punto di presentare come una grande vittoria la chiusura di un lager per immigrati che era gia' stata decisa dalle autorita'.
In occasione del G8 di Genova, nonostante Berlusconi offrisse una sponda assai meno rassicurante dei governi «amici» che lo avevano preceduto, pare ormai accertato esistesse un accordo piu' o meno esplicito per consentire al corteo dei disubbidienti (altro nome delle Tute Bianche) di operare uno sfondamento simbolico della Zona Rossa in piazza Verdi, seguito da altrettanti simbolici fermi, che sarebbero dovuti cessare la sera.
Ma il nubifragio della notte di giovedi' impose alle Tute di posticipare al mattino successivo la «prova generale» dell'attacco, e di partire quindi con piu' di due ore di ritardo sulla tabella di marcia concordata. Come per Napoleone a Waterloo, la pioggia si doveva rivelare fatale: prima che il corteo potesse infine raggiungere il punto prestabilito, si trovo' davanti «alla violenza della Storia» (Marco d'Eramo, Il Manifesto, 24.7.01).
E cosi' la lunga marcia e' arrivata al traguardo. Partiti dalla contestazione totale e dal brivido voluttuoso del passamontagna di negriana memoria, essi sono pervenuti a pretendere sconti, treni speciali, aerei e alberghi per andare a contestare, esattamente come i sindacati di regime.
Loro li chiamano «rapporti di concretezza con le istituzioni», pero' collaborare non e' lo stesso di trattare. Si tratta quando si e' differenti, mentre quando si collabora si e' omologhi. Ne era ben consapevole, gia' il 23 aprile 1998, un Casarini ancora poco noto che dichiarava al quotidiano Il Gazzettino «Lo Stato non e' piu', d'ora innanzi, il nemico da abbattere, ma l'omologo con cui dobbiamo discutere».
Tale collaborazione, che li ha condotti, di volta in volta, ad intrecciare relazioni con Rifondazione, i Verdi e gli stessi DS (Casarini e' stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato), a ricevere sponsorizzazioni da grandi aziende, a presentare e talvolta far eleggere rappresentanti nei consigli comunali di Venezia, Roma, Milano, ha ormai superato tutti i limiti.
Piu' volte e in differenti luoghi (Bologna, Aviano, Treviso, Rovigo, Roma, Venezia, Padova… ) le Tute hanno fatto le veci della polizia, aggredendo fisicamente anarchici, autonomi, o semplicemente persone che non condividevano le loro indicazioni.
Istruttivo e' anche il loro «breviario della disobbedienza civile», in cui spiccano istruzioni quali: «7. Qualunque iniziativa va concordata con le tute bianche; 8. Non ci deve essere ne' lancio di alcunche' ne' altro che non sia concordato con gli organizzatori; 11. Durante il corteo nessuna iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto; 12. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa succeda».
Esasperati da questi comportamenti, alcuni anonimi compagni dell'area antagonista diffusero a principio di luglio, un violento documento contro le Tute che recava il titolo significativo di «Pompieri della rivolta» (lista ecn.org).
L'ultimo episodio vergognoso e' avvenuto a Venezia, pochi giorni dopo i fatti di Genova, allorche' un gruppo di Tute appartenenti al CSOA Rivolta di Mestre ha aggredito un gruppo di persone intente a un banchetto di solidarieta' con gli incarcerati.
Dal piacere di creare al piacere di distruggere non c'e' che un'oscillazione,
che distrugge il potere.
Raoul Vaneigem
che distrugge il potere.
Raoul Vaneigem
Il 21 luglio, all'indomani dell'assassinio di Carlo Giuliani, le 300.000 persone sfilate a Genova, nonostante gli evidenti pericoli, hanno risposto affermativamente alla domanda in sospeso fin dai giorni Seattle: questo movimento esiste e, come sottolineano i compagni della rivista Vis-a'-vis, «non cerca legittimazioni di sorta: semplicemente impone la propria presenza, riprende la parola, pratica il proprio rifiuto».
Eppure, quella medesima forza che si e' espressa con tanto vigore ha condotto ad un conflitto preoccupante tra le diverse tendenze che, fin dal principio, convivono al suo interno, seminando profondi interrogativi per cio' che attiene il futuro.
