martedì 31 dicembre 2019

FINALE COL BOTTO PER I NO TAV


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Il 2019,anno molto travagliato per le lotte sociali in generale ma soprattutto per quella contro il Tav,ha visto la storica attivista Nicoletta Dosio portata in carcere per via di una mobilitazione avvenuta in Val Susa ormai quasi dieci anni fa,per non avere scelto fin da subito alternative alla carcerazione come scelto dagli altri undici imputati per i fatti del 2011.
Già costretta a settant'anni di età a misure coercitive sulla sua libertà personale(madn ulteriori-restrizioni-per-nicoletta dosio ),ora è arrivata l'apertura delle porte del carcere nonostante un muro umano in strada ieri a Bussoleno per impedirne il trasferimento alle Vallette a Torino.
L'articolo di Contropiano(politica-news )parla di questo e degli attestati di vicinanza nei confronti di Nicoletta.

Stanno portando in carcere Nicoletta Dosio, storica attivista No Tav.

di  Redazione Contropiano 
Ultim’ora. A Bussoleno un muro popolare cerca di impedire ai carabinieri di portare Nicoletta in carcere a Torino. In pratica è un corteo che a passo d’uomo sta accompagnando Nicoletta.

Intanto siamo qui alle Vallette aspettando l’arrivo di Nicoletta https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=3264781313555104&id=193856920950966

I carabinieri si sono recati pochi minuti fa a casa di Nicoletta Dosio a Bussoleno e stanno eseguendo le pratiche per la sua immediata traduzione alle Vallette: un provvedimento nell’aria, dopo che questa mattina è stata resa nota la revoca della sospensione dell’ordine di carcerazione.

Nicoletta, condannata in via definitiva insieme ad altri 11 attivisti No Tav per una mobilitazione in Valsusa del 2011, si era rifiutata nei mesi scorsi di richiedere misure alternative alla carcerazione, preferendo il carcere all’accettazione di una misura palesemente ingiusta e spropositata.

L’ordine era stato inizialmente sospeso, nell’evidente imbarazzo di tradurre effettivamente in carcere una donna di oltre 70 anni e dopo alcune riuscite iniziative di solidarietà, come la partecipata assemblea organizzata da Potere al Popolo Torino il 7 novembre.

A breve aggiorneremo sulle iniziative di mobilitazione in solidarietà di Nicoletta e della lotta No Tav, ancora una volta oggetto di pesantissime operazioni repressive. Nel frattempo non possiamo che ribadire nuovamente la nostra incondizionata solidarietà a lei e a tutte le attiviste e gli attivisti colpiti da questi provvedimenti.

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Prime iniziative di protesta per l’arresto di Nicoletta Dosio

A Pisa martedì 31 dicembre ore 12 Piazza XX settembre

presidio per l’immediata liberazione di Nicoletta DosioI carabinieri si sono recati pochi minuti fa a casa di Nicoletta Dosio a Bussoleno e stanno eseguendo le pratiche per la sua immediata traduzione nel carcere delle Vallette a Torino.Un provvedimento nell’aria, dopo che questa mattina è stata resa nota la revoca della sospensione dell’ordine di carcerazione.

Nicoletta, condannata in via definitiva insieme ad altri 11 attivisti No Tav per una mobilitazione in Valsusa del 2011, si era rifiutata nei mesi scorsi di richiedere misure alternative alla carcerazione, preferendo il carcere all’accettazione di una misura palesemente ingiusta e spropositata.

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A Napoli domani 31 dicembre a via Largo Berlinguer

NICOLETTA DOSIO LIBERA! #NOTAV LIBERA!

Martedi appuntamento ore 10.30 Metro Toledo (largo Berlinguer)

Hanno appena portato in carcere Nicoletta Dosio, stamattina le avevano notificato la sospensione delle misure alternative.
Nessuna sbarra potrà fermare chi combatte per la libertà.
A Nicoletta arriverà tutto il nostro calore e il nostro abbraccio.
Chiediamo la liberazione immediata di tutte e tutti i notav detenuti per le loro mobilitazioni.
Diffondiamo la notizia, partecipiamo! Non restiamo in silenzio!
Nicoletta libera, notav liberi!

