domenica 31 dicembre 2017

NELLO YEMEN SI UCCIDE COL MADE IN ITALY

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L'inchiesta condotta da reporter statunitensi e raccolta in un videodocumentario del New York Times dal titolo"Bombe italiane,morti yemeniti"è l'ennesimo atto di denuncia cominciato da molto tempo da parte di diversi gruppi antimilitaristi sardi e italiani che da tempo denunciano la produzione e la vendita di armi a Domusnovas da parte della società tedesca Rwm.
Se n'era già parlato lo scorso luglio(madn il-traffico-darmi-sottovoce )per via di carichi eccezionali scortati da polizia e vigili del fuoco e destinati a porti ed aeroporti provenienti proprio dall'azienda che fabbrica morte,ed è anche una palese violazione dei diritti nazionali ed internazionali in materia di esportazione di armamenti.
Fatto smentito da Gentiloni e dalla ministra della difesa Pinotti che tuttavia fatichiamo a credere in quanto non vi sono dubbi sulle origini ma anche sulle destinazioni di questi carichi in questo caso venduti all'Arabia Saudita(madn renzi-darabia )i cui fitti rapporti diplomatici hanno instaurato una solida base per affari tra le due nazioni.
L'articolo è preso da Contropiano(contropiano bombe-dallitalia-ai-sauditi )e suggerisco anche questo post(madn /lo-yemen-e-la-guerra-distanza-tra sauditi e iraniani )per approfondire la guerra d'invasione saudita nei confronti dello Yemen.

Bombe dall’Italia ai sauditi per le stragi in Yemen. Il governo sapeva tutto.

di  Federico Rucco 
Partivano da Domusnovas, in Sardegna e arrivavano a Ta’if e Jeddah, in Arabia Saudita, poi venivano utilizzate per bombardare e uccidere i civili houthi nello Yemen. Le bombe in dotazione all’aviazione saudita che hanno provocato finora più di 10mila vittime in Yemen riportano spesso lo stesso codice di fabbricazione: A4447. La produzione è italiana, negli stabilimenti della tedesca Rwm, a Domusnovas, vicino a Iglesias. A denunciarlo, oltre ai militanti antimilitaristi sardi e italiani che lo hanno fatto per mesi, è una inchiesta sintetizzata in un video del New York Times “Bombe italiane, morti yemeniti”. E’ un affare che vale 440 milioni di euro nel solo 2016.

L’inchiesta ricostruisce il viaggio degli ordigni Mk-80 dalla Sardegna fino all’Arabia Saudita, e coinvolge tutte le più alte autorità del governo. Il Nyt riporta le immagini del primo ministro Paolo Gentiloni e del ministro della Difesa Roberta Pinotti.

Fonti della Farnesina di fronte allo scandalo reso pubblico dal New York Times hanno provato a replicare con una forte dose di ipocrisia che: “L’Italia osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale ed internazionale in materia di esportazione di armamenti”. Una modalità smentita però dagli esperti che hanno esaminato le informazioni raccolte dal quotidiano statunitense secondo i quali: “Queste vendite violano le leggi italiane e internazionali sul commercio di armi”.

Attraverso dei controlli incrociati sui documenti di spedizione ai quali hanno avuto accesso, i reporter americani hanno scoperto che gli ordigni sono stati trasportati con dei tir dal luogo di fabbricazione – Domus Novas – fino all’aeroporto di Elmas o al porto di Cagliari. Sempre scortati da volanti della polizia o da mezzi dei vigili del fuoco che “solo in quelle occasioni” avevano accesso anche alle aree riservate degli scali. Prova questa del fatto che il governo era perfettamente informato di queste vendite offrendo copertura e sostegno alla spedizione delle bombe in Arabia Saudita.

Dai vari scali le bombe vengono poi caricate su aerei, destinazione Ta’if, oppure su navi cargo che, passando dallo Stretto di Suez, attraccavano al porto saudita di Jeddah.

Sulla vicenda è intervenuto il senatore del M5S Cotti rivelando che “Dopo mesi di stretta collaborazione con il NYT, a cui ho fornito video, foto, documentazione, contatti, ecco ora l’inchiesta della prestigiosa testata americana”. In una nota, il senatore del M5s Roberto Cotti ha sottolineato come. “La denuncia è forte, le prove schiaccianti, le responsabilità del Governo italiano evidentissime. Un Governo che continua ad autorizzare l’export delle bombe nonostante le mie denunce, con ben 6 interrogazioni parlamentari a cui non si sono degnati di rispondere per cercare di giustificare il loro operato. Un impegno, il mio, finalmente premiato.”Sono orgoglioso – ha aggiunto – di avere collaborato all’inchiesta giornalistica, evidenziando l’importante ruolo del M5s nella denuncia di questo immane crimine”.

WEAH PRESIDENTE DELLA LIBERIA


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La vittoria dell'ex calciatore George Weah alle presidenziali della Liberia dopo un tentativo e mezzo andati a vuoto ha fatto parlare solamente della carriera di uno tra i più forti giocatori africani passando in seconda scena ciò che ha proposto ed ha promesso agli elettori.
Infatti poco si sa del suo programma politico ma è certo il suo impegno personale da anni per un'adeguata educazione scolastica e attento alle problematiche sociali,ma i notiziari ci hanno propinato solamente le gesta di quando fu giocatore,e alcune reti(mediaset)hanno addirittura indicato Weah come un'invenzione(in politica)dell'ex premier puttaniere tanto per lanciargli la campagna elettorale.
Nell'articolo di Contropiano(weah-presidente )una breve cronistoria politica degli ultimi anni in Liberia che ha avuto elezioni con un'elevata affluenza con molti partiti presenti nelle liste ma con poche notizie riguardo il programma politico.

Weah presidente della Liberia. un’occasione per parlare d’Africa? No, di Calcio.

di  Alberto Tarozzi * 
Dicono che Georges Weah, 51 anni, forse il miglior calciatore che abbia avuto l’Africa, e neo Presidente della Liberia sia molto sensibile ai problemi sociali della sua terra in particolare a quelli dei bambini e alla loro scolarizzazione.
 Però sul Presidente neo eletto alla guida di uno dei Paesi più tormentati del continente africano avremmo piacere di conoscere qualcosa di più.

In che cosa consiste quel CDC, il partito per il cambiamento, per il quale ha concorso e vinto, oltre ad essere un gruppo che si occupa di questioni umanitarie? Certo siamo certi che non finanzia la tratta dei bambini soldato, un tragico mercato che proprio tra Liberia e Sierra Leone ha avuto modo di svilupparsi in non lontani tempi di guerra, ma quali sono i lineamenti del suo programma politico?
Certo se ne sa di più del partito che ha sconfitto, al secondo tentativo, e di chi lo ha guidato nei tempi passati, il Partito dell’Unità.

Si sa che era guidato da una donna, da Ellen Johnson-Sirleaf, ex impiegata della World Bank, un’economista di stampo liberista nominata nel 2011 Premio Nobel per la pace per avere guidato il paese in anni relativamente tranquilli. Si sa che ha azzerato il debito estero del paese a caro prezzo per la popolazione più povera. Si sa che il suo vice, Joseph Boakai (vicepresidente della Liberia dal 2005), da un po’ di tempo non andava d’accordo con lei, e questa frattura ha indubbiamente giovato a Weah per ribaltare il risultato di una precedente consultazione.

Sì, ma al di là di questo? Ci piacerebbe conoscere come la pensa il neoeletto in materia di politica estera. Una variabile che ha inciso sul paese fin dalle sue origini se è vero che venne di fatto costruito da schiavi liberati negli Stati Uniti, non tanto graditi dagli indigeni doc, ma fortemente legati al paese che li aveva prima messi in catene e poi liberati dalle medesime.

Un paese, politicamente parlando “born in the Usa”, i cui Presidenti però non sempre si erano allineati a Washington. Senza tener conto che, quando si erano verificate beghe tra i liberiani e i vicini della Sierra Leone l’esercito francese gravitava non molto lontano.
E ancora, quali sono i residui di una delle epidemie più devastanti degli ultimi anni (l’Ebola) che le sue tracce più mortifere le ha lasciate proprio in Liberia, Sierra Leone e Guinea?

Basta a tranquillizzarci una percentuale di votanti sufficientemente elevata e l’assenza di guerre civili, nonché elezioni pluripartitiche da una dozzina d’anni? Sono sufficienti per garantirci che Weah avrà vita facile e che ci possiamo comunque fidare di lui sulla parola?
A nostro avviso, da parte dei media, si poteva cominciare meglio. Parlare, analizzando la sua vittoria, dei problemi in cui si sta dibattendo l’Africa, magari limitandoci a quelli della sua zona. Non mi pare che lo si stia facendo molto.

In compenso sappiamo tutto e tutti del suo Pallone d’oro.
 E che ha giocato, Milan ovviamente a parte, nel Chelsea, nel Manchester City, nell’Olympique di Marsiglia e nel Paris St. Germain. Oltre a ciò fatichiamo appena a sapere che è musulmano.
Comunque sia, auguri Presidente, a lei, al suo popolo e all’Africa tutta.

da https://www.alganews.it/

venerdì 29 dicembre 2017

IL MASSACRO DI WOUNDED KNEE


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Mentre la campagna contro gli immigrati continua ad essere senza discussione la prima arma senza proiettili usata da Trump per aizzare i suoi sostenitori coglioni almeno la metà di quanto lo sia lui,nel paese dove bianchi conquistatori che da migranti approdarono nei territori nordamericani annientando in pochi decenni la vita e la cultura dei nativi americani,oggi ricorre il più grande massacro di massa avvenuto da parte dell'esercito statunitense a Wounded Knee.
L'articolo sotto(infoaut 29-dicembre-1890-il-massacro-di-wounded-knee )parla di questa carneficina che massacrò trecento pellerossa uccisi a tradimento tra colpi di cannone e di fucili oppure morti per assideramento dopo la strage.
I motivi che scatenarono la rappresaglia del famoso settimo reggimento sconfitto a Little Big Horn sono discordanti(nell'articolo si parla di gesti male interpretati durante una danza,altre fonti di un colpo di fucile partito a casa da un indiano sordo che non aveva sentito durante le operazioni di disarmo),fatto sta che a perire furono in maggioranza donne e bambini.

29 dicembre 1890: il massacro di Wounded Knee.

Negli ultimi giorni dell'anno 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, alla notizia dell'assassinio di Toro Seduto, partì dall'accampamento sul torrente Cherry per recarsi a Pine Bridge, sperando nella protezione di Nuvola Rossa. Erano mesi infatti che il governo dei bianchi toglieva l'erba da sotto i piedi delle tribù indiane attraverso recinzioni e concessioni minerarie, stermini di bisonti (che segnavano la fine di un'antica economia di sussistenza) e segregazioni all'interno delle riserve.

