venerdì 27 luglio 2018

E' IL SISTEMA MARCHIONNE CHE DEVE MORIRE


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A bocce ferme dopo la ridondanza vomitata per troppi giorni su tutti i telegiornali e la carta stampata naturalmente a senso unico come bravi schiavi sottomessi sulle qualità eccezionali e semidivine di Marchionne,ora fortunatamente l'eco della sua morte si fa sentire sempre più in dissolvenza.
Idolatrato da colleghi manager,padroni,servi del capitale,Marchionne è sempre stato funzionale al capitalismo,quello più becero e volgare,che non guarda in faccia a niente e nessuno,spietato e individualista,un uomo nuovo che per fortuna non ha mai calcato i palcoscenici della politica anche se è stato spesso non solo invitato ma spinto a farlo.
Nei due articoli di Infoaut(editoriale/c-e-chi-non-piange-per-marchionne )e Contropiano(editorialemarchionne-il-peggiore )la figura imprenditoriale di uno che pian piano calpestando prima i suoi simili per poi divorare tutti quelli che sono stati suoi sottoposti(essendo il capo cioè tutti),ma se Marchionne è morto il modo di fare perfido ed insensibile di certo non se ne va con la sua dipartita,anzi mentre ancora era agonizzante il mondo degli squali cui è sempre stato funzionale ne aveva già deciso il successore.
C'è chi come lui fa carriera o tenta di farlo,facendo la spia,gettando fango sul collega,lavorando più col la lingua che con le mani e la testa,gli esempi pratici li abbiamo tutti i giorni nei nostri posti di lavoro,tanti piccoli Marchionne che vogliono ascendere con il ricatto,con la cattiveria ed il menefreghismo,tanti piccoli omuncoli che un ritorno di fiamma della lotta dei lavoratori deve costringere a fermarli prima di farli diventare potenti.
In fondo la sua strategia veramente da pelo sullo stomaco è sempre stata quella di abbattere i costi di lavoro lasciando a casa migliaia di persone(nella sua gestione italiana i dipendenti alla sa mercé sono passati da 120 a 29 mila),ed è quello che accade in ogni azienda in Italia e nel mondo,quindi non trovo affatto di buon gusto mettere sul piedistallo personaggi del genere.
Perché le fortune sue e della Fiat,la maggior azienda che ha usufruito dei suoi servigi,è il fatto che sono stati mantenuti in vita dal finanziamento pubblico mai restituito e dal lavoro massacrante cui migliaia di operai si sono adoperati.

C'è chi non piange per Marchionne.

Mentre l’(ex) ad Fiat Sergio Marchionne si ritrova ricoverato a Zurigo, in lungo e in largo per lo stivale da giorni dilagano commenti e rimbalzano opinioni contrastanti sulla sua figura.

Un vero patriota, per alcuni, anche se non se ne capisce il motivo. Una persona da non irridere o su cui non infierire, per altri, quando da secoli la satira e l’irrisione dei potenti è uno dei minimi mezzi a disposizione per far venire alla luce l’odio di classe.