Contro l'opinione di coloro che cercano l'unita' a tutti i costi, bisogna prendere atto che il movimento contro la mondializzazione ha molte anime. Fin dal principio ne e' esistita una pacifista, ed una propensa all'azione diretta, con un'infinita gamma di variazioni intermedie.
La sua forza potrebbe risiedere proprio in questa dimensione plurale e nella molteplicita' delle sue espressioni internazionali. Oggi il mondo e' in subbuglio dal Karnakata alla Tailandia, da Seattle a Genova, dalla Selva Lacandona a Puerto Alegre.
In un intervista recente, il sub-comandante Marcos ha recentemente affermato: «Crediamo sinceramente che a livello mondiale i nostri ‘no' si sommino semplicemente con tutti gli altri che provengono dal resto del pianeta, mentre i ‘si'' debbano ancora essere individuati. (…) Non crediamo che tutti questi ‘si'' possano articolarsi in un unico corpo mondiale. Anzi, non consideriamo questa eventualita' auspicabile. Non crediamo, insomma, che alla globalizzazione si debba opporre una nuova internazionale» (rivista Linus, 6 luglio '01).
Il problema e' che mentre la tendenza radicale non pretende di esercitare egemonia alcuna, ed anzi ammette apertamente la possibilita' di altri approcci, non si puo' dire altrettanto di molti, anche se non tutti, i pacifisti.
Questi hanno sovente criminalizzato i primi, impiegando …la violenza, la calunnia, e perfino la delazione con esiti sono sovente grotteschi. Era gia' accaduto a Seattle ed e' accaduto di nuovo a Genova. Al direttore di Liberazione, Sandro Curzi, che in TV, contestava alla polizia di non avere agito preventivamente contro i violenti, un funzionario ha dovuto rispondere imbarazzato: «dottor Curzi, questo non e' uno stato di polizia, quel che ci chiede noi non lo possiamo fare».
A tutti costoro e' bene ricordare il monito di Orwell: «la differenza importante non e' tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o no appetito di potere. Vi sono individui che disprezzano la polizia e l'esercito, ma si rivelano poi molto piu' intolleranti ed inquisitori di coloro che ammettono la necessita' di usare la violenza in circostanze determinate» (Inside the Whale and Other Essays, Penguin Book, 1962, pag. 118).
Sebbene il problema esista, le contraddizioni principali non sono tra violenti e nonviolenti e forse neppure tra chi cerca alternative al capitalismo e chi, invece, vorrebbe semplicemente abbellirlo o limitarne i danni.
La malafede nelle accuse di alcuni autoproclamati portavoce contro chi agisce in maniera indipendente indica che la posta in gioco e', appunto, il potere. Calunniare e' grave: gli stalinisti lo hanno fatto a Barcellona nel 37 ed ogni qualvolta si sono sentiti minacciati nei loro interessi.
Occorre inoltre tenere presente che, come fanno notare i BB la violenza risiede, prima di tutto, nelle relazioni sociali stesse. Chi fu il primo a scatenarla a Genova? Il governo italiano che blindo' la citta'? Le multinazionali che in nome del libero commercio depredano l'umanita' e la madre terra? Gli stati che le proteggono? I Black Bloc? Il carabiniere che sparo'? Carlo Giuliani che gli ributto' addosso l'estintore?
Quanto alla nonviolenza, lo stesso Gandhi affermo' piu' volte che, sebbene la considerasse superiore alla violenza sia da un punto di vista tattico che etico, non si poteva fare di cio' un dogma e che, in ogni caso, era preferibile essere violenti che codardi. La nonviolenza – diceva - e' una scelta valida solo se praticata da chi rinuncia a una violenza che avrebbe la forza di praticare. E non e' certo la pratica del topo che fugge di fronte al gatto.
Oggi una tale pratica corre il rischio di essere immiserita da comportamenti addomesticati e condiscendenti. Se il movimento deve crescere, nonviolenza non puo' voler dire astensione, neutralita' o, peggio, collaborazione, ma disobbedienza, determinazione, azione, costruzione di altro.
Se l'aspetto propositivo della violenza vandalica pratica dai BB, consiste proprio nel mettere in crisi la pretesa neutralita' delle relazioni sociali e nel ricondurre al centro dell'attenzione la loro precarieta' storica, ogni gesto inscritto in questo registro rischia di rimanere prigioniero di una negazione simbolica dell'esistente. «Il fine non giustifica i mezzi», ci mandano a dire gli zapatisti dal Messico. E gli anarchici replicano: «da due secoli lo sappiamo» e non puo' dirsi casuale il numero crescente di bandiere rosse e nere in tutti gli appuntamenti del movimento che cresce.