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A Firenze presidio in Prefettura (Via Cavour) martedi 31 gennaio dalle 15,30

Hanno appena portato in carcere Nicoletta Dosio, stamattina le avevano notificato la sospensione delle misure alternative.
Nessuna sbarra potrà fermare chi combatte per la libertà.
A Nicoletta arriverà tutto il nostro calore e il nostro abbraccio.
Chiediamo la liberazione immediata di tutte e tutti i notav detenuti per le loro mobilitazioni.

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A Bologna portiamo in piazza la nostra solidarietà a Nicoletta Dosio! Martedi 31 dicembre, ore 14.00 a Piazza di Porta Ravegnana

Nicoletta Dosio è stata arrestata. Questo è un salto nella repressione del movimento No Tav. Una repressione benedetta dal partito unico della TAV, che unisce PD e Lega, sindacati complici e Confindustria.
 Nicoletta è anche coordinatrice nazionale di Potere al Popolo, ma soprattutto è una compagna che da decenni si impegna in ogni lotta, anche e soprattutto quando le lotte non sono sotto i riflettori.

Dalla Val Susa allo Stretto di Messina passando per la nostra Bologna, Nicoletta c’è sempre stata e noi siamo con lei, complici e solidali, con tutta la nostra rabbia e tutta la nostra solidarietà.
 ORA E SEMPRE NO TAV! A SARÀ DÜRA!

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Milano. Appuntamento martedi 31 dicembre ore 12 in Prefettura, via Monforte 31

In questi momenti Nicoletta Dosio, esponente storico del movimento No Tav e coordinatrice nazionale di Potere al popolo, sta per essere portata in carcere dalle forze dell’ordine!

Nicoletta è stata condannata a più di un anno di carcere per una manifestazione assolutamente pacifica, e ha accettato serenamente, con l’orgoglio e l’amore per la sua terra che la contraddistingue da sempre, questa condanna Senza richiedere misure alternative, nonostante la sua età.

Lo diciamo qui e lo diremo chiaramente domani alle ore 12.00 davanti la prefettura di Milano in corso Monforte, e in tante altre parti d’Italia : Giù le mani da Nicoletta, giù le mani dal movimento No Tav!

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La solidarietà dell’Unione Sindacale di Base

Giù le mani da Nicoletta Dosio! In queste ore i Carabinieri stanno arrestando e traducendo in carcere la storica leader del movimento NO TAV Nicoletta Dosio per scontare la condanna che gli era stata definitivamente inflitta alcuni mesi fa assieme ad altri compagni attivi nella difesa della valle. Nicoletta aveva rifiutato gli arresti domiciliari e per un breve periodo la pena gli era stata sospesa. Oggi, approfittando delle festività di fine anno, la sospensione è stata revocata e la pena divenuta esecutiva. Nicoletta e tutti i compagni/e No Tav devono essere liberati subito, la lotta non si arresta! USB esprime piena solidarietà a Nicoletta e al movimento No Tav e invita tutte le proprie strutture a mobilitarsi per la sua liberazione partecipando alle iniziative delle prossime ore.

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Un messaggio di Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo)

La Telefonata che non avrei voluto ricevere. I carabinieri sono appena giunti a casa di Nicoletta Dosio per arrestarla e tradurla nel CARCERE de Le Vallette a Torino. Dove già sono reclusi altri militanti NOTAV.
VERGOGNA per un paese dove una professoressa di 74 anni pacifista e ambientalista da sempre nel movimento NOTAV e rappresentante di un partito di opposizione finisce in galera per 30 minuti di presidio ai caselli dell’autostrada.
Se una cosa simile succedesse in Russia o ad Hong Kong avrebbe i titoli di testa di TV e giornali.
Facciamo sentire il nostro sdegno e la nostra rabbia contro il potere degli affari e delle Grandi Opere devastanti, che colpisce chi lotta per i diritti delle persone e per la natura.
 MANIFESTIAMO SOLIDALI E COMPLICI CON NICOLETTA E CON TUTTE E TUTTI I NOTAV

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Il comunicato di Marta Collot candidata di Potere al Popolo per l’Emilia Romagna

Stamattina hanno notificato a Nicoletta Dosio la sospensione delle misure alternative e ora i carabinieri la stanno portando in carcere!
Questo è un salto nella repressione del movimento No Tav. Una repressione benedetta dal partito unico della TAV, che unisce PD e Lega, sindacati complici e Confindustria.
Nicoletta è anche coordinatrice nazionale di Potere al Popolo, ma soprattutto è una compagna che da decenni si impegna in ogni lotta, anche e soprattutto quando le lotte non sono sotto i riflettori.