Sempre più tribù si appellavano al movimento spirituale promosso da Wovoka, la Ghost Dance, che prometteva loro di restituirgli il mondo com'era prima dell'arrivo dell'uomo bianco; in tutte le riserve si poteva assistere infatti a danze frenetiche ed estenuanti eseguite da centinaia di indiani speranzosi di potersi conquistare un futuro meno triste del presente.

Durante il viaggio verso Pine Bridge, nella notte tra il 28 e il 29 dicembre la cavalleria del Settimo Reggimento guidata dal colonnello George A. Forsyth intercettò e radunò più di trecento Sioux guidati dal capo Grande Piede. Fu chiaro fin da subito che l'intento del colonnello e dei suoi squadroni di cavalleria era quello di compiere una strage: tredici anni prima infatti, a Little Big Horn, Cavallo Pazzo e Toro Seduto avevano sconfitto e umiliato proprio il Settimo Reggimento, allora comandato da George A. Custer. Forse c'era voglia di chiudere i conti.

I Sioux erano stanchi, infreddoliti e nervosi, fermi e tenuti sotto tiro da diverse ore. Qualcuno di loro cominciò a danzare; altri seguirono l'esempio. I bianchi si agitarono, ma l'ordine di smettere di danzare rimase inascoltato. Forsyth fece quindi puntare quattro cannoni contro la piccola folla.

Ordinò il fuoco a seguito di un gesto dello sciamano Uccello Giallo che guidava la danza e che lanciò in aria una manciata di polvere secondo il rituale della Danza degli Spiriti.

153 furono gli indiani (soprattutto donne e bambini) che persero la vita a Wounded Knee, gran parte dei feriti morirono invece assiderati cercando di allontanarsi dal luogo del massacro. Venticinque soldati furono uccisi, molti probabilmente vittime accidentali dei loro compagni.

Gli ufficiali responsabili della strage furono ricompensati con venti medaglie al valore militare.

giovedì 28 dicembre 2017

LO STESSO GIOCO AL SUICIDIO POLITICO

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Proprio come un Pdl(prima e poi Forza Italia)qualunque anche il Pd dalle parole del premier,ancora per qualche ora,Gentiloni sembra che i politici stiano sotto a una campana di vetro intontiti dalla mancanza d'ossigeno via via sempre più grande.
Così com'era successo ai tempi disastrosi del Pdl al governo anche nell'altrettanto funesto esecutivo Pd targato Renzi ed altri comandati a filo,gli italiani se la passano ancora bene,la crisi è ormai risolta e si guarda al futuro con ottimismo.
A parte la naturale toccata di palle,a dichiarazioni del genere non ci crede nessuno a parte i pochissimi che in questi anni si sono arricchiti sulle spalle dei molti che invece hanno visto l'asticella del proprio potere d'acquisto(per chi un lavoro ce l'ha)sempre al ribasso.
Non si sono usate frasi come(cito testualmente l'ex premier clown,anche se se ne sono aggiunti altri lui è inarrivabile)"mi sembra che in Italia non si avverta una forte crisi.La vita in Italia è la vita di un Paese benestante.I consumi non sono diminuiti,i ristoranti sono pieni,per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto"(vedi:madn game-over e madn la-carica-dei-100-meno-uno ).
Ma comunque l'antifona è quella di un paese non più sul fondo dell'Ue,grande risultato essere meno peggio della Grecia,dove la gente si diverte e non ha problemi ad arrivare alla fine del mese,un poco come decantato nell'ultima conferenza di fine legislatura riportata qui sotto(www.ansa.it/sito/notizie/cronaca ).
Questa notizia assieme all'accanimento nel sostenere personaggi impresentabili e ineleggibili come la Boschi(contropiano buona-notizia-boschi-affossa-renzi-pd )più sotto ancora,faranno del Pd un piccolo partito di opposizione che potrà riprendersi solamente dopo le malefatte di un altro governo di centrodestra,perché gli italiani sono fondamentalmente poco inclini alla memoria storica e a ciò che tragicamente ne deriva.

Mattarella scioglierà Camere stasera, cdm decide data voto

Gentiloni ricevuto al Quirinale dopo l'incontro in cui ha tracciato il bilancio della legislatura
 
Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è rientrato a Palazzo Chigi dopo circa un'ora di colloquio al Quirinale con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.. Conto alla rovescia verso le elezioni: secondo quanto si apprende in ambienti politici, il Capo dello Stato Sergio Mattarella, dopo aver visto informalmente il premier Paolo Gentiloni, riceverà nel pomeriggio, separatamente, i presidenti delle Camere, quindi ci sarà il passo dello scioglimento del Parlamento il cui decreto sarà contro-firmato dal presidente del Consiglio, con un nuovo rapido passaggio al Colle prima del consiglio dei ministri previsto per questa sera che darà il via libera ai decreti elettorali e indicherà la data delle elezioni, presumibilmente il 4 marzo. Gentiloni salirà ancora una volta al Colle per far controfirmare i decreti elettorali al presidente della Repubblica

Gentiloni: 'Il Paese si è rimesso in moto, continueremo a governare' -"La verità è che l'Italia si è rimessa in moto dopo la più grave crisi del dopoguerra". Lo ha detto il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno, in cui ha tracciato un bilancio della legislatura. "Il governo non tira remi in barca, governerà - ha aggiunto il premier -. Ora ci affidiamo a Mattarella, grazie per il ruolo garante".

"Naturalmente - ha ancora spiegato - oltre a svolgere il mio ruolo fondamentale di presidente del Consiglio sia pure in un contesto di campagna elettorale e di camere sciolte, darò il mio contributo alla campagna elettorale del Pd".

Un Bis dopo le elezioni, larghe intese con me ancora premier? "Qualsiasi cosa dica in risposta a questa domanda credo che sarebbe usata contro di me..." - ha detto Paolo Gentiloni - "Governerò fino alle elezioni, dove mi auguro che la mia parte politica prevalga per poi avere un esecutivo con determinate caratteristiche, sicuramente dobbiamo farci carico della gestione della situazione per evitare instabilità.

"Sognerei altre panchine": questa la risposta di Gentiloni, alla domanda sul suo futuro dopo la fine della legislatura.

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Una buona notizia. Boschi affossa Renzi e il Pd.

di  Alessandro Avvisato 
Come spesso ci accade di dire, avremmo fatto volentieri a meno di occuparci di certe cose maleodoranti. C’è sempre la sensazione che ti si appiccichino addosso, anche se ovviamente sei solo un osservatore (molto) esterno.

Ma le conseguenze della deposizione di Federico Ghizzoni, ex amministratore delegato di Unicredit, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, sono un fatto politico. Dunque dobbiamo prenderne tutti atto.

La vicenda è nota, l’hanno ripetuta tute le televisioni e i siti per una giornata intera: Ghizzoni ha riferito che Maria Elena Boschi, allora ministro “per le riforme costituzionali”, era andata da lui a chiedergli se la sua banca potesse assorbire Banca Etruria. Ovvero l’istituto vice-presieduto dal padre del ministro. “Mi chiese di valutare l’acquisizione della banca di Arezzo”. 

E’ stata così confermata la “rivelazione scandalosa” contenuta nel libro di Ferruccio De Bortoli, ex direttore – fra l’altro – del Corriere della Sera e de IlSole24Ore. Circostanza prima negata dalla “signorina Meb” e ora ammessa sotto la rassicurante qualifica di “normale interesse all’economia del proprio territorio”.

Già questo, in una normale democrazia parlamentare, sarebbe sufficiente per pretendere – non “chiedere” – le dimissioni della signorina Meb da qualsiasi carica pubblica.

Peggio ancora. Ghizzoni ha dato conto anche delle pressioni fatte da Marco Carrai, con una mail in cui candidamente scriveva: “Ciao, Federico, solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti”. Come si fa in certi ambienti per caldeggiare l’assunzione di un raccomandato in qualità di scopino…

Carrai, però, non è un personaggio qualsiasi. Amico d’infanzia di Renzi, era anche colui che gli aveva messo a disposizione un appartamento quando era solo sindaco di Firenze. E quello che Renzi voleva investire della delega ai servizi segreti, visto che la sua attività imprenditoriale è nel campo della cyber security, ossia intercettazioni, controllo, controspionaggio (tra privati), blindatura di sistemi informatici, ecc. Non arrivò su quella sedia per l’opposizione compatta di tutti i corpi militari – “servizi” compresi – perché prefigurava una situazione intollerabile: le agenzie di spionaggio al servizio diretto di un singolo cittadino momentaneamente presidente del consiglio senza mai esser stato investito di un voto popolare. Magari non era questa la vera motivazione (i servizi hanno molto pelo sullo stomaco), magari c’erano altri interessi da tutelare, ma già solo il fatto di provare un colpo simile certifica da parte di Renzi una “cultura di governo” incompatibile con l’assetto costituzionale del paese.

Si aggiunga il fatto – reso noto in queste ore – che tra le “amicizie” (non feisbukkiane) di Carrai c’è gentaccia come Tony Blair o Michael Ledeen (romanziere ed ex capostazione della Cia in Italia), e il quadro assume contorni davvero horror…

Insomma: se Carrai riferisce “mi hanno chiesto di sollecitarti” significa “Renzi me l’ha chiesto”. Ma se è un Carrai a ricordartelo, puoi sentire tutto il peso di “poteri molto forti” sulle tue spalle (e dire che l’ad di Unicredit non è esattamente un “potere debole”). E, come riferisce Il Fatto, “sarà un caso, ma dopo il no all’acquisto della banca aretina la legge sui crediti fiscali – che interessava anche Unicredit – si arenò” in Parlamento. Senza spiegazioni. Risultato: un danno da 300 milioni per la prima banca italiana. Diciamo che che quelli del “giglio magico” sanno come farsi capire…

Gli ultimi due giorni di audizioni in Commissione stanno insomma producendo un risultato opposto a quello voluto da Renzi quando ha preteso l’istituzione della Commissione stessa. Doveva servire a addossare ad Ignazio Visco e alla Banca d’Italia i fallimenti di un buon numero di banche italiane, sta affossando questa banda di provincia investita di poteri troppo grandi per i loro circuiti neuronali.

Basta guardare la preoccupazione con cui il direttore di Repubblica, stamattina, arriva a chiedere alla Boschi di “farsi da parte per salvare i Dem”. Troppo poco e troppo tardi, perché è mediaticamente impossibile – dopo quattro anni di ammiccamenti e tacchi a spillo – disgiungere l’immagine della signorina Meb da quella di Renzi e dunque dal capo assoluto del Pd.