Andando aldilà della figura personale, sembra che odiare un padrone ed esplicitarlo a chiare lettere – senza ipocrisie – sia qualcosa di deplorevole, a partire – e come non poteva essere così? - dal Patrito democratico e i suoi accoliti, che si sono stretti attorno al capezzale del patron abruzzese. Se per i politici di alto bordo questo è normale, essendo i garanti degli interessi padronali assieme alle guardie e alle corporazioni sindacali “padronalizzate”, non lo dovrebbe essere per molte persone “normali” che abbiano a mente la cronistoria, anche a grandi linee, degli ultimi due decenni in Italia o almeno dall’avvento della crisi capitalistica.
Crisi che si é acuita, estesa a macchia d’olio, divenendo strutturale e dunque “normalizzata” a scapito dei poveri, anche tramite l’implementazione bieca dei tanti modelli Marchionne a livello globale. Altro che interesse di bandiera o “illuminato” spirito imprenditoriale. La sua innovazione in Fiat è stata quella degna delle tante multinazionali volte a generare profitto che magari tanti benpensanti di queste ultime ore hanno aspramente – e giustamente – disprezzato.
Scorporare la produzione, indebolendo la forza operaia; delocalizzare; fagocitare miliardi di euro “pubblici” tranquillamente destinabili a implementare altri modelli produttivi per investirli per interesse privato in nome di “mantenere l’occupazione”. Sono questi i tratti del modello Marchionne, epigono esemplare del passaggio finale al post-fordismo avanzato nell’italietta alla fine dell’era berlusconiana poi governata direttamente da banchieri o faccendieri di questi fino all’attualità reazionaria giallo-verde.
Ci ricordiamo come proprio la non-accondiscendenza delle grandi burocrazie sindacali all’intransigenza operaia in Fiat contro l’applicazione del modello Marchionne (intransigenza che venne invece recepita e compresa nella sua politicità complessiva dal movimento studentesco dell’onda), fu dirimente alla escalation padronale contro ampie fette di popolazione sfruttabili e ricattabili. Cedere al modello Marchionne fu la chiave di volta per decretare la fine del sindacato giallo che non è mai stato concepibile come strumento di lotta, per poi arrivare al Jobs Act renziano e ai tanti altri attacchi a precari, giovani, anziani.
Marchionne dunque a noi pare degno di essere ricordato come un nemico – simbolo di una offensiva padronale non riconducibile solo al mondo della finanza – altresì strettamente legata a dinamiche di sfruttamento che hanno minato gravemente le possibilità di riproduzione sociale nel Paese e nei suoi territori.

Non cogliere o far finta di non cogliere questo passaggio all’interno della società italiana a cavallo tra primo e secondo decennio di questo secolo è prestare il fianco alla faciloneria reazionaria dei proclami leghisti, cosa che pare il PD in primis stia facendo alla grande..

Perchè, se è vero che Sergio Marchionne in questo momento è ricoverato in stato di urgenza, per la maggiorparte dei quattrocento operai morti solo in questa porzione di anno solare mentre venivano sfruttati non c’è stata manco la possibilità di arrivare vivi in ospedale...

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Marchionne, il peggiore.

di  Dante Barontini   
Non abbiamo mai rispettato l’invito al parce sepulto (risparmiare cattiverie nei confronti di un morto). E tantomeno lo facciamo nel caso di Sergio Marchionne, ancora vivo seppur in condizioni definite “irreversibili”.

Abbiamo di proposito lasciato scendere il polverone di salamelecchi e scodinzolamenti che tutta la stampa padronale ha dedicato al “migliore di tutti loro”. Abbiamo registrato una dose di piaggeria e falsità che non verrà probabilmente sparsa neppure quando Elisabetta d’Inghilterra raggiungerà i suoi predecessori.

E’ servita una dose mostruosa di melassa per coprire il tanfo di cinismo proveniente dai vertici di Fca (Fiat Chrysler Automobiles), che mostravano al pubblico la lacrima al termine di un cda convocato in tutta fretta a mercati chiusi per limitare eccessivi contraccolpi al valore azionario del titolo. Non è servito a molto, in questo senso, ma dà la misura di quanta “sensibilità” attraversi gli uffici della maison Agnelli-Elkann.

E’ la logica del capitale, nulla di strano. Gli uomini, in questa logica, non sono persone, ma “risorse” da sfruttare finché ce n’è, poi si buttano. Vale anche per il super-manager, che quella logica ha rappresentato al livello più alto possibile.

Perché Marchionne, non era “un padrone”, ma un funzionario del capitale. Abile, cattivo, insensibile e violento (licenziare migliaia di persone e gettarle nella disperazione non è esattamente un gesto gentile, equivale a un bombardamento…), ma sostituibile e sostituito con tutta la rapidità possibile. Anche il “coccodrillo” dettato da John Elkann – mentre il suo “dipendente” è ancora in vita – è stato un atto di cinismo degno della casata da cui proviene.

Nessuno ha fatto notare che la “riservatezza” che ha circondato il ricovero in un prestigioso ospedale svizzero – ufficialmente non è stato neppure ammesso che sia lì, non si sa in quale reparto, per quale ragione una “operazione alla spalla” abbia portato al coma irreversibile, ecc – somiglia dannatamente a quei “raffreddori” mortali che in epoca brezneviana colpivano i vertici del Cremlino. Quasi che neanche i tumori possano sfiorare l’eccelsa superiorità di certi vertici…

“Umanità” a parte, ci sono almeno due punti nella narrazione beatificante Marchionne che risultano impossibili da lasciar passare il silenzio.