Dalla Val Susa allo Stretto di Messina passando per la nostra Bologna, Nicoletta c’è sempre stata e noi siamo con lei, complici e solidali, con tutta la nostra rabbia e tutta la nostra solidarietà.
ORA E SEMPRE NO TAV! A SARÀ DÜRA!

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Un primo messaggio di Potere al Popolo

HANNO ARRESTATO NICOLETTA: LA PORTANO IN CARCERE!

Stamattina le avevano notificato la sospensione delle misure alternative.
Nessuna sbarra potrà fermare chi combatte per la libertà.
A Nicoletta arriverà tutto il nostro calore e il nostro abbraccio.
Chiediamo la liberazione immediata di tutte e tutti i notav detenuti per le loro mobilitazioni.


Diffondiamo la notizia, restiamo aggiornati per i prossimi momenti di solidarietà. Non resteremo in silenzio!

Nicoletta libera, notav liberi!

venerdì 20 dicembre 2019

UN CARCERE INTERO


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Quando si parla di potere non c'è alcuna distinzione tra i partiti di destra(FI e FdI)e quelli di centro(Pd),e il caso della Calabria con un numero talmente elevato di arrestati da riempire un intero carcere è emblematico dello schifo politico di questi anni e del forte legame tra lo Stato e la criminalità organizzata.
In un clima da tutti lo sapevano ma guai a parlarne,siamo comunque in una delle zone più omertose d'Italia,Giancarlo Pittelli,massone,avvocato e politico ex berlusconiano ed ora in forza dalla sorella d'Italia Meloni,è stato individuato come il tramite tra la 'ndrangheta(cosca Mancuso)e le istituzioni,uno che fa girare gli affari a suo piacimento e degli amici degli amici,uno di quelli che proprio si sapeva tutto ma che era riuscito ad andare in Parlamento(per l'appunto forse per questo).
Nei due articoli proposti(left gli-insospettabili-sospettati-da-sempre e contropiano retata-antimafia-in-calabria-decapitati-tutti-i-partiti )lo sdegno,la vergogna e forse l'inutilità di una maxi operazione che ha coinvolto non solo tutta Italia ma un bel pezzo d'Europa e anche gli Usa,perché questi criminali codardi hanno tessuto la loro rete infame di malaffare ovunque,nel nord grazie ai soggiorni obbligati degli anni novanta e nel resto del mondo per i loro traffici illeciti miliardari.

Gli insospettabili sospettati da sempre.

di Giulio Cavalli
Imponente operazione antimafia ieri in Calabria. Ne esce Vibo Valentia completamente assoggettata alla cosca dei Mancuso, ne escono cittadini lavoratori costretti a subire angherie di ogni tipo ed esce quella ‘ndrangheta che sembra essere completamente scomparsa dai radar delle agende politiche (ne parlavo proprio qui qualche giorno fa, che curiosa coincidenza) fatta di massoneria, mala politica e protezioni in alto.

Giancarlo Pittelli, ad esempio, a Catanzaro era (fino a ieri) uomo conosciuto e fin troppo riverito. Era lo stesso Pittelli che odiava pubblicamente De Magistris perché dodici anni fa aveva osato descriverlo in modo molto simile al suo ritratto che esce dalle carte dell’indagine coordinata da Gratteri. Più volte parlamentare di Forza Italia (e da poco passato a Fratelli d’Italia, come ogni buon annusatore del vento) è descritto come cerniera tra il mondo criminale e quello della politica, dell’imprenditoria, dell’università, sempre con la massoneria sullo sfondo. Eppure Pittelli a Catanzaro è il maestro di tanti avvocati che lo veneravano. Oggi, ovviamente, spariranno tutti: la caduta dei mostri sacri come Pittelli indica che sono cambiati i rapporti di forza.

L’ex vicepresidente della regione Nicola Adamo era anche lui nell’inchiesta di De Magistris di dodici anni fa. Altra sponda politica: ai tempi era il segretario regionale dei Ds. Poi è finito nell’inchiesta Eolo nel 2012, poi Rimborsopoli e a ottobre la procura di Catanzaro aveva chiesto il suo rinvio a giudizio per l’inchiesta sugli appalti riguardanti la costruzione della metropolitana leggera destinata a collegare Cosenza, Rende e l’Università della Calabria oltre al nuovo ospedale di Cosenza.