L’effetto politico è dunque evidente a tutti. I sondaggi vedono il Pd crollare di un punto a settimana. Per il 4 marzo – probabile data delle elezioni – rischia di finire addirittura sotto il 15%, il che finirebbe per eliminare l’asse portante del sistema politico negli ultimi dieci anni.

E’ una buona notizia.

L'ITALIA VA A FARE LA SPESA IN NIGER(AL GUINZAGLIO DELLA FRANCIA)

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Già nello scorso giugno tramite l'ambasciata italiana a Niamey si vociferava di un possibile intervento"umanitario"congiunto in Niger assieme alla Francia(madn il-sahel-e-i-suoi-occupanti ),e l'annuncio di Gentiloni di una missione vera e propria a fianco proprio dei francesi per i prossimi tempi è stato messo un poco all'angolo causa il periodo natalizio.
D'altronde la Francia già colonizzatrice dello stato del Sahel ha sia l'onere che l'onore di partecipare con più soldi dei 23 miliardi di $ già stanziati per l'operazione,ma l'Italia non ha voluto mancare all'affare che porteranno appalti milionari nonché i soliti quattrini sporchi con la vendita di armi alla luce del sole e non solo sotto traccia.
Nei due redazionali di Senza Soste(cosa-va-litalia-niger e niger-ci-gli-scafisti-ce-luranio )le cavalleresche motivazione di tale intervento:la crisi idrica,che però colpisce tutto il Sahel,che negli ultimi tempi è sempre più drammatica e che con l'invio di un contingente di 400-500 soldati d'incanto si risolverà.
Inoltre ci sarà da fermare in loco un flusso migratorio e la presenza di numerosi scafisti in zona(in Austria il mare è più vicino)in un Niger sempre più in balia dei miliziani del daesh che ne combinano di ogni colore anche se le notizie qui da noi latitano in questo senso.
Ma sono invero le ricche risorse naturali,uranio in primis che interessa in particolar modo alle centrali nucleari francesi,che davvero interessano ai nuovi colonizzatori e sfruttatori di un angolo d'Africa tre i più poveri ed affamati ma con ricchezze che nemmeno sfioreranno questa gente che fanno molto gola un po più a nord.

Cosa va a fare l’Italia in Niger?

Gentiloni ha annunciato alla vigilia del Natale, in sordina ed in mezzo alla distrazione dei regali natalizi, l'intervento in Niger. Ma la reazione politica al momento non è stata incisiva e si perde nella solita retorica dell'intervento umanitario per stabilizzare il paese. Ma la verità è un'altra

L’annuncio dell’intervento italiano in Niger, fatto da Gentiloni su una portaerei, ha colto di sorpresa solo gli osservatori più distratti. La scorsa estate, nel periodo del giro di vite Minniti sugli sbarchi dalla Libia, il governo del Niger era già stato accolto a palazzo Chigi. Motivo ufficiale: una serie di discussioni, e di richieste di finanziamento da parte del paese africano, legate alla questione del contenimento dei flussi migratori. Minniti infatti, all’epoca (e non solo), sosteneva che le frontiere della Ue coincidessero con la Libia e che, proprio per quello, rafforzare la vigilanza in Niger avrebbe significato un alleggerimento dei problemi alla frontiera libica.

Naturalmente l’ovvietà di un Niger devastato dalle crisi idriche (si veda https://reliefweb.int/report/world/water-shocks-wetlands-and-human-migration-sahel ) e quindi produttore di immigrazione di massa in fuga verso l’Europa, è ufficialmente negata. Perchè per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza. Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger vediamo che non comprende il solo paese in questione. Ma anche tutta la zona dello Sahel, la grande fascia subsahariana che va da ovest (Mauritania) a est (Eritrea), ne è coinvolta. E spesso le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle di quella che viene genericamente chiamata guerriglia islamica. E’ il caso, appunto del Niger e del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013.  Entrambi i paesi sono sotto, diciamo, protezione francese. Il che significa che Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, anche l’Italia interviene su quel terreno, storicamente francese di intervento nell’Africa subsahariana. Vuoi perché la Francia ha bisogno di alleati sul campo, per una operazione militare complessa, vuoi perchè, dopo una serie di frizioni economiche tra i due paesi l’estate scorsa, gli interessi in Europa e in Libia potrebbero, se l’Italia sa sfruttare l’occasione, farsi convergenti.

L’Italia annuncia l’intervento dopo che, in molta stampa francofona africana, la situazione nel Niger è stata definita come vicina a un significativo punto di rottura. I motivi ufficiali dell’intervento sono due e c’è anche un terzo da non trascurare. Il primo è quello di contenere significativamente la guerriglia islamista nel Niger, e vedremo quale sarà il ruolo dei 400-450 italiani inviati in quel paese, il secondo è quello di respingere le migrazioni, lì causate dalla crisi dell’acqua, con il solito trucchetto retorico della lotta ai trafficanti di uomini (quelli, come in Libia, che non si sono trasformati in “manager” per campo di concentramento per migranti). Poi c’è il terzo, tenuto in discrezione: il Niger ha appena ottenuto un finanziamento, dalla conferenza parigina di donatori, della bella somma di 23 miliardi di dollari (http://afrique.lepoint.fr/economie/niger-23-milliards-de-dollars-pour-la-croissance-et-la-securite-21-12-2017-2181816_2258.php ). Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, allo “sviluppo e alla sicurezza”, delle dimensioni che Renzi si sognerebbe la notte, i cui appalti sono destinati a imprese europee. Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo. Per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”. Certo, c’è da chiedersi quanto le infrastrutture progettate in quel paese risolvano o aggravino la grande crisi idrica, e quella sociale correlata. Ma è una domanda fuori portata per le forze politiche italiane che devono ancora vedere come capitalizzare elettoralmente -ovvero minimizzando o sparando propaganda contro qualcuno- tutta questa vicenda.

Insomma, ad essere cinici con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura . Dal punto di vista strategico-militare, quello dei rapporti con la Francia e del contenimento dell’immigrazione, i problemi sembrano esserci. Come testimonia un analista, sicuramente di destra ma intellettualmente lucido: Gianandrea Gaiani di Analisi Difesa http://www.analisidifesa.it/2017/12/luci-e-ombre-sulla-missione-italiana-in-niger/

Dal punto di vista di Gaiani, nonostante lo sforzo italiano (per noi degno di miglior causa), non è nè garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, nè il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. Pare garantito, aggiungiamo noi, il canale degli appalti in Niger dopo la conferenza dei donatori e, forse, quello è lo scopo che ha messo d’accordo tutti nel governo. Ora si tratta di capire quale sarà l’iter istituzionale della missione. Anche se, da tempo, l’invio di truppe, specie con le nuove leggi in materia, segue sempre meno la strada della discussione in parlamento. E le forze politiche?

Dando per naturale l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa, il Pd è un partito delle aziende militari e dei grandi appalti, il centrodestra pure mentre per il movimento 5 stelle, portatore di una visione geopolitica a intermittenza, il Niger sarà occasione di scontro elettorale solo se trasformabile in uno spot di qualsiasi natura. Scontata l’opposizione di Potere al Popolo, resta il partito del presidente del senato Grasso. Il quale, recentemente, in un seminario Nato, sulla geopolitica, a Roma ha dichiarato che “bisogna garantire futuro in territori instabili”. Il sospetto è che la stabilità, in queste retoriche, passi sempre dalla punta di qualche baionetta. Legata a qualche appalto. Umanitario, ci mancherebbe.

redazione, 26 dicembre2017

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Ma in Niger ci sono gli scafisti o c’è l’uranio?

La nostra seconda puntata sui motivi della spedizione italiana in Niger. Dopo i succosi 23 miliardi di appalti oggi è la volta dell'uranio. Mentre la stampa italiana parla di scafisti

Il bello del nostro paese, si sa, è il più creativo e ardito sprezzo del ridicolo. In riferimento alla progettata spedizione in Niger, Il Messaggero ha titolato, in prima pagina, parlando di missione contro gli scafisti. Ora, basterebbe dare un’occhiata, anche pigra, alla cartina geografica per notare come, oltre a non avere alcun sbocco al mare, il Niger dista dalle prime spiagge dell’oceano nell’ordine, minimo, del migliaio di chilometri. Un po’ lontano affinché i nativi, che abitano la vasta fascia subsahariana dell’Africa, possano addestrarsi regolamente all’arte dello scafismo. Allo stesso tempo pensare che esistano organizzazioni di “scafisti”, per usare questo linguaggio giornalistico fuori dal tempo e dallo spazio, così ramificate da comandare in Niger è non avere chiarissimo come funziona il mondo oltre i confini tra Piazza di Spagna e il Quirinale (nel cui mezzo, in via del Tritone, c’è la sede del Messaggero a Roma). I rapporti tra clan, e all’interno di essi, infatti, nella lunghissima catena di relazioni ogni tipo che passa tra la Libia e il Niger, sono estremamente complessi, mobili e instabili. Immaginare una spectre scafista che va dalle coste della Libia al Niger, e che comanda il tutto come una piovra fa con i suoi tentacoli, è materia buona per le trasmissioni di Formigli. Dove magari un qualche sodale di Grasso ammette sì che in Niger vi è un emergenza sicurezza che va coniugata, ci mancherebbe altro, con la solidarietà.

Certo, la parola scafisti vende come titolo e la parola Niger illumina la mente di Minniti, che immagina una sorta di Vallo Africano ai confini della Libia, ma non è per questi temi che, in realtà, ci si mobilita nell’area subsahariana di quel continente. Anche perché contribuire a “regolare” i flussi migratori di un paese, il Niger, che ha una estensione geografica quattro volte superiore all’Italia con l’invio di 450 soldati, e nei momenti di picco, appare un’impresa più bizzarra che impossibile. Oltretutto queste missioni sono costose, non a caso la Francia ha chiesto partecipazione all’Italia, e quindi appare chiaro che le truppe italiane non sono lì, salvo magari l’arresto di qualche figura ritenuta di spicco in un qualche traffico, per dare la caccia agli scafisti in un paese molto lontanto da qualsiasi sbocco a mare.

Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti da noi segnalati che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare. Qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio. Ora, nessuno scopre oggi l’importanza del Niger nella produzione d’uranio. Tanto che nel 2002, nella fretta di accreditare prove sulla costruzione di centrali nucleari irakene grazie all’uranio del paese africano, congiuntamente i servizi del governo italiano e di quello americano costruirono vere e proprie fake news in materia in uno scandalo detto Nigergate (http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/esteri/iraq69/sismicia/sismicia.html )

In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta. E in Niger vi è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito. Proprio il pericolosissimo materiale per usi civili, di diverso tipo, e militari che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afganistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile). Ma in Niger se si scrive uranio si legge Areva, una multinazione francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défénse. Il campo si fa quindi più chiaro: lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà, è in mano francese. Lasciamo agli storici dello sviluppo la categoria da usare in questo caso ma a noi questa dimensione post-coloniale sembra del tutto coloniale.