Con o senza violenza, l'essenziale e' che ciascuno individui la propria strategia e il proprio percorso; perche' la rivoluzione questo e': liberazione, scatenamento dei percorsi, movimento centrifugo, non centripeto.
Non e' necessario, avere obiettivi ambiziosi ne prefiggersi la distruzione del capitalismo per essere disponibili, qui e subito, a lottare contro la barbarie neoliberista. Oggi, non vi e' piu' un palazzo d'inverno da conquistare e il vecchio dibattito tra «rivoluzionari» e «riformisti» appare obsoleto.
Accantonando questa terminologia, molti preferiscono definirsi semplicemente «ribelli», parola che sottolinea l'assenza di un programma compiuto nel senso inteso dai vecchi partiti comunisti. Ed anche per cio' che riguarda i nostri vecchi sperimentati nemici, il capitalismo e lo stato, forse, piu' che di distruzione, converrebbe forse parlare di accantonamento, di dismissione, di soffocamento, di abbandono.
È merito degli zapatisti aver attirato l'attenzione su tali questioni e, in particolare, su quella del potere. Piu' volte essi hanno ripetuto di non essere interessati a governare ne' a sedere in parlamento. Cio' che li distingue dai partiti e dalle guerriglie tradizionali non e' l'impiego (o l'accantonamento) delle armi, ma il tentativo di andare oltre i vecchi modelli tanto bolscevichi come socialdemocratici.
Un tale superamento implica la creazione (non facile) di un terreno nuovo di lotta politica, non certo trasformarsi in un gruppo di pressione o in una lobby.
Fanno sorridere le dichiarazioni del solito Cassen, il quale annuncia, niente meno, l'imminente iscrizione del sub comandante Marcos, senza piu' passamontagna ed in versione «civile» (…e l'EZLN?) ad Attac (La Repubblica, 20 agosto). Cosi', il fuoco della prima rivoluzione del secolo XXI dovrebbe essere spento con lo straccio bagnato della Tobin Tax…
Ancor piu' fanno sorridere le affermazioni del medesimo Tobin il quale, smentisce i suoi discepoli, dichiarando di essere, da sempre, un fervente sostenitore della globalizzazione e di avere proposto a suo tempo, quella tassa…per «favorire il libero mercato», di cui, dice «sono, come tutti gli economisti, un fautore».
Attac e il gruppo di intellettuali raccolti intorno a Le Monde Diplomatique rappresentano oggi l'ultima versione della vecchia e fallimentare utopia socialdemocratica. Coloro i quali pensano di risolvere la disgrazia dei poveri tassando i ricchi non paiono consapevoli di fondare il futuro sulla permanenza precisamente dei ricchi, e dello sfruttamento che li produce, delle produzioni assassine che li alimentano, dello stato che li garantisce.
No, non ci accontenteremo di fare petizioni, ne' diventeremo una Ong con voto consultivo all'Onu. A Seattle, come a Genova e nella Selva Lacandona, la scommessa era un'altra.
«Un nuovo mondo e' possibile: basta farlo. Noi. Oggi.» Questo e' un altro dei tanti messaggi che ci arrivano dalla Selva Lacandona. Oggi l'importante e' creare situazioni di rottura, aprire il cammino a una socialita' diversa, intessere reti, stimolare incontri, favorire l'autonomia dei soggetti. L'apporto di tutti e' necessario, quello dei popoli indigeni, delle loro civilta', della loro capacita' di resistenza, prezioso.
Il movimento e' giovane e non ha ancora obiettivi definiti. Non importa, questi si chiariranno al momento opportuno. L'importante e' non ripetere gli errori del passato, imparare a navigare in acque agitate, tra gli uragani della repressione e le risacche istituzionali.
Il momento e' appassionante. Organismi come l'FMI, la Banca Mondiale o il G8, che prima ritenevano di poter agire indisturbati, sono adesso sulla difensiva e si trovano costretti a organizzare i loro incontri dietro mura invalicabili o in luoghi inaccessibili. Accordi che prima erano discussi in gran segreto e al riparo dalla furia popolare sono adesso sottoposti a dibattito pubblico.
