mercoledì 6 novembre 2019
LA FINE DELL'EX ILVA?
In questi giorni uno degli argomenti caldi è la scelta di Arcelor Mittal di andarsene da Taranto abbandonando l'ex Ilva ad un destino che sembra già segnato,la chiusura del più grande stabilimento per la produzione di acciaio dell'Europa.
L'articolo proposto(contropiano nessuna-impunita )parla della fuga del gruppo indoeuropeo per la semplice motivazione di non avere ricevuto più i segnali tangibili dell'impunità dei propri dirigenti,un passo indietro del governo italiano che di fatto aveva deciso qualche giorno fa che sarebbe stata tolta l'immunità penale sull'inquinamento e l'avvelenamento.
Perché il problema principale dell'ex Ilva è sempre stato questo negli ultimi anni:la produzione e la buona riuscita dell'impresa contro una situazione sanitaria tragica che ha fatto registrare malattie e decessi in tutta l'area.
O il pane o la salute,il lavoro o la morte insomma,e gli investimenti calcolati per avere una produzione senza inquinamento(perché si può fare)sono troppo onerosi per chi ha la brama solo di capitalizzare il proprio denaro(vedi:madn chi-gioca-sullilva ).
Non solo questi sono i problemi dell'industria che fu dei Riva e che tempo addietro era punto cardine del sistema industriale pubblico,anche gli infortuni sul lavoro e la situazione degli altri impianti in tutta Italia da Terni a Genova fino a Piombino sono a rischio,i sindacati sono divisi sui probabili scioperi e la politica fa confusione e spettacolo televisivo mentre altri accordi permettono la delocalizzazione delle aziende o la chiusura in toto di esse.
Il sistema del diritto o del lavoro inventato dal"compianto"Marchionne ha fatto scuola,interventi del pubblico per foraggiare i privati,cassa integrazione continua finita in licenziamenti,orari impossibili e redditi diminuiti,sono il frutto della liberalizzazione scellerata che ha aiutato solamente i padroni ed il capitalismo.
Nessuna impunità per Arcelor. L’unica soluzione è nazionalizzare.
di Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)
Il precipitare della vicenda Arcelor Mittal è solo un altro atto del degrado industriale, sociale e politico del paese. Il solo fatto che si possa considerare tema di confronto tra le forze politiche e sociali l’immunità penale su inquinamento e avvelenamento, pretesa dalla multinazionale franco indiana. Il solo fatto che questa immunità sia stata nel passato concessa e magari ancora promessa sottobanco.
Il solo fatto che oggi vi siano politici e sindacalisti, da Renzi, a Salvini, a Landini, che propongano di concedere questa immunità all’azienda per non farla andare via o per non concederle alibi. Il solo fatto che si possa tranquillamente anteporre la conservazione dei posti di lavoro al rispetto delle leggi sulla salute delle persone, in una realtà industriale dove di inquinamento e di infortuni sono morte in tante e tanti. Uno solo di questi fatti segnala di quanto sia regredito un paese in cui il palazzo fa finta di emozionarsi per i giovani di Fridays For Future.
Nel 2010 Marchionne impose a Pomigliano il ricatto: o i diritti o il lavoro. Oggi questo ricatto si è esteso alla stessa vita delle persone. Anni di crisi e di disoccupazione di massa, in particolare nel Mezzogiorno, hanno costituito la base materiale per estendere ed ampliare la fuoriuscita dell’economia e del lavoro dalle condizioni della Costituzione e della stessa civiltà.
Ma su questa base si è poi inserito il dominio dell’impresa e del mercato, con la relativa ideologia diventata senso comune di massa. E la politica, almeno quella ufficiale, si è totalmente asservita ad impresa e mercato. Gli stessi Cinquestelle, che pure avevano iniziato con un punto di vista diverso, ora paiono semplicemente travolti nella difesa di principi a cui non credono più.
La famiglia Agnelli cede la FCA a PSA e la politica tace o approva. Le multinazionali delocalizzano e la politica tace o cede. È in questo contesto che Arcelor può fare il suo ricatto estremo.
Lo stabilimento di Taranto non può più produrre senza inquinare e senza mettere a rischio le persone, ma probabilmente non può nemmeno davvero produrre.