Come ricorda questo articolo, l’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese (https://www.pambazuka.org/governance/french-nuclear-power-fed-uranium-niger ). E’ evidente quindi che lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia. Ma anche esterno, perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (calo ma al 13,9%).  Si capisce quindi che gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news alla matriciana, e che l’uranio c’entra molto di più in questo intervento italiano, a supporto della Francia, nell’Africa subsahariana. Certo, visto che l’Italia, come ogni paese Ue, non è autosufficiente sul piano energetico, l’aiuto ai cugini forti francesi potrebbe prevedere anche delle facilitazioni nell’acquisto di questa preziosa merce.

Veniano però alle questioni che sembrano imporre ai francesi una seria ristrutturazione economico-politica dell’area e che vanno oltretutto oltre la forte, almeno stimata come tale, presenza nell’area della guerriglia islamista di vario tipo. Così si capisce a cosa gli italiani vanno a supporto.

1) il 2011 è stato un anno cruciale per Areva, e quindi la Francia, nel settore. Per due sostanziali motivi. Il primo si chiama Fukushima, che ha imposto non solo una crisi ma anche una seria ristrutturazione nel settore dei reattori nucleari. Certo ci sarebbe molto da dire su un paese, l’Italia, che accetta il risultato del referendum contro il nucleare a e poi va a fare avventure coloniali per garantire il nucleare nel mondo. Ma andiamo oltre: il 2011 è anche l’anno dell’uranium-gate del Niger, questione che lega Areva alla corruzione sul posto, recentemente riassunto dalla Bbc (http://www.bbc.com/news/world-africa-39744861 ). Ma non finisce qui, poche settimane fa in seguito agli scandali del 2011 lo stesso governo francese perquisisce gli uffici di Areva ( https://www.usinenouvelle.com/article/perquisition-a-areva-sur-un-rachat-d-uranium-a-perte-au-niger.N619843 ). Motivo: una parte significativa dei fondi girati in quella storia si suppone sia finita a ambienti russo-libanesi. Morale: le ristrutturazioni del settore e le vicende di tangenti Areva-Nigeria erano scappate di mano dal controllo francese. Ma se fossero solo questioni interne non ci sarebbe da mandare truppe in Africa. Invece, piuttosto, passiamo all’altro punto.

2) Prima di tutto c’è da contrastare, da parte dei francesi, la presenza cinese nel luogo (si veda questo articolo di due anni fa http://www.businessinsider.com/niger-uranium-mine-and-nuclear-china-2015-10?IR=T ) . E per questo, visto che in Africa i cinesi non esistono sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe. Con l’aiuto dell’Italia. E in questo contesto la guerriglia (come già accaduto con la sollevazione dei tuareg oltre dieci anni fa che minacciava le miniere di uranio https://seekingalpha.com/article/41746-tuareg-rebels-threaten-uranium-mining-in-niger ) si è fatta sentire. Una guerriglia definita islamista che aveva già colpito siti francesi nel 2013 (https://www.theguardian.com/world/2013/may/23/niger-bomb-army-french-uranium ). Si parla di una guerriglia per la quale oggi, secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata ( http://www.cameroonintelligencereport.com/niger-the-uranium-war-is-only-just-getting-started/ ). Una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia, e l’Italia, sono sul campo. La prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto. Cercando di ricavare appalti, come abbiamo detto nel precedente articolo, oppure una posizione privilegiata nella produzione di energia (e magari arrestando qualche “scafista” per la gioia dell’opinione pubblica). Ma chi sono questi gruppi islamisti? Secondo il Guardian, dopo un articolo a seguito dell’uccisione di quattro soldati americani nell’area, parla di gruppi esistenti, in grado di colpire, ma difficili da identificare “in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta ( https://www.theguardian.com/world/2017/oct/15/sahel-niger-us-special-forces-islamists ). Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, commerciale e militare, e che l’Italia va a fornire supporto.

3) Insomma, il Niger è un paese chiave per Areva, quindi la Francia, nel quale vanno rimessi ordine, e garanzia dei profitti. Al resto ci penserà la retorica dei media. Con l’Italia che cerca un ruolo. In una zona di guerra che ha mostrato già le sue forti criticità. Ma c’è un ultimo punto che Areva, e con lei la Francia, cerca. Quello che riguarda la propria stabilizzazione sul mercato finanziario legato all’uranio dopo, magari aver trovato, quella geopolitica. Infatti, è notizia recente quella che vuole il mercato dei servizi finanziari legati all’uranio come sconvolto dal comportamento del Kazakistan, paese leader della produzione mondiale di urano. Infatti, secondo gli analisti del settore, il Kazakistan ha tirato un vero e proprio siluro sul mercato dei servizi finanziari all’uranio (http://www.afr.com/business/energy/kazakhstan-puts-a-rocket-under-uranium-markets-20171204-gzyr8s ). Motivo? Annunciando il calo secco della produzione ha alimentato la creescita dell’azionario legato all’uranio: il cronico eccesso di fornitora dell’uranio teneva il prezzo di questa materia prima troppo basso per le esigenze finanziarie dei produttori e del mercato. Areva, in previsione di questa mossa aveva, poche settimane prima, tagliato produzione e personale in Niger (https://www.reuters.com/article/areva-niger/arevas-niger-uranium-mines-to-cut-staff-slash-production-union-idUSL8N1MM3TC ). E’ evidente però che la stabilità sul campo nel Niger, oggi, non è paragonabile a quella del Kazakistan per cui bisogna correre ai ripari. Come Areva, come Francia e come Italia a supporto. Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista, cosa si vuole insomma.

C’è poi un punto realmente politico in tutta questa storia. Una tecnologia, altamente pericolosa, come il nucleare, sul quale ricordiamo l’Italia si è già espressa, è occasione di guerre coloniali come nel passato. In zone flagellate dalla fame e dall’inquinamento di ogni tipo. E si tratta di guerre coloniali che si candidano, a vergogna di un Gentiloni disposto a tutto pur di restare dove è, a devastare ulteriormente l’africa subsahariana. Infine, non si è capito l’iter parlamentare di tutta questa vicenda. Presto Mattarella, quello dell’uranio impoverito, scioglierà le camere. Ci sarà un voto? Ci sarà qualcosa? Intanto, per la stampa italiana, in Niger ci sono gli scafisti.

redazione, 27 dicembre 2017

mercoledì 27 dicembre 2017

L'ONDA LUNGA DELLE CRISI DEI MALLS AMERICANI


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Gli Stati Uniti sono sempre stati nel bene e nel male un modello da seguire in vari ambiti che contraddistinguono la nostra vita,ed il declino dei giganteschi malls d'oltreoceano dopo il boom degli anni novanta che stanno chiudendo uno dietro l'altro e famose catene che stanno facendo tagli netti nei loro negozi e alle loro maestranze sono esempi tangibili di questo fallimento.
Nel primo articolo(contropiano usa-tramonta-lera-dei-centri-commerciali )si parla proprio degli Usa e dei dati impietosi delle perdite di vendita dei grandi centri commerciali dove la popolazione amava trascorrere ore perdendosi in queste cattedrali del consumismo e che lentamente stanno subendo gli effetti degli investimenti sbagliati,della crisi 2008 e dell'avvento dello shopping on-line che invece ha percentuali in netto rialzo(grazie anche a tassazioni non ancora ben delineate e condizioni lavorative più che pessime...sia in Usa che in Europa).
Nel secondo(contropiano commercio-flop-delle-liberalizzazioni-calo-del-20 )altri dati in netto calo sempre nei centri commerciali italiani colpiti dalle liberalizzazioni selvagge e del conseguente sfruttamento al limite del sopportabile da parte dei dipendenti,il tutto certificato dai numeri forniti sia da sindacati che datori di lavoro e confermati dai riscontri dei consumatori.
Dicevo un modello Usa che negli anni ottanta e novanta sponsorizzava gli immensi centri commerciali mentre dal 2000,con le scuse e gli alibi della violenza nelle strade e la praticità e comodità degli acquisti via internet hanno spostato la massa dei consumatori finali a preferire quest'ultima via per acquistare di tutto e di più.
Un modo di pensare che sta prendendo sempre più piede da noi e che bisogna studiare attentamente per evitare di trovarci anche qui a gambe all'aria.

Usa, tramonta l’era dei centri commerciali.

di  Redazione Contropiano 
A imitare gli americani ci si rimette sempre… La campagna elettorale e di lotta di #poterealpopolo è cominciata ieri con una serie di presidi e volantinaggi davanti a centri commerciali di molte città italiane. Una protesta contro il lavoro festivo, sottopagato come quello feriale ma con in più la violenza inaudita contro la possibilità di una vita affettiva normale per chi lì dentro ci deve lavorare.

Inutile anche aggiungere che, agli effetti del Pil complessivo del paese (produzione di ricchezza), le aperture domenicali e festive degli esercizi commerciali non aggiunge nulla. La domanda di beni non cresce se i negozi sono sempre aperti, ma se il reddito medio aumenta. Cosa che non avviene da oltre un decennio, nel migliore dei casi, mentre per chi fa lavoro dipendente continua a diminuire.

Ma il “modello di distribuzione” rappresentato dai centri commerciali, sviluppatosi come una mestatasi negli ultimi tre decenni per favorire soprattutto i costruttori – alle prese con una domanda di immobili per abitazione in continua frenata – è già in crisi, specie là dove era stato creato: gli Stati Uniti.

Questo lancio dell’agenzia di stampa AdnKronos suona come un autentico de profundis…

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Lo shopping online miete una vittima ingombrante: i grandi centri commerciali americani. L’ascesa dell’e-commerce sta condannando a morte i famosi malls statunitensi, trasformandoli da motori del commercio e agorà di dispersive periferie, in scheletri architettonici.

Simboli del repertorio iconografico Usa al pari dei fast food, cattedrali laiche dove recarsi con rituale sacralità per acquisti, ristoranti, ritocco unghie e via dicendo, facendosi avvolgere dall’opulenza kitch del consumismo made in Usa, dove tutto è grande, seriale e l’offerta debordante, i centri commerciali sono in lento, inesorabile declino.

Secondo una ricerca del Georgia Tech, un terzo dei circa 1.200 shopping center del nord America è morto o sta morendo. Complice la crisi dei subprime del 2008, che ha spesso lasciato senza un tetto quella fascia di popolazione che nei malls amava trascorrere i fine settimana, i centri commerciali hanno iniziato a spopolarsi.