Dopo Genova, meno gente nel mondo crede che la globalizzazione capitalista promuova la democrazia e la distribuzione della ricchezza. Tuttavia questo «stato d'emergenza», questo «momento del pericolo» faticosamente riemersi, non ammettono ripetizioni. Non conviene rincorrere una volta ancora il calendario dei signori governanti, riproponendo semplicemente quello che Tony Blair ha chiamato con spregio «il circo itinerante degli anarchici».
Anche il futuro delle manifestazioni di piazza solleva un gran numero di interrogativi. Il movimento e' oramai, in maniera irreversibile, internazionale: questo fatto che da' corpo come mai prima a centocinquant'anni di sogni e di speranze degli internazionalisti, impone pero' a tutti un grande salto di qualita' dal punto di vista dell'organizzazione e della comunicazione.
Chi ha vissuto l'avventura degli incontri zapatisti del 1996 e 1997, che tanta parte hanno avuto nel condurci dove ora ci troviamo, sa quanta fatica, sia pure entusiasmante, costi comunicare fra persone che non si conoscono, e che neppure parlano la medesima lingua. Il rischio dell'incomprensione, come pure quello dell'appiattimento a slogan di ogni ragionamento e' sempre in agguato.
La bastonata che un BB ha assestato a un compagno dei Cobas che ragionevolmente invitava «non partite ancora, aspettate che tutti siano pronti» puo' certamente essere ascritta in buona misura a questo oggettivo ritardo.
Sgombrato il campo dalle calunnie, il piu' urgente e irrisolto dei problemi rimane: come armonizzare la violenza offensiva di alcuni con la nonviolenza di molti altri?
I Black Blocs, con buona pace dei calunniatori, non sembrano orientati al suicidio, ma nel futuro non sempre sara' loro possibile fare come a Washington o a Quebec City.
Genova mostra gia' ora un salto di qualita' nella strategia repressiva. La scelta da parte delle forze repressive di concentrare gli attacchi sui manifestanti pacifici ha dato buoni risultati ed e' facile prevedere che continuera' ad essere usata, spingendo alla ritirata chi non ama o non ha la possibilita' di battersi e imponendo il terreno dello scontro militare, su cui non potremo, per molto tempo ancora, giocare al rialzo, quand'anche lo volessimo.
Alcuni ripropongono la vecchia piaga dei servizi d'ordine, una soluzione che, oltre a suggerire una spiacevole identificazione con i repressori in uniforme, e' profondamente estranea a un movimento che trae la propria forza dal disordine, dagli innumerevoli approcci della creativita' individuale.
Ne' bisogna avere illusioni sull'orientamento politico dei governi. A Goteborg, un governo socialdemocratico ha ordinato di sparare sui manifestanti e a Genova un governo postfascista ha fatto il morto. A Parigi, in agosto, i CRS di Jospin e Chirac, hanno fermato, identificato e maltrattato i partecipanti a una pacifica manifestazione sui fatti di Genova.
Occorre che tutti, anche coloro i quali per mille legittimi motivi non hanno desiderio di militarizzare la propria azione, ne' di contrapporre la mazza al manganello, o la molotov al lacrimogeno, comprendano che arriva un momento in cui il percorso dell'autonomia individuale e collettiva si scontra inevitabilmente con il potere e con la sua violenza e che le conseguenze di cio' sono spesso tragiche.
A loro volta i «violenti», cui non puo' piu' essere negata la possibilita' di presentare liberamente le proprie tattiche e i propri punti di vista, devono affinare, perfezionare, graduare la portata delle loro azioni per meglio salvaguardare la vita e la liberta' di tutti.
Se di sicuro non e' possibile combattere l'alienazione con forme alienate, non e' possibile neppure cancellare la violenza stupida dei potenti con qualcosa che non sia in certo qual modo un «antiviolenza» le cui forme rimangono in buona misura ancora da inventare con la collaborazione di tutti.
Il futuro di questo movimento sta tutto qui: le sue anime devono imparare ad agire in maniera fraterna. Se no, un'altra occasione sara' perduta…
Eppure, quella medesima forza che si e' espressa con tanto vigore ha condotto ad un conflitto preoccupante tra le diverse tendenze che, fin dal principio, convivono al suo interno, seminando profondi interrogativi per cio' che attiene il futuro.