Persone insospettabili sospettate da sempre che rimangono dove sono perché la politica non ha gli anticorpi per prenderne le distanze. Ma mica solo la politica: sono sostenuti dai salotti, dai loro cortigiani, da pezzi interi delle città in cui vivono.

Gli insospettabili sospettati da sempre sono un classico letterario nelle nostre città: camminano fieri, a testa alta, fanno anche la morale agli altri (chiedete in giro di Giorgio Naselli, ex comandante del Reparto operativo nucleo investigativo dell’Arma di Catanzaro) e poi quando decadono sembra che non li conoscesse nessuno.

C’è bisogno di tanta vigliaccheria perché trionfino i prepotenti. E poiché la vigliaccheria non è reato quelli, i vigliacchi, si salvano sempre.

Buon venerdì.

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Retata antimafia in Calabria, decapitati tutti i partiti.

di  Alessandro Avvisato 
Non ci occupiamo di solito, delle retate antimafia. Non disponendo di inviati, e non volendo ridurci al ruolo di megafoni degli inquirenti (magistratura, polizie varie, ecc), preferiamo prendere atto e caso mai vede se c’è qualche ricaduta delle indagini sulla politica. Con questa logica, per esempio, abbiamo seguito “Mafia Capitale” o l’omicidio del fascista-tifoso-spacciatore Piscitelli (i media mainstream si sono fermati alle due ultime “qualifiche”, guardandosi bene dall’accennare alla prima).

Ma l’inchiesta calabrese del 19 novembre ha una dimensione tale (334 arrestati, 416 indagati) che avrebbe ricadute politiche a prescindere dall’identità degli arrestati. E’ comunque un pezzo di mondo regionale, una delle aree del potere.

Andando poi a guardare alcuni dei nomi coinvolti nell’inchiesta Rinascita-Scott (anche il nome richiederà qualche precisazione) si vede a occhio nudo che è stata devastata tutta la “politica” regionale, senza distinzioni di partito.

A cominciare da quel Giancarlo Pittelli, avvocato di primo piano ed ex parlamentare di Forza Italia, nonché a lungo coordinatore regionale della maison Berlusconi, sostenitore di rango della candidata proposta alle regionali, Jole Santelli, confermata nel ruolo mentre uscivano i lanci di agenzia sulla retata.

L’accusa nei suoi confronti è circostanziata e piuttosto secca: avrebbe “condiviso la modalità di gestione della cosca (Mancuso di Limbadi, che domina la provincia di Vibo Valentia. Ndr), aderendo alla politica gestionale di Luigi Mancuso”. Anche lui arrestato mentre fuggiva in treno verso Milano.

Ma Pittelli non è (o era) soltanto questo, visto il ruolo di primo piano rivestito nelle logge massoniche: “in quella particolare frangia di collegamento con la società civile rappresentata dal limbo delle logge coperte”. Un vero boss, secondo l’accusa, della ‘ndrangheta-massona, che avrebbe messo a disposizione delle cosche “il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni, anche per acquisire informazioni coperte dal segreto d’ufficio e per garantirne lo sviluppo nel settore imprenditoriale”.

Altro nome rilevante è quello di Gianluca Callipo, “cugino carnale” del re del tonno, individuato da Zingaretti come candidato presidente ideale del Pd alle ormai prossime elezioni regionali.

Agli arresti domiciliari, invece, ma non meno coinvolto, è Nicola Adamo, ex vicepresidente della giunta regionale Pd, marito di Enza Bruno Bossio, attualmente deputata dello stesso partito. Naturalmente al fianco dell’attuale governatore uscente piddino, Gerardo Oliverio.

Nelle peste anche Luigi Incarnato, commissario alla Sorical e coordinatore della campagna elettorale di Olverio. L’accusa nei suoi confronti è di aver ottenuto l’appoggio della cosca alle elezioni politiche del 2018, sempre per il Pd, finendo però egualmente battuto dal Cinque Stelle Massimo Misiti.

Poi una marea di professioni, funzionari, due capi o ex capi della Polizia Locale, un colonnello dei Carabinieri ex comandante dei Ros (reparti speciali!) di Catanzaro, imprenditori… Insomma: uno spaccato della “classe dirigente”, senza alcuna distinzione di partito, professionalità, specializzazione. Non c’è alcuna differenza tra “destra” (in questo caso Forza Italia, ma due anni fa Pittelli era passato a Fratelli d’Italia accolto con un post entusiasta di Giorgia Meloni).