Ma sarebbe stato il commercio online a sferrare il colpo di grazia. Sono oltre 20 grandi catene commerciali che hanno presentato istanza di bancarotta quest’anno. E chi non chiude battenti è alle prese con severe ristrutturazioni: dal colosso Macy’s, che con il suo Babbo Natale è un simbolo dell’iconografia natalizia americana, che ha avviato un piano di chiusura di 100 negozi entro il 2018, il 15% del totale, a J.C. Penney, storico marchio fondato nel 1902 in una cittadina del Wyoming che abbasserà le saracinesche di 138 esercizi; all’ottocentesca Sears che ha appena annunciato lo stop di 63 negozi.

Un fenomeno quello del declino degli shopping center documentato anche in un’insolita serie pubblicata su Youtube finita sulle pagine del ‘New York Time’: ‘The dead mall series’, nostalgico documentario in giro per i centri commerciali depressi o dismessi dell’East cost.

Per alcuni analisti tuttavia i numeri dell’e-commerce possono giustificare solo in parte il collasso dei malls Usa. Con una crescita dell’11% delle vendite totali nel 2016 (con Amazon in testa) per un valore totale pari a 394,86 mld di dollari, +15,6% rispetto al 2015 (il livello più alto dal picco del +16,5% del 2013), lo shopping online non sarebbe la sola causa del declino che andrebbe bensì ricercato nei forti indebitamenti contratti dai gruppi, negli investimenti sbagliati o rischiosi fatti dopo il boom degli anni Novanta, e la crisi e l’evoluzione tecnologica ne avrebbero solo accelerato il tramonto.

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Commercio: il flop delle liberalizzazioni, calo del 20% …..
di  USB   
COMUNICATO STAMPA

Commercio: il flop delle liberalizzazioni, calo del 20% sugli acquisti

USB, le associazioni datoriali e dei consumatori ci danno ragione

Il sacrificio dei tanti lavoratori del commercio, obbligati a trascorrere le feste nei negozi della Capitale, con turni massacranti e spesso senza le maggiorazioni contrattuali, è stato vano. Un Natale da dimenticare per i negozianti romani che lamentano un calo delle vendite medio intorno al 20 per cento. Uno shopping sottotono, dove si sono scartati sotto l’albero soprattutto cibo e libri, e dove si sono spesi mediamente solo 100 euro pro-capite per i regali.

“Non siamo affatto sorpresi, le liberalizzazioni non hanno affatto spinto gli acquisti né tantomeno favorito l’occupazione. La contrazione dei consumi è data dallo scarso reddito dei cittadini, e non saranno di certo i negozi e i centri commerciali sempre aperti a migliorare la situazione”, dichiara Francesco Iacovone, dell’USB Lavoro Privato.

“Quanto da noi sostenuto all’indomani del decreto Salva Italia del governo Monti – prosegue il rappresentante USB – è oggi confermato dal presidente di Federmoda Confcommercio Massimiliano De Toma, dal presidente della Confesercenti Valter Giammaria, dalla Cna Commercio, dalla Coldiretti e dal Codacons. Associazioni che di certo non tutelano i laoratori, ma osservano preoccupate il trend degli acquisti ”.

“Questa deriva ultraliberista è solo un danno per le donne e gli uomini che vivono di un lavoro sempre più disumanizzante, le cui vite sociali vengono sacrificate sull’altare di uno shopping in crollo e sulle infauste imposizioni di governi e padroni in crisi di politiche industriali e commerciali”, conclude Iacovone.

Roma – mercoledì, 27 dicembre 2017

USB Lavoro Privato

martedì 26 dicembre 2017

WELFARE E PENSIONI ED ASSICURAZIONI INTEGRATIVE(PRIVATE)


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Si è parlato spesso in questi giorni che non sono di festa per tutti del lavoro festivo in parecchi luoghi soprattutto per quanto riguarda la grande distribuzione che da quando è entrata in vigore la legge Bersani sulle liberalizzazioni dei giorni di apertura e degli orari è stata la libertà ma dei padroni a stravolgere turni di lavoro pagando meno la gente.
Nell'articolo preso da Contropiano(liberi-disuguali )un'analisi non solo sulla strada intrapresa per penalizzare intere categorie di lavoratori assieme alle loro famiglie ma un ben più grande programma studiato a tavolino per strappare sempre più stipendio violentando i diritti alla pensione e alla sanità pubblica favorendo polizze previdenziali ed assicurative private.
Complici i sindacati confederali assieme ai partiti(Ds prima e Pd ora),alle banche e alle assicurazioni ecco che da anni i sindacalisti si sono trasformati in broker offrendo adesioni a volte obbligatorie altre no per rosicchiare sempre più denaro dalle già scarse buste paga.
Quindi sono saltate fuori come funghi parecchi fondi previdenziali integrativi privati e fondi sanitari con trattenute messe nero su bianco quando prendi lo stipendio,con la facoltà di vedere decurtato il Tfr o aderire a parte a tutte queste categorie che fanno parte della white economy,una branca del settore terziario in forte aumento visto che lo Stato su pensioni e sanità(oltre che scuola,trasporto pubblico ed altri servizi)taglia sempre di più dando una grossa mano a banche e assicurazioni private.
D'altronde proprio queste ultime assieme ai sindacati e partiti politici stanno mettendo in piedi da anni imperi finanziari ed immobiliari basati sulla pelle dei lavori col bene tacito dei vari governi sempre desiderosi di praticare tagli lineari sui servizi.
Si richiamano nomi di vecchi politici in nuove salse(madn liberi-da-cosa-e-uguali-chi )e il solito gioco sporco dei sindacati che non sono solo immobili ed incapaci al dialogo con la classe politica ma che anzi sono servili e solidali con loro e non con la classe operaia.
Come detto in molti posti lavorativi le dirigenze dei posti di lavoro hanno da fare molta autocritica,ma sono soprattutto i sindacati che la devono fare perché in una decina di anni praticamente le domeniche sono giorni normali di lavoro ed i festivi pure solo con piccole percentuali d'incentivo,ma notizie come quelle che avendo la tessera della Cgil-Cisl-Uil potrai avere lo sconto sulla spesa ti fanno davvero cadere le palle.

Liberi e disuguali: il modello sociale di Grasso, Bersani, D’Alema & co.

di  Sergio Scorza 
A sinistra è sempre tutto un coro “contro il populismo”. Ma poi vedi “Ricchi e poveri” di Gad Lerner – in onda ogni domenica in seconda serata su Rai3 – e ti ricordi che c’è un populismo tradizionalmente cattolico che, periodicamente, si riaffaccia e che è tutto incentrato su carità, pietismo e solidarietà compassionevole.

Lerner, si sa, tempo fa ha lasciato il PD e si è messo subito a fare il narratore della nuova ditta Bersani, D’Alema, Grasso & co. #LiberiedUguali, anche per guadagnarsi lo stipendio Rai. E così ci racconta di un mondo in cui ti salveranno dei facoltosi benefattori, dei ricchi buonissimi che dispensano, senza sosta, elargizioni caritatevoli e generosa beneficenza. E’ un classico che funziona sempre e che ora viene contrapposto al rude solipsismo ultraliberista berlusconian-renziano di questi anni da parte chi si candida a ”ricostruire la sinistra”, finita in frantumi proprio sotto i colpi del nemico giurato Matteo Renzi.

E con cosa? Ma con il solito vecchio rassicurante “popolarismo cattolico” traslato, però, nella nuova fase: quella in cui la crisi di un capitalismo messo in ginocchio da una serie infinita di bolle finanziarie e dall’anarchia del mercato globale, ha polverizzato i vecchi margini redistributivi. Se a ciò aggiungi che, in ambito europeo, la scelta letale di stare dentro i rigidi vincoli di bilancio dettati dalla #UE impedisce di approntare qualsiasi cura – ovvero, qualsiasi intervento degli Stati in grado di rilanciare ciò che resta dello stato sociale e di attenuare, in qualche modo ed in una qualche misura, la cronica disoccupazione a due cifre – ecco che anche qualsiasi ipotesi vagamente neokeynesiana va bellamente a farsi benedire.

I nostri lo sanno bene e, tuttavia, gli tocca continuare a vagheggiare quell’immaginario onde mantener vivo, in qualche modo, almeno un qualche ancoraggio alla tradizione delle “grandi socialdemocrazie europee”. Il tutto opportunamente depurato dalla novecentesca lotta di classe e senza alcun riferimento ai meccanismi che stanno concentrando immense ricchezze nelle mani di pochissimi mentre si allarga, a dismisura, l’area della povertà.

Il “nuovo welfare” che ci viene presentato e propinato, è un deciso ritorno al passato: aiuti caritatevoli ai vecchi e nuovi “poveri” come propagandistica faccia soft di un modello molto più hard che stanno perseguendo, da parecchi anni, sotto la spinta di enormi interessi privati. Questa pelosa ed assai interessata narrazione serve, nella migliore delle tradizioni missionarie, quale copertura ideologica della vera operazione che stanno facendo alle spalle di milioni di lavoratori e cittadini: tutti coloro che non saranno riconosciuti come “poveri”, se va in porto l’attuale processo di destrutturazione e privatizzazione del welfare, dovranno ricorrere alle assicurazioni obbligatorie di fascistissima memoria.

Non è un caso, infatti, se da qualche tempo, i grandi gruppi assicurativi, stanno sgomitando tra loro per offrire comodi e costosissimi pacchetti tutto compreso(previdenza, sanità e tanto altro) attraverso una frenetica attività di lobbing su partiti e sindacati nonché mediante delle mirate e martellanti campagne pubblicitarie.

Il “nuovo welfare” a cui stanno lavorando alacremente politici, sindacalisti ed accademici in quota ai principali partiti, è un modello in cui diritti e tutele dipenderanno, in un prossimo futuro ed in misura assai variabile, dal lavoro che fai e dai contributi che avrai versato. E’ un modello previdenziale neocorporativo basato sull’idea di affidare, prima o poi, unicamente ai gestori privati servizi quali pensioni (attraverso i fondi pensione privati) e sanità (attraverso i fondi sanitari integrativi), ribattezzata per l’occasione “white economy”.

Ma è un modello destinato ad allargare, ulteriormente e drammaticamente, le attuali già enormi disuguaglianze ed iniquità e che non avrà più nulla in comune, né con il Welfare universale e solidaristico che abbiamo fin qui conosciuto, né, tanto meno, con quel “Welfare dei beni comuni” auspicato da alcuni economisti e che prevede reddito minimo garantito, salario minimo e condivisione dei beni comuni.