Contro l'opinione di coloro che cercano l'unita' a tutti i costi, bisogna prendere atto che il movimento contro la mondializzazione ha molte anime. Fin dal principio ne e' esistita una pacifista, ed una propensa all'azione diretta, con un'infinita gamma di variazioni intermedie.
La sua forza potrebbe risiedere proprio in questa dimensione plurale e nella molteplicita' delle sue espressioni internazionali. Oggi il mondo e' in subbuglio dal Karnakata alla Tailandia, da Seattle a Genova, dalla Selva Lacandona a Puerto Alegre.
In un intervista recente, il sub-comandante Marcos ha recentemente affermato: «Crediamo sinceramente che a livello mondiale i nostri ‘no' si sommino semplicemente con tutti gli altri che provengono dal resto del pianeta, mentre i ‘si'' debbano ancora essere individuati. (…) Non crediamo che tutti questi ‘si'' possano articolarsi in un unico corpo mondiale. Anzi, non consideriamo questa eventualita' auspicabile. Non crediamo, insomma, che alla globalizzazione si debba opporre una nuova internazionale» (rivista Linus, 6 luglio '01).
Il problema e' che mentre la tendenza radicale non pretende di esercitare egemonia alcuna, ed anzi ammette apertamente la possibilita' di altri approcci, non si puo' dire altrettanto di molti, anche se non tutti, i pacifisti.
Questi hanno sovente criminalizzato i primi, impiegando …la violenza, la calunnia, e perfino la delazione con esiti sono sovente grotteschi. Era gia' accaduto a Seattle ed e' accaduto di nuovo a Genova. Al direttore di Liberazione, Sandro Curzi, che in TV, contestava alla polizia di non avere agito preventivamente contro i violenti, un funzionario ha dovuto rispondere imbarazzato: «dottor Curzi, questo non e' uno stato di polizia, quel che ci chiede noi non lo possiamo fare».
A tutti costoro e' bene ricordare il monito di Orwell: «la differenza importante non e' tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o no appetito di potere. Vi sono individui che disprezzano la polizia e l'esercito, ma si rivelano poi molto piu' intolleranti ed inquisitori di coloro che ammettono la necessita' di usare la violenza in circostanze determinate» (Inside the Whale and Other Essays, Penguin Book, 1962, pag. 118).
Sebbene il problema esista, le contraddizioni principali non sono tra violenti e nonviolenti e forse neppure tra chi cerca alternative al capitalismo e chi, invece, vorrebbe semplicemente abbellirlo o limitarne i danni.
La malafede nelle accuse di alcuni autoproclamati portavoce contro chi agisce in maniera indipendente indica che la posta in gioco e', appunto, il potere. Calunniare e' grave: gli stalinisti lo hanno fatto a Barcellona nel 37 ed ogni qualvolta si sono sentiti minacciati nei loro interessi.
Occorre inoltre tenere presente che, come fanno notare i BB la violenza risiede, prima di tutto, nelle relazioni sociali stesse. Chi fu il primo a scatenarla a Genova? Il governo italiano che blindo' la citta'? Le multinazionali che in nome del libero commercio depredano l'umanita' e la madre terra? Gli stati che le proteggono? I Black Bloc? Il carabiniere che sparo'? Carlo Giuliani che gli ributto' addosso l'estintore?
Quanto alla nonviolenza, lo stesso Gandhi affermo' piu' volte che, sebbene la considerasse superiore alla violenza sia da un punto di vista tattico che etico, non si poteva fare di cio' un dogma e che, in ogni caso, era preferibile essere violenti che codardi. La nonviolenza – diceva - e' una scelta valida solo se praticata da chi rinuncia a una violenza che avrebbe la forza di praticare. E non e' certo la pratica del topo che fugge di fronte al gatto.
Oggi una tale pratica corre il rischio di essere immiserita da comportamenti addomesticati e condiscendenti. Se il movimento deve crescere, nonviolenza non puo' voler dire astensione, neutralita' o, peggio, collaborazione, ma disobbedienza, determinazione, azione, costruzione di altro.
Se l'aspetto propositivo della violenza vandalica pratica dai BB, consiste proprio nel mettere in crisi la pretesa neutralita' delle relazioni sociali e nel ricondurre al centro dell'attenzione la loro precarieta' storica, ogni gesto inscritto in questo registro rischia di rimanere prigioniero di una negazione simbolica dell'esistente. «Il fine non giustifica i mezzi», ci mandano a dire gli zapatisti dal Messico. E gli anarchici replicano: «da due secoli lo sappiamo» e non puo' dirsi casuale il numero crescente di bandiere rosse e nere in tutti gli appuntamenti del movimento che cresce.