Il primo è legato al “salvataggio della Fiat”, al rilancio della sua “italianità”, alla “conquista dell’America”. Balle. 

Marchionne ha certamente rilevato la Fiat quando era in stato comatoso, dopo la gestione di Fresco. Un produttore di automobili che non azzeccava più un modello da tempo immemorabile, che aveva seminato “bidoni” inguardabili e soprattutto invenduti. Una galassia di società pronte per essere assorbite da General Motors, a sua volta in condizioni altrettanto brutte.

La sua prima “genialata” è stato un colpo da avvocato d’affari, più che da imprenditore; ed è consistita nello sciogliere il legame legale con GM esercitando l’allora famosa opzione put (negoziata da Fresco, in precedenza): gli americani erano contrattualmente obbligati a comprare tutte le azioni Fiat su richiesta di quest’ultima, ma – non potendo farlo per problemi finanziari gravissimi – concordarono nello sciogliere il contratto in cambio di 2 miliardi di dollari.

Fu Obama ad offrire Chrysler alla Fiat, impegnandosi a prestare parecchi miliardi pur di far rinascere il terzo marchio storico degli Usa, di fatto chiuso dopo l’esperienza fallimentare con Mercedes Benz.

Soldi pubblici (da restituire, in caso di successo) per fare business; un modello che Fiat conosceva benissimo per averlo praticato per oltre un secolo, in Italia (senza restituire mai nulla, qui). L’apporto industriale italiano fu importante (motori e tecnologie “pulite”, consumi ridotti) e rivitalizzante, soprattutto per la gallina dalle uova d’oro di casa Chrysler: il marchio Jeep.

Ma il prezzo fu la trasformazione definitiva della Fiat in una multinazionale di fatto statunitense, con conseguente abbandono – nemmeno troppo lento – della produzione in Italia, dove lascia ben presto quasi soltanto i marchi di lusso, quelli col più alto indice di reddito per unità venduta (Ferrari, Maserati, Alfa, i suv), chiudendo stabilimenti (Termini Imerese, quasi tutta Mirafiori). Una scelta confermata solo due mesi fa, con l’abbandono dei modelli Punto e Mito, il ritorno della Panda in Polonia e la produzione di suv Maserati e Jeep rispettivamente a Mirafiori e Pomigliano.

L’operazione riesce soprattutto perché apre a Chrysler il mercato europeo, fin lì ostacolato da dazi tariffari (a quel punto Jeep è un’”auto italiana”) e consumi impensabili per le abitudini continentali. Non avviene infatti l’opposto (Fiat negli Usa vende poco o nulla). E’ quindi anche il peso del mercato a decidere che, in fondo, Fca è ora stars and stripes.

L’altro pilastro del “successo” – completamente occultato dalla narrazione beatificante – è l’azzeramento del costo del lavoro sulle due sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti Marchionne strappa un contratto-capestro in cui i salari dei pochi lavoratori Chrysler riassunti vengono di fatto dimezzati, così come i piani sanitari e pensionistici (negli Usa non c’è un sistema pubblico). Poi racconterà in giro che “gli operai americani lo ringraziavano per aver loro salvato la pelle”, ma persino il capo del morbidissimo sindacato Uaw – Ron Gettelfinger – rifiutò allora di stringergli la mano esclamando: “State distruggendo un secolo di sindacalismo americano”. Poca roba, certamente, ma meglio del nulla imposto da Marchionne…

E’ stato però in Italia che Marchionne ha segnato l’epoca dell’azzeramento del potere contrattuale dei lavoratori, quindi sia dei salari che delle condizioni di lavoro.

E dire che aveva cominciato presentando un profilo molto moderato rispetto all’aggressività della Confindustria dei primi anni del nuovo millennio. Poteva permetterselo, spiegava, perché in Fiat il costo del lavoro rappresentava ormai solo il 6-7% dei costi complessivi; il resto era materie prime, energia, trasporti, ecc.