Una lavoratrice e delegata di base, proprio l’altro ieri, mi segnalava l’ennesimo di una lunga serie di episodi che vedono sindacalisti offrire sempre più insistentemente e, per giunta, in orario di lavoro, “vantaggiosissime” polizze assicurative. Ecco come le organizzazioni sindacali “ concertative”, in crisi di ruolo, d’identità e di consenso, si sono, da tempo, riposizionate: tirando la volata alle assicurazioni mediante il nuovo “welfare aziendale” basato sulla decurtazione di quote di salario in cambio di servizi offerti proprio dalle assicurazioni private. Trump, in questo senso, ci appare come un novellino.

“Sirio, Espero, Perseo”, sono questi i nomi scelti per dar vita ai fondi pensionistici integrativi dei dipendenti pubblici. Dietro i nomi di stelle e costellazioni che evocano immagini celestiali, si nasconde l’affaire del secolo ordito e messo in atto sulla pelle dei lavoratori, con la complicità esplicita di CGIL, CISL, UIL . Oppure c’è il misterioso “Metasalute” laddove “meta“ non si capisce se stia per un “oltre” metafisico, oppure, per un immaginario punto d’arrivo. E’ il fondo sanitario integrativo chiuso che, con l’avallo anche della FIOM, è già stato inserito nel contratto del settore metalmeccanico.

I “sindacalisti” della previdenza pubblica saranno stati sicuramente in prima fila nella recente manifestazione nazionale del 2 dicembre scorso “in difesa dei pensionati” organizzata dalla CGIL di Susanna Camusso e tuttavia sono gli stessi che stanno spianando la strada, da parecchi anni, alla previdenza integrativa e privata sedendo molto comodamente e con buone retribuzioni, nei Consigli d’Amministrazione dei fondi previdenziali chiusi. Eppure il tentativo di scippare il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) dei dipendenti del settore privato e pubblico per costituire i fondi integrativi e dare così vita alla seconda gamba della previdenza non gli è riuscito del tutto, anche e sopratutto per merito della opposizione e della buona informazione sul tema prodotti dai militanti del sindacalismo conflittuale.

Ed è così che i sindacalisti “concertativi” si sono direttamente trasformati in brokers assicurativi ferocemente determinati a piazzare polizze pensionistiche e sanitarie per conto dei grandi gruppi assicurativi molto probabilmente intascando percentuali sulle vendite.

Ecco qual è il modello sociale di Grasso, Bersani, D’Alema e soci, che altro non sono che l’espressione politica di questi interessi. Un incessante gioco di sponda tra partiti, sindacati banche ed assicurazioni che va avanti da almeno due decenni e che ha sacrificato al profitto ed ai grandi interessi finanziari, i bisogni ed i diritti di ciò che fu un tempo il blocco sociale di riferimento delle ex sinistre politiche e sindacali. In fondo, ci basta ricordare che sono sempre quelli di “abbiamo una banca”, solo che stavolta, le banche, si sono presi loro.

lunedì 25 dicembre 2017

EUTANASIA DI UNA LEGISLATURA


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Ormai il discorso sullo ius soli che ha animato e caratterizzato le ultime schermaglie tra il centrodestra e il Pd e la sinistra non farà più parte di questa legislatura destinata alla fine tra pochi giorni con lo scioglimento delle camere.
Ed è stata proprio l'aula del Senato complici anche le vergognose assenze di parecchi senatori favorevoli alla cittadinanza italiana per gli stranieri nati qui a mettere la pietra tombale su questo tema(vedi anche:madn rigurgiti e grugniti ).
Anche perché ad oggi è ridicolo solamente pensare ad un Pd vincente con una destra favorita e che naturalmente non riproporrebbe più questa battaglia di civismo,cosa che neppure i pentastellati faranno visto che come molti temi legati alla società stanno con due piedi nel settore del centrodestra.
L'articolo proposto(il messaggero ius_soli )riporta la cronaca e le polemiche a distanza tra il portavoce berlusconiano dei senatori Romani e il Presidente Grasso oltre che il risentimento di varia parte del cattolicesimo italiano.

Ius soli, polemiche sulle assenze in Senato. Avvenire: «Politici ignavi»

Lo ius soli non ce l'ha fatta a diventare legge (troppe le assenze ieri in aula), ma in Senato si consuma ugualmente un duro scontro tra Forza Italia e il presidente Pietro Grasso. Il gruppo dei berlusconiani contesta a Grasso la scelta di aver inserito il disegno di legge nel calendario dei lavori dell'aula: una mossa, sostengono i parlamentari di Forza Italia, per tentare un blitz prima dello scioglimento delle Camere . Il presidente dei senatori berlusconiani Paolo Romani, in una nota infuocata, dice che mettere in calendario «un tema controverso e discusso come la radicale modifica delle procedure per ottenere la cittadinanza italiana al termine di una seduta di fine legislatura è prima di tutto da irresponsabili».

Ma le parole più dure arrivano quando Romani dice che Grasso, fresco leader della sinistra, «tramutando la propria doverosa terzietà in estremismo di parte, ha voluto buttare in pasto alle polemiche di fine anno il diritto fondamentale di uno Stato, la cittadinanza». In ogni caso Forza Italia, promette il capogruppo, si opporrà allo ius soli anche nella prossima legislatura. Chiamato direttamente in causa, Grasso si difende sostenendo di non aver fatto nulla per far esaminare la legge nella seduta incriminata: «Come il presidente Romani sa bene - spiega il numero uno di Palazzo Madama - il calendario dei lavori è stabilito prima in capigruppo e poi confermato da un voto dell'aula. Nessun intervento del presidente ha alterato quanto stabilito dalla sovranità dell'assemblea». Grasso rivendica però di essere un sostenitore dello ius soli. E promette che ripresenterà un disegno di legge sulla cittadinanza ai figli degli immigrati «il primo giorno della prossima legislatura».

«Politica in fuga» è il titolo del fondi pubblicato in prima pagina da "Avvenire", il quotidiano dei vescovi, a firma del direttore Marco Tarquinio sull'affossamento al Senato per mancanza di numero legare della legge sullo ius soli. «Non hanno nemmeno fatto lo sforzo di schierarsi e votare a viso aperto per dire "sì" o "no" allo ius culturae e allo ius soli temperato. Hanno fatto mancare il numero legale in aula: appena 116 senatori presenti, pochi per procedere, abbastanza per affossare una legge attesa da sedici anni e invocata come urgente dalla società civile, associazionismo cattolico in prima fila, da almeno otto», scrive Tarquinio.

«Far mancare il numero legale è scelta da politica in fuga. Ieri in fuga dall'ultima responsabilità di legislatura. Una mossa da ignavi e, al tempo stesso, rivelatrice - prosegue -. Rivelatrice di una ostinata mancanza di comprensione: della posta in gioco con la nuova legge sulla cittadinanza in un Paese che invecchia, non sostiene come merita la famiglia e allontana tanti suoi figli. E di una ostentata mancanza di rispetto: per i giovani italiani con genitori stranieri che alcuni politici e opinionisti, pronti ad aizzare sentimenti e risentimenti, vogliono risospingere ai margini della comunità nazionale e raccontano come alieni. Che tristezza. Temevamo una "fine ingloriosa" di questo Parlamento che, nel bene e nel male, molto ha fatto. La registriamo ora», conclude.

«Questo Natale di luce, festa e gioia interpella e scuote, perché è nello stesso tempo speranza e tristezza. Tristezza è quella che si è verificata ieri sullo ius soli, un'inqualificabile diserzione dalla responsabilità», afferma in una nota don Luigi Ciotti, presidente di Libera, a proposito della mancanza del numero legale al Senato nella discussione sulla riforma della cittadinanza. «La politica - aggiunge Ciotti - non può essere un gioco di potere sulle speranze delle persone, un'umiliazione dei loro diritti e delle loro aspirazioni: 800mila bambini e ragazzi già italiani per essere nati nel nostro Paese, chiedono di essere riconosciuti come tali. Farlo sarebbe stato un atto non solo di umanità ma di intelligenza, perché non c'è strumento migliore dell'integrazione e della condivisione di diritti e doveri per costruire pace, sicurezza e giustizia sociale». «Non resta che tanta vergogna per quello che è accaduto, e la speranza - affidata ai tanti italiani che si impegnano contro gli egoismi, le chiusure, le identità posticce e i richiami a passati tragici - di una nuova politica che torni ad essere motore di civiltà e di progresso» conclude il sacerdote.

domenica 24 dicembre 2017

LA COLPA DI ESSERE POVERI


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Come già detto l'estemporaneità della manifestazione antifascista indetta dal Pd a Como tre sabati addietro,giusta nei valori reclamati e proposti ma decisamente comandata da politici complici di decisioni razziste,ha lasciato il tempo che ha trovato(madn una-strana-manifestazione ).
Un periodo che grazie alle leggi liberticide e repressive contro i poveri dei vari Minniti e Orlando(madn minnitiluomo-del-manganello-e-dellolio.di ricino )fa sì che i più fragili della società vengano emarginati e in maniera coatta spostati dai salotti buoni delle città alle periferie.
Il cas del sindaco di Como che ha vietato a volontari e singoli cittadini di aiutare in maniera pratica i senza tetto con coperte piuttosto che con cibo e bevande è l'espressione di una direttiva voluta dal governo che con lacrime di coccodrillo fa indignare la popolazione che ha poi votato chi ha permesso queste oscenità:articolo di Contropiano(interventi ).

Il razzismo verso i poveri.

di  Giorgio Cremaschi 
Penso che il sindaco di Como sia una persona spregevole. Lo è per le vergognose ordinanze contro i poveri della sua città e ancora di più per le balbettanti giustificazioni che poi ha addotto. Faccio il mio dovere, obbedisco agli ordini, pardon applico la legge. Le abbiamo già sentite queste terribili parole, che nella loro banalità hanno coperto il peggiore dei mali. La legalità senza giustizia, solidarietà e umanità produce mostri.

È vero però che lì si sta davvero applicando una legge, quella di Minniti e Orlando che parla di decoro urbano e tratta di persone. Quando una legge considera i poveri un danno all’arredamento delle città, siamo già nella barbarie. “Devono sparire” urlava il poliziotto che minacciava di rompere le braccia agli inquilini sgomberati dal palazzo via Indipendenza a Roma. Come spariscono i migranti nel deserto libico grazie agli accordi che i governi europei fanno con i tagliagole del posto.

I poveri, quale che sia il colore della loro pelle, devono scomparire. La loro presenza infastidisce i bravi cittadini, che vogliono poter fare le compere, senza che qualcuno ricordi loro che quelli che vedono sono solo l’avanguardia di un popolo di 11 milioni di persone, solo nel nostro paese. E se comparissero tutti? Mamma mia.