Con o senza violenza, l'essenziale e' che ciascuno individui la propria strategia e il proprio percorso; perche' la rivoluzione questo e': liberazione, scatenamento dei percorsi, movimento centrifugo, non centripeto.
Non e' necessario, avere obiettivi ambiziosi ne prefiggersi la distruzione del capitalismo per essere disponibili, qui e subito, a lottare contro la barbarie neoliberista. Oggi, non vi e' piu' un palazzo d'inverno da conquistare e il vecchio dibattito tra «rivoluzionari» e «riformisti» appare obsoleto.
Accantonando questa terminologia, molti preferiscono definirsi semplicemente «ribelli», parola che sottolinea l'assenza di un programma compiuto nel senso inteso dai vecchi partiti comunisti. Ed anche per cio' che riguarda i nostri vecchi sperimentati nemici, il capitalismo e lo stato, forse, piu' che di distruzione, converrebbe forse parlare di accantonamento, di dismissione, di soffocamento, di abbandono.
È merito degli zapatisti aver attirato l'attenzione su tali questioni e, in particolare, su quella del potere. Piu' volte essi hanno ripetuto di non essere interessati a governare ne' a sedere in parlamento. Cio' che li distingue dai partiti e dalle guerriglie tradizionali non e' l'impiego (o l'accantonamento) delle armi, ma il tentativo di andare oltre i vecchi modelli tanto bolscevichi come socialdemocratici.
Un tale superamento implica la creazione (non facile) di un terreno nuovo di lotta politica, non certo trasformarsi in un gruppo di pressione o in una lobby.
Fanno sorridere le dichiarazioni del solito Cassen, il quale annuncia, niente meno, l'imminente iscrizione del sub comandante Marcos, senza piu' passamontagna ed in versione «civile» (…e l'EZLN?) ad Attac (La Repubblica, 20 agosto). Cosi', il fuoco della prima rivoluzione del secolo XXI dovrebbe essere spento con lo straccio bagnato della Tobin Tax…
Ancor piu' fanno sorridere le affermazioni del medesimo Tobin il quale, smentisce i suoi discepoli, dichiarando di essere, da sempre, un fervente sostenitore della globalizzazione e di avere proposto a suo tempo, quella tassa…per «favorire il libero mercato», di cui, dice «sono, come tutti gli economisti, un fautore».
Attac e il gruppo di intellettuali raccolti intorno a Le Monde Diplomatique rappresentano oggi l'ultima versione della vecchia e fallimentare utopia socialdemocratica. Coloro i quali pensano di risolvere la disgrazia dei poveri tassando i ricchi non paiono consapevoli di fondare il futuro sulla permanenza precisamente dei ricchi, e dello sfruttamento che li produce, delle produzioni assassine che li alimentano, dello stato che li garantisce.
No, non ci accontenteremo di fare petizioni, ne' diventeremo una Ong con voto consultivo all'Onu. A Seattle, come a Genova e nella Selva Lacandona, la scommessa era un'altra.
«Un nuovo mondo e' possibile: basta farlo. Noi. Oggi.» Questo e' un altro dei tanti messaggi che ci arrivano dalla Selva Lacandona. Oggi l'importante e' creare situazioni di rottura, aprire il cammino a una socialita' diversa, intessere reti, stimolare incontri, favorire l'autonomia dei soggetti. L'apporto di tutti e' necessario, quello dei popoli indigeni, delle loro civilta', della loro capacita' di resistenza, prezioso.
Il movimento e' giovane e non ha ancora obiettivi definiti. Non importa, questi si chiariranno al momento opportuno. L'importante e' non ripetere gli errori del passato, imparare a navigare in acque agitate, tra gli uragani della repressione e le risacche istituzionali.
Il momento e' appassionante. Organismi come l'FMI, la Banca Mondiale o il G8, che prima ritenevano di poter agire indisturbati, sono adesso sulla difensiva e si trovano costretti a organizzare i loro incontri dietro mura invalicabili o in luoghi inaccessibili. Accordi che prima erano discussi in gran segreto e al riparo dalla furia popolare sono adesso sottoposti a dibattito pubblico.