Ma quando decise di spostare la produzione della Panda dallo stabilimento polacco di Tychy a quello napoletano di Pomigliano d’Arco, anche quel margine risicato era diventato di colpo appetibile e da rosicchiare al massimo. Il manager col maglione ruppe tutte le regole consolidate nelle relazioni industriali di questo paese. Le “nuove regole interne” erano dittatoriali, tanto che furono accettate all’inizio soltanto dal Fismic, l’ex Sida, storico “sindacato aziendale” finanziato e creato dalla stessa Fiat (Cisl e Uil ci misero solo pochi minuti in più…). La minaccia fu subito esplicita e ripetuta, da allora in poi, in ogni stabilimento italiano: o accettate queste regole con un referendum, oppure chiudo e me ne vado a produrre da un’altra parte.

Rifiutò – dopo quasi 70 anni – di sottoscrivere il contratto nazionale dei metalmeccanici, uscendo per questo da Confindustria e Federmeccanica (il ramo settoriale dell’associazione imprenditoriale). L’intento era rivendicato: eliminare il sindacato, in quel momento soprattutto la Fiom, che condusse l’ultima dignitosa battaglia di resistenza, incoronando momentaneamente Maurizio Landini come “grande speraza della sinistra”.

Il “modello Pomigliano” è una galera-caserma dove i ritmi sono infernali, le pause tutte soppresse, l’usura fisica altissima (aumentano rapidamente i casi di operai che diventano “inabili al lavoro”, presto messi in cassa integrazione e di lì sulla via del licenziamento).

Addirittura venne istituita una gogna pubblica per chi commette qualche errore. Diventò presto famoso il “”rito dell’acquario”, in cui un operaio che ha sbagliato qualcosa viene messo davanti a colleghi e dirigenti chiamati a decidere la sua punizione; il tutto dentro stanzoni con le pareti di vetro, perché da fuori tutti possano vedere la sua umiliazione. A condurre il rito, quasi sempre, “capi” Fiat in odor di cattive frequentazioni sul territorio napoletano. Se la contestazione del “metodo mafioso” fosse avanzata anche in sede di fabbrica, se ne vedrebbero della belle….

Marchionne ha portato nelle relazioni industriali italiane la pratica per cui l’azienda “si sceglie il sindacato” con cui trattare, rifiutandosi di riconoscere gli altri. Ha potuto farlo per un clamoroso errore politico commesso soprattutto dalla Cgil negli anni lontani in cui era effettivamente il principale e vero rappresentante dei lavoratori, rifiutando l’idea che si potesse fissare in una legge il ruolo e la funzione del sindacato.

Marchionne ha insomma sfruttato un varco esistente tra il ruolo del sindacato come soggetto collettivo privato, firmatario però di contratti validi erga omnes, ossia per tutti i lavoratori (anziché soltanto per i propri iscritti). Ossia un soggetto che esercita una funzione pubblica (valida per tutti) pur mantenendo una forma privata. Di fatto, il riconoscimento del sindacato come soggetto abilitato a contrattare a nome di tutti i lavoratori era sostanzialmente dato dalla controparte, ossia dalle aziende. Quel riconoscimento reciproco era un “patto” che stava in piedi solo per volontà di entrambi, ma non validato da alcuna legge.

Anche qui, insomma, una “genialata” da avvocato d’affari, da esperto in codicilli e regole legali, ma sulla base di rapporti di forza mai così favorevoli alle imprese. Ma per quanto riguarda il successo industriale, sarà forse il caso di segnalare che “il settimo gruppo automobilistico del mondo” è anche l’unico, al momento, a non aver una linea di modelli ibridi, una ricerca seria sull’elettrico, ecc. Non proprio “all’avanguardia”, insomma. In definitiva, il “grande successo” delle operazioni di Marchionne si è risolto in una messa in sicurezza della struttura finanziaria della proprietà e della famiglia Agnelli. E tutto ciò viene raccontato come un “successo per gli interessi del paese”. Basti ricordare che i dipendenti in Italia, sotto la sua gestione, sono passati da 120.000 a 29.000. Ferrari e Maserati comprese…

Per questo e per altro, in definitiva, i lavoratori italiani – e noi con loro – non abbiamo mai considerato Marchionne né un “santo”, né un “difensore dell’italianità” della Fiat. Lo sapeva anche lui, del resto, quando ricordava che i lavoratori italiani “volevano fargli la pelle”. Come in guerra, dunque, ognuno piange i suoi morti e solo quelli. 

Vedi anche: http://contropiano.org/news/lavoro-conflitto-news/2018/07/26/marchionne-romiti-valletta-e-la-famiglia-agnelli-0106161

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