I poveri devono sparire, soprattutto nelle società che ne producono sempre di più. Non deve sparire la povertà, ma chi ne è colpito. Nell’Inghilterra del 1500 ove nasceva il capitalismo re Enrico VIII faceva impiccare i poveri a migliaia. In fondo oggi si danno solo multe e Daspo, un poco di progresso c’è stato.

Non fate gli ipocriti allora, voi che oggi vi scandalizzate per il sindaco di Como e ieri avete approvato le leggi che egli sta applicando. E i bravi cittadini di Como che vogliono mostrarsi più vicini alla ricca Svizzera, in fondo sono sinceri quando si offendono se gli si dà dei razzisti.

Se uno sceicco di pelle scura aprisse da loro una nuova banca o comprasse la squadra di calcio, ne sarebbero ben contenti lo accoglierebbero coi più servili dei sorrisi. Solo pochi imbecilli vogliono che si discrimini per il colore della pelle, ciò che davvero conta per tanti altri è invece quanto è pieno il portafoglio.

Il razzismo di oggi, quello che davvero ci minaccia, è rivolto verso i poveri. L’eugenetica oggi è sociale. E le sue radici ideologiche le trovate più nel Trattato di Maastricht che nel Mein Kampf.

sabato 23 dicembre 2017

LO SPOT ELETTORALE NATALIZIO DEL GOVERNO


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Forse il clima natalizio o forse mero opportunismo in un periodo pieno di rigurgiti fascisti o anche consapevole strategia elettorale elettorale per ripescare voti a sinistra del Pd,ecco che la notizia delle decine di rifugiati tolti dalle situazioni di orrore cui sono sottoposti in Libia,diretta conseguenza delle politiche di un Minniti che si commuove di fronte all'arrivo di queste persone tolte dai loro paesi di origine per le guerre,ed ecco che i fari dei mass media sono stati puntati ieri all'aeroporto militare romano di Pratica di Mare.
Troppo poco e troppo tardi,misure davvero inconsistenti di fronte a numeri enormi e situazioni drammatiche che si consumano sotto i nostri occhi nell'indifferenza più totale:questi corridoi umanitari che ormai sono l'unica via legalizzata da parte del governo sono una goccia in un mare di sofferenza e di sfruttamento.
Nell'articolo sotto(/www.huffingtonpost.it )la cronaca dell'arrivo dei migranti in situazioni di grande vulnerabilità:vedi anche questo(madn i-profughi-di-serie-a )per altre storie di propaganda sulla pelle dei migranti.

Aperto il corridoio umanitario dalla Libia, 162 rifugiati vulnerabili arrivano in Italia

Collaborazione con Unhcr. "Questo è un giorno storico" ha detto il ministro dell'Interno Marco Minniti.

I primi 162 migranti provenienti dalla Libia grazie all'Intesa fra Italia, Libia, Onu e Cei sono arrivati con un volo dell'Aeronautica militare all'aeroporto di pratica di Mare. "Questo è un giorno storico - ha detto il ministro dell'interno Marco Minniti - per la prima volta è stato aperto un corridoio umanitario dalla Libia verso l'Europa. Questo è un inizio, continueremo con l'Unhcr secondo il principio di combattere l'illegalità per costruire la legalità".

Si tratta di 162 rifugiati altamente vulnerabili, tra cui minori non accompagnati e donne tenute prigioniere per lunghi periodi di tempo. Hanno tutti bisogno di cure mediche e supporto psicologico. "Per la prima volta, abbiamo potuto evacuare rifugiati estremamente vulnerabili dalla Libia direttamente in Italia. Un evento eccezionale e uno sviluppo accolto con grande favore che non sarebbe stato possibile senza il grande impegno delle autorità italiane e il supporto del governo libico. Speriamo davvero che altri paesi possano seguire lo stesso percorso," dichiara Vincent Cochetel, Inviato Speciale dell'UNHCR per il Mediterraneo centrale.

Subito dopo l'arrivo, tutti i rifugiati sono stati sottoposti a controlli medici e, prima di iniziare le procedure di identificazione, sono stati dati loro vestiti invernali e un pasto caldo. Personale dell'Unhcr, inclusi mediatori culturali e esperti legali, era presente all'arrivo per fornire alle persone evacuate informazioni sulla procedura di richiesta di asilo. Successivamente i rifugiati sono stati trasferiti in alcune strutture di accoglienza. Assistenza umanitaria e accoglienza sono forniti dalla Cei, attraverso la Caritas. Al contempo, verrà organizzata nei prossimi giorni una terza evacuazione dalla Libia al Niger, e altri 131 rifugiati potranno essere tratti in salvo.

venerdì 22 dicembre 2017

ISRAELE E USA TROMBATI DALL'ONU(PURE DALL'ITALIA!)

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La decisione presa dall'Onu durante la sua Assemblea Generale ha sancito la condanna per gli Stati Uniti su Gerusalemme capitale d'Israele nonostante le minacce nemmeno tanto velate degli Usa su chi avrebbe votato contro(ovvero a favore della risoluzione delle Nazioni Unite).
Solamente 9 Stati(oltre naturalmente i due in questione un paio centroamericani marionette statunitensi e qualche isolotto nel Pacifico)hanno votato contro la risoluzione mentre altri 35 si sono astenuti,quindi per me sono sostenitori degli Usa e tra questi gli Stati dell'Europa dell'est governati da filonazisti e altri del continente americano.
Stranamente l'Italia ha votato a favore assieme ad altre 127 nazioni sancendo così una netta vittoria per la Palestina con gli israeliani come al solito i più intelligenti e belli al mondo che con la solita arroganza definiscono il voto di ieri"un atto che finirà nel secchio della spazzatura della storia".
Articolo di Contropiano:internazionale-news e vedi:madn gerusalemme-occupata .

L’Onu condanna gli Stati Uniti su Gerusalemme. In 35 cedono alle minacce di Washington.

di  A.A. 
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. La votazione si è conclusa con 128 voti a favore e 9 contrari, mentre 35 Paesi si sono astenuti. Prima del voto, il presidente americano Donald Trump aveva lanciato un avvertimento ai 193 Paesi dell’Assemblea Generale: gli Usa “stanno guardando” chi voterà contro e ha minacciato rappresaglie contro quelle nazioni che sosterranno la risoluzione di condanna.

La bocciatura della decisione americana di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni unite è dunque stata netta. Ma alcuni paesi hanno ceduto alle minacce degli Stati Uniti ed hanno preferito astenersi piuttosto che votare contro Washington. Dei 193 paesi che fanno parte dell’Assemblea, 128 hanno votato a favore della risoluzione che condanna la decisione dell’amministrazione Trump, fra questi figura anche l’Italia. Nove paesi hanno votato contro: Stati Uniti, Israele, Guatemala, Honduras, Togo, Micronesia, Nauru, Palaos e le Isole Marshall. Un sintomo del fatto che le minacce di Washington hanno pesato sul comportamento di molte capitali, ha visto però 35 stati astenersi  – fra questi il Canada, il Messico e l’Argentina, ma anche tre paesi dell’Unione europea come Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca – mentre altri 21 paesi non hanno preso parte alla votazione.

Sprezzante come al solito la reazione israeliana: “Questo voto finirà nel secchio della spazzatura della storia”: così il rappresentante israeliano ha criticato parlando all’Assemblea generale dell’Onu la risoluzione che condanna la decisione degli Usa. Di tutt’altro tenore la valutazione della delegazione palestinese alle Nazioni Unite: “Questa decisione ribadisce ancora una volta che la giusta causa palestinese gode del sostegno della comunità internazionale e che nessuna decisione da qualsiasi parte può cambiare la realtà: Gerusalemme è un territorio occupato in base alla legge internazionale”  ha detto Nabil Abu Rudeineh, rappresentante palestinese all’Onu. “Continueremo i nostri sforzi all’Onu e nelle organizzazioni internazionali per mettere fine all’occupazione e stabilire il nostro stato di Palestina con Gerusalemme est su capitale”, ha concluso.

Adesso l’Onu dovrebbe dare attuazione alla risoluzione approvata. Se così fosse gli Stati Uniti e Israele dovrebbero essere sottoposti a sanzioni da parte della comunità internazionale. Ad altri paesi, per molto meno di quello che Israele compie quotidianamente a danno dei palestinesi, sono state imposte sanzioni, embarghi e spesso interventi militari ostili. Ma di risoluzioni Onu sulla Palestina nel corso degli anni ne sono state approvate molte. La loro mancata attuazione rappresenta gran parte del problema dell’illegittimità e delle complicità verso l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi.

giovedì 21 dicembre 2017

L'ARGENTINA ED IL SUO GOVERNO DI RICCHI PER I RICCHI


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Le votazioni sulla riforma delle pensioni in Argentina,dopo essere state rinviate grazie alla grande mobilitazione pubblica nella scorsa settimana,sono passate grazie al voto del congresso avvenuto in gran segreto nella notte tra lunedì e martedì.
Il governo Macrì,quello dei ricchi per i ricchi non solo nello Stato sudamericano ma in troppe parti del mondo,ha quindi mascherato l'adeguamento delle pensioni ma non solo,anche quelle d'invalidità e gli assegni familiari,che verranno calcolati in base all'inflazione e quindi ridotte per poter livellare il debito pubblico ed il deficit fiscale alle stelle(contropiano argentina-macri-riforma ).
Come al solito le fasce più deboli sono quelle che sono obbligate a mettere mano al portafogli in una delle prime nazioni al mondo che ha avuto il tracollo economico più importante e grave prima del fatidico 2008(vedi anche:madn macri-e-leconomia-argentina-nelle-mani usa ).

Argentina. Macrì “riforma” le pensioni e fa reprimere le proteste.

di  L'Antidiplomatico
Questo articolo compare in contemporanea su Contropiano e L’Antidiplomatico

La criticata riforma del programma pensionistico voluta da Macrì in Argentina è stata approvata questo martedì. Nonostante le proteste di massa e la brutale repressione della polizia contro manifestanti, giornalisti e politici, il nuovo corso neo-liberale del paese assegna un primo colpo.

Dopo oltre 16 ore di discussioni, il Congresso argentino ha deciso di approvare la controversa riforma delle pensioni, con 128 voti favorevoli, 116 contrari e due voti astenuti.

La riforma delle pensioni modificherà la formula per il calcolo del reddito dei pensionati: i pagamenti si adeguerebbero ogni trimestre in base all’inflazione, anziché all’attuale sistema di aggiustamenti semestrali legati agli aumenti salariali e alle entrate fiscali. Questa modifica prevedrebbe un aumento delle pensioni del 5,7% per il prossimo anno; con il calcolo corrente l’aumento sarebbe stato del 12%.