Dopo Genova, meno gente nel mondo crede che la globalizzazione capitalista promuova la democrazia e la distribuzione della ricchezza. Tuttavia questo «stato d'emergenza», questo «momento del pericolo» faticosamente riemersi, non ammettono ripetizioni. Non conviene rincorrere una volta ancora il calendario dei signori governanti, riproponendo semplicemente quello che Tony Blair ha chiamato con spregio «il circo itinerante degli anarchici».
Anche il futuro delle manifestazioni di piazza solleva un gran numero di interrogativi. Il movimento e' oramai, in maniera irreversibile, internazionale: questo fatto che da' corpo come mai prima a centocinquant'anni di sogni e di speranze degli internazionalisti, impone pero' a tutti un grande salto di qualita' dal punto di vista dell'organizzazione e della comunicazione.
Chi ha vissuto l'avventura degli incontri zapatisti del 1996 e 1997, che tanta parte hanno avuto nel condurci dove ora ci troviamo, sa quanta fatica, sia pure entusiasmante, costi comunicare fra persone che non si conoscono, e che neppure parlano la medesima lingua. Il rischio dell'incomprensione, come pure quello dell'appiattimento a slogan di ogni ragionamento e' sempre in agguato.
La bastonata che un BB ha assestato a un compagno dei Cobas che ragionevolmente invitava «non partite ancora, aspettate che tutti siano pronti» puo' certamente essere ascritta in buona misura a questo oggettivo ritardo.
Sgombrato il campo dalle calunnie, il piu' urgente e irrisolto dei problemi rimane: come armonizzare la violenza offensiva di alcuni con la nonviolenza di molti altri?
I Black Blocs, con buona pace dei calunniatori, non sembrano orientati al suicidio, ma nel futuro non sempre sara' loro possibile fare come a Washington o a Quebec City.
Genova mostra gia' ora un salto di qualita' nella strategia repressiva. La scelta da parte delle forze repressive di concentrare gli attacchi sui manifestanti pacifici ha dato buoni risultati ed e' facile prevedere che continuera' ad essere usata, spingendo alla ritirata chi non ama o non ha la possibilita' di battersi e imponendo il terreno dello scontro militare, su cui non potremo, per molto tempo ancora, giocare al rialzo, quand'anche lo volessimo.
Alcuni ripropongono la vecchia piaga dei servizi d'ordine, una soluzione che, oltre a suggerire una spiacevole identificazione con i repressori in uniforme, e' profondamente estranea a un movimento che trae la propria forza dal disordine, dagli innumerevoli approcci della creativita' individuale.
Ne' bisogna avere illusioni sull'orientamento politico dei governi. A Goteborg, un governo socialdemocratico ha ordinato di sparare sui manifestanti e a Genova un governo postfascista ha fatto il morto. A Parigi, in agosto, i CRS di Jospin e Chirac, hanno fermato, identificato e maltrattato i partecipanti a una pacifica manifestazione sui fatti di Genova.
Occorre che tutti, anche coloro i quali per mille legittimi motivi non hanno desiderio di militarizzare la propria azione, ne' di contrapporre la mazza al manganello, o la molotov al lacrimogeno, comprendano che arriva un momento in cui il percorso dell'autonomia individuale e collettiva si scontra inevitabilmente con il potere e con la sua violenza e che le conseguenze di cio' sono spesso tragiche.
A loro volta i «violenti», cui non puo' piu' essere negata la possibilita' di presentare liberamente le proprie tattiche e i propri punti di vista, devono affinare, perfezionare, graduare la portata delle loro azioni per meglio salvaguardare la vita e la liberta' di tutti.
Se di sicuro non e' possibile combattere l'alienazione con forme alienate, non e' possibile neppure cancellare la violenza stupida dei potenti con qualcosa che non sia in certo qual modo un «antiviolenza» le cui forme rimangono in buona misura ancora da inventare con la collaborazione di tutti.
Il futuro di questo movimento sta tutto qui: le sue anime devono imparare ad agire in maniera fraterna. Se no, un'altra occasione sara' perduta…
Claudio Albertani
Parigi, agosto/settembre 2001
Ringrazio i compagni del Comitato di Solidarieta' con la Lotta dei Popoli del Chiapas in Lotta a Parigi; e Paolo Ranieri, vecchio amico, complice, e testimone appassionato degli avvenimenti di Genova.
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