Mancano all’appello miliardi di investimenti, non solo per eliminare i veleni, ma per rendere la produzione minimamente sicura e anche efficiente. Quando l’Ilva è stata ceduta ad Arcelor aveva 13000 dipendenti, ma la multinazionale ne ha impiegati con fatica solo 8000 e la produzione non ha mai superato la metà di quella prevista. L’azienda accumula milioni di passivo ogni mese. Così gli azionisti hanno destituito il management e lo hanno sostituito con colei che ha tagliato ciò che restava delle Acciaierie di Terni.
È stato lo stesso quotidiano “La Repubblica” poche settimane fa ad anticipare un piano aziendale, non smentito, nel quale si prevedrebbero altri 5000 esuberi. Quindi AM vorrebbe impegnare a Taranto non più di 3000 persone, il che vuol dire la chiusura di gran parte degli impianti. Tutto questo è scomparso nel polverone politico attuale, ma la realtà è che la multinazionale, una volta acquisite le quote di mercato dell’Ilva, le può produrre altrove in modo per essa più conveniente. E protesta contro i giudici perché essi hanno imposto misure di sicurezza e risanamento sul più importante altoforno, che l’azienda non farà nei termini previsti e neppure dopo.
La realtà è che il risanamento e la messa in produzione compatibile con l’ambiente dell’Ilva è un progetto di politica industriale di lungo respiro, che richiede risorse e tempi incompatibili con le esigenze di profitto immediato di una multinazionale. Le produzioni vanno fermate in molti settori e poi riprese solo con altri impianti, nel frattempo garantendo il posto ed il salario ai lavoratori. Quale privato farebbe questo? Nessuno, tanto è vero che non una sola delle crisi aziendali affidate a salvataggi imprenditoriali si è risolta, quasi tutte si sono aggravate.
È il modello di soluzione privatistica delle crisi che è completamente fallito, dalla Pernigotti all’Ilva. Invece la politica insiste in questa ricerca del cavaliere bianco che salvi la fabbrica, ora pare che per Taranto ci si voglia rivolgere a Jindal, quello che sta chiudendo Piombino.
La realtà è che nel momento in cui lo stato ha rinunciato al proprio intervento diretto nelle crisi e a costruire politica industriale, in quel momento la politica ha abbandonato il sistema produttivo italiano al saccheggio. È stato Romano Prodi pochi giorni fa, in una intervista televisiva, ad ammettere che lo smantellamento del sistema industriale pubblico, di cui l’Ilva era parte fondamentale, non fosse una bella cosa, ma una scelta obbligata dalle istituzioni UE.
E così da allora il paese ha perso capacità e qualità produttiva. È la rinuncia al ruolo attivo dello stato, mentre cresceva quello passivo di finanziatore a fondo perduto dei privati, è questa rinuncia che porta al disastro Ilva.
Anche la contrapposizione lavoro ambiente è stata falsata da questa rinuncia, perché era il paese che doveva decidere se e a quali condizioni produrre a Taranto. Invece si è affidato tutto al mercato e così abbiamo la distruzione del lavoro senza il risanamento dell’ambiente.
Ci vorrebbe quindi una nazionalizzazione vera per l’Ilva con un piano di risanamento e rilancio produttivo gestito dal pubblico, non come eccezione ma come ricostruzione di strumenti validi per tutte le crisi in atto.
La fuga di ArcelorMittal potrebbe essere l’occasione per rivedere tutto il rapporto tra imprese e politica, tra mercato e stato, ripristinando la supremazia costituzionale delle istituzioni.
L’acciaio è meno inquinante della plastica, ma non può essere prodotto al prezzo di salute e vita. Esistono tecnologie ed impianti che permettono una produzione compatibile di acciaio, ma ci vogliono miliardi. Ecco la scelta vera: il paese ritiene utile produrre acciaio? Allora lo stato garantisca che ciò avvenga senza inquinare e devastare, altro che impunità.
Se invece continuerà il balletto a comando del profitto privato, se si concederà ad Arcelor la licenza di avvelenare, allora la politica e la società italiana continueranno a degradare e alla fine il mondo di Salvini sarà quello più adatto a governare il regime dell’impunità.
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