“La fretta di votare questa legge durante la notte” è un oltraggio per i pensionati argentini. Lo ha dichiarato Nathalia Gonzalez del Fronte di Sinistra a Telesur, aggiungendo che è il governo argentino è “dei ricchi e vuole solo il beneficio dei ricchi.”

Gonzalez ha inoltre spiegato che la riforma, guidata dal presidente Mauricio Macri, avrebbe deturpato i pensionati quei miliardi che servono per estinguere il debito estero.

Lunedì, anche Diego Maradona è intervenuto per esprimere la sua rabbia per il trattamento riservato ai manifestanti dalle forze di sicurezza argentine. “Voglio vedere la gente del mio paese come il giorno in cui abbiamo portato la [Coppa del Mondo] nel 1986.” #FuerzaArgentina!

“I cambiamenti generano disagio chiaramente, ma sono necessari”, ha detto il presidente in una conferenza stampa dopo la repressione il presidente Macrì, che ha giustificato la repressione sulla base di una presunta violenza generata dai manifestanti di fronte al Congresso.

Il presidente dell’Argentina, Mauricio Macri, ha tenuto una conferenza stampa martedì in cui ha assicurato che, sebbene le riforme generino disordini nella popolazione, “sono importanti e necessarie per un futuro migliore”. Macri ha poi ricordato che durante il summit del G20 tutti i presenti hanno convenuto che il suo paese fosse sulla strada giusta.

Durissima è stata la presa di posizione del premio Nobel per la Pace Pérez Esquivel, incarcerato e torturato sotto la dittatura militare.  «Non possono continuare a reprimere la gente. (Il ministro della sicurezza, Patricia) Bullrich deve essere allontanata. La gendarmeria ha puntato le sue armi contro il popolo. Questo non è democratico, chiediamo che lo Stato di diritto sia rispettato e che i diritti umani siano rispettati». «Esigiamo che cessi la repressione», ha aggiunto il Premio Nobel, evidenziando come il regime di Macri ricordi molto da vicino “epoche passate di militarizzazione, di repressione e non voler ascoltare la voce del popolo. Non possiamo continuare così”, aveva concluso.

Tra le immagini più raccapriccianti della repressione dei servizi di sicurezza argentini contro i manifestanti c’è questo video in cui si può vedere un pensionato manifestante barbaramente investito.

martedì 19 dicembre 2017

TRAMONTO PORTOGHESE


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L'estradizione di Maurizio Tramonte a ben 43 anni dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1975 è l'esecuzione di fatto dell'ergastolo confermato a lui e a Carlo Maria Maggi nel giugno di quest'anno(madn conferme-degli-ergastoli-per-la-strage.di brescia ).
Latitante da sempre,all'epoca dell'attentato il ventunenne Tramonti era già un militante fascista di prim'ordine già reclutato dai servizi segreti in quegli anni bene attivi sul fronte del terrorismo di Stato cominciato da Piazza Fontana.
E come i protagonisti materiali di quella strage i colpevoli vennero spediti in tutto il mondo dagli stessi servizi per non incappare in condanne ma soprattutto per non rivelare i nomi dei mandanti di quei fatti di sangue.
Nel redazionale di Contropiano(estradato-tramonte )analisi e considerazioni su questo fatto e una la faccio anch'io sulla condizione di Battisti(madn -rispolverato-per-tacere-sui.lavori parlamentari )che potrebbe anche lui venir estradato a breve per"par condicio"più opportunistica che politica.

Estradato Tramonte per la strage di Brescia e “fonte” dei Servizi Segreti.

di  Redazione Contropiano 
Maurizio Tramonte, uno dei due condannati definitivamente all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia – l’altro è Carlo Maria Maggi – sarà estradato oggi in Italia dal Portogallo, dove è stato rintracciato e arrestato nei mesi scorsi in seguito a indagini del Ros.

Scortato dall’Interpol, Tramonte arriverà all’aeroporto di Fiumicino con un volo proveniente da Lisbona.

I media di regime – da Repubblica al Corsera – provano a rinsaldare la narrazione preferità: “lo Stato è forte, non perdona, è anche antifascista”. Balle.

Quella di Piazza della Loggia è una strage di oltre 43 anni fa. Una bomba piazzata in un angolo della piazza, piena di lavoratori contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista, provoca 8 morti e 102 feriti.

La sentenza definitiva è arrivata 41 anni dopo, nel 2015. Solo perché lo Stato, tramite i suoi servizi segreti, alle dipendenze dirette di tutti i presidenti del consiglio da allora ad oggi – nessuno escluso – ha fatto di tutto per impredire che si arrivasse all’accertamento delle responsabilità.

Né si può dire che era difficile risalire ai colpevoli. Uno di loro, proprio il vigliacco infame che oggi viene riportato in Italia, era infatti la “fonte Tritone” dei Servizi Segreti Italiani. Un informatore, una spia infiltrata o reclutata in mezzo ai gruppi fascisti che compivano le stragi. Significa che lo Stato sapeva tutto fin dall’inizio. Anzi, che ordinava quegli attentati. O quanto meno ne favoriva la realizzazione, evitando di arrestare gli stragisti prima che piazzassero le bombe o subito dopo che le avevano fatte esplodere.

Naturalmente non abbiamo mai creduto, neanche per un attimo alla presunta tesi del “doppio Stato”, propalata da qualche depistatore “di sinistra” che nel frattempo garantiva collaborazioni con quegli stessi Servizi contro i militanti e i guerriglieri di estrema sinistra (Ugo Pecchioli, per ricordarne il “capo militare”). Non ci abbiamo creduto e abbiamo avuto la prova quando uno dei “teorici” di questa tesi diventò addirittura ministro dell’Interno. Ma si guardò bene dal rimuovere o far fermare anche solo un esponente del presunto “secondo Stato”, responsabile delle stragi e dei depistaggi.

Si chiamava Giorgio Napolitano, ci sembra…

Riportare in Italia uno stragista a scontare finalmente la sua condanna, a 43 anni dai fatti, non è un tanto un tardivo “atto di giustizia” (Tramonte, naturalmente, in galera ci doveva andare molto prima e ci deve restare) quanto una presa per i fondelli.

La gestione mediatica, stiamo dicendo, è una pennellata di ipocrisia sul modo di funzionare di uno Stato che ha coperto questa e altre stragi, con centinaia di morti, proteggendone i responsabili fino a metterli al sicuro all’estero (Ventura in Argentina, Delfo Zorzi in Giappone, ecc). Era avvenuto lo stesso anche con Tramonte, cui non era stato neanche ritirato il passaporto dopo le condanne di primo e secondo grado.

Dunque non abbiamo altro da aggiungere a quanto scritto dopo la sentenza definitiva, due anni fa. Il testo è quel che segue.

*****

Quarantuno anni sono sempre troppi, per avere una sentenza su una strage che ha fatto 8 morti e 102 feriti. Se poi questa arriva a sancire quel che già si sapeva, a carico di due persone già indagate, processate e incredibilmene assolte, è necessario concluderne che lo Stato – in prima persona e ai massimi livelli – ha fatto di tutto per far arrivare questa sentenza fuori tempo massimo, nella speranza che tutti gli imputati passassero a miglior vita.

Invece ne erano rimasti due. Maurizio Tramonte, all’epoca della strage di Brescia appena 21enne, ma già fascista militante e informatore dei servizi segreti, e Carlo Maria Maggi, 81 enne medico veneto, a suo tempo “ispettore politico” di Ordine Nuovo.

Scomparso invece il “pentito”, quel Mario Digilio che confezionò personalmente quasi tutte le bombe delle stragi di stato degli anni ’70, da Piazza Fontana in poi, fascista e agente dei servizi segreti italiani e statunitensi (dipendeva dal comando Nato-Ftase di Verona), che vuotò il sacco solo quando scoprì d’essere ormai in punto di morte.

Morto anche Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo e poi segretario del Movimento Sociale Italiano, appena prima che Gianfranco Fini promuovesse la “svolta di Fiuggi”. Ma aveva fatto in tempo ad essere assolto, come Franco Freda e Giovanni Ventura, poi scomparso in Argentina. Morto il generale dei carabinieri Francesco Delfino, poi dirigente del Sismi, naturalmente assolto per aver lungamente depistato le indagini sulla strage (dov’era in servizio nel 1974). è invece ancora vivo anche Delfo Zorzi, autore materiale della strage di Piazza Fontana, ma assolto per quella come per Brescia, fatto rifugiare in Giappone, dove ha fatto successo come imprenditore, col nome di Hagen Roi, senza che ne sia mai stata chiesta l’estradizione.

Si potrebbe andare avanti a lungo, ma ci basta rinviare alla sterminata documentazione esistente in materia, quasi interamente ascrivibile alle controinchieste del movimento rivoluzionario di quegli anni, riprese e trasformate in indagini dal giudice Guido Salvini.

Dopo tanto tempo, non ci sono parole che non siano state dette.

Questo Stato, quello di allora in perfetta continuità con quello di oggi, ha ordinato stragi, le ha fatte eseguire a gruppetti di fascisti quasi sempre arruolati come “informatori”, infiltrati o semplici agenti dei servizi di intelligence. Questo Stato ha poi protetto – a volte goffamente, come avviene a chi si sente troppo potente per curarsi di non lasciare troppe tracce nei reati che commette – gli autori delle stragi depistando le non molte indagini che puntavano a scoprire gli assassini. Questo Stato ha protetto i depistatori, consentendo loro notevoli carriere, secondo il classico schema dell’esecutore che ha molto da dire sul proprio mandante.

Si potrà dire che questo era il frutto della “guerra fredda”, del mondo diviso in due in cui non poteva proprio accadere che un paese chiave della Nato – e viceversa, del Patto di Varsavia – fosse governato da forze politiche non perfettamente allineate con la superpotenza di riferimento.

Ma non si può dire che ora vigono altre regole. Cambiano gli strumenti, forse. Anche in considerazione dell’assoluta minorità delle soggettività comuniste e rivoluzionarie.

E allora una sentenza che arriva così clamorosamente fuori tempo, che non serve più a punire nessuno, può servire a molti scopi meno nobili della scrittura della verità storica. A partire dalla patina di belletto che certamente il potere sta provando a stendere sulle sue rughe più orrende.

E invece sarebbe importante che questa verità giudiziaria, solo oggi giunta a conferma della verità storica, servisse da stimolo, per un paese disorientato, per fare il punto seriamente sul proprio recente passato. Ovvero dal dopoguerra a oggi.

Possiamo però star certi che così non sarà. La struttura infame del potere italico si vede proprio da queste cose…