Interessante, comunque, anche la “dedica” che il pool del giudice Gratteri ha voluto fare – intitolandogli l’operazione Rinascita-Scott – al capo della Dea, agenzia antidroga degli Stati Uniti, Hacker Scott.

Così, tanto per ricordare chi comanda ancora in questo paese…

mercoledì 18 dicembre 2019

IL FALLIMENTO DEL COP 25


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Già ben prima del suo inizio la conferenza sul clima di Madrid era già stata tacciata di fallimento e purtroppo così è stato(madn la-conferenza-di-madrid-una-riunione.inutile? ),in quanto su tutto e tutti è prevalso l'egoismo e l'enorme tariffario che sarebbe stato messo sul piatto per poter cominciare ad intraprendere un discorso serio su quello che concerne l'inquinamento e le emissioni nell'atmosfera dei veleni che produciamo per il nostro effimero benessere.
E non ci si limita alle sole defezioni modello Usa,la stessa Ue non riesce ad avere un piano di coesione tra gli Stati membri,un piano di politica comune riguardo il clima,altre superpotenze mondiali quali Russia,Cina ed India hanno fatto solo pochi passi per prevenire i cambiamenti climatici che poi muovono un insieme di conseguenze politiche e sociali che coinvolgono l'intero pianeta.
L'articolo di Left(cop25-la-montagna-non-ha-partorito-nemmeno-un-topolino )parla di questo buco nell'acqua colossale e le promesse già vane adesso di ritrovarsi al tavolo per l'anno prossimo,con l'orologio biologico della terra che è sempre più vicino al punto di non ritorno,se già non l'abbiamo superato.

COP25, la montagna non ha partorito nemmeno un topolino.

di Massimo Serafini
Il fallimento del vertice di Madrid sul clima, la COP 25, non sorprende. Quante/i hanno veramente a cuore la salvaguardia del pianeta lo avevano ampiamente previsto e denunciato. D’altronde che non avrebbero deciso nulla, lo anticipava il ritiro degli USA dagli accordi di Parigi. È evidente che la loro scelta di escludere il Paese che, insieme alla Cina, manda più gas serra in atmosfera, paralizza ogni decisione di tutti gli altri. A cominciare dall’Europa, che al di là dei proclami sull’agenda verde, non ha né la sufficiente unità, né la volontà politica di gesti unilaterali vincolanti. Prevederne quindi il fallimento non era complicato, ma questo non deve consolare nessuno, tanto meno impedire di essere impauriti dalla mancanza di decisioni capaci di contrastare il cambio climatico.

Questa volta non aver trovato un accordo è più grave. Dire, come di fatto dice la risoluzione finale della COP25, che un accordo ambizioso lo si troverà la prossima volta, cioè fra un anno, nei due vertici programmati di Bonn e Glasgow è allucinante. Soprattutto dopo che la comunità scientifica aveva avvertito che il tempo stava scadendo, che restano cioè solo 10 anni per invertire la tendenza e contenere l’aumento delle temperature nei due gradi o meglio in quel grado e mezzo, che la scienza consiglia. Scienziate/i a parte è la realtà drammatica e diffusa di eventi estremi, che vive buona parte della terra, devastata da inondazioni, uragani e desertificazioni, a dirci quanto deprimente sia questo ennesimo fallimento. Buttare via altro tempo, del poco che è rimasto, spinge all’impotenza e fa diventare, nella testa di tante/i, una chimera l’obiettivo di un aumento di soli due gradi. Da tempo è noto che governare il clima è un lavoro di lunga lena, che richiede, oltre alla volontà politica, tanto tempo.

Se nemmeno la dura realtà e i moniti pressoché unanimi del mondo scientifico hanno spinto i cosiddetti grandi della terra ad agire, non si capisce più cosa possa smuoverli.

Da oltre un anno, grazie a Greta Thumberg, è nato FridayForFuture, capace di manifestare con continuità la sua preoccupazione per il pianeta, oltre una angosciosa domanda alla politica di agire. Se ne sono accorti un po’ tutti, compreso i media, anche se spesso in modo truffaldino, tutti meno i decisori, quelli importanti e quelli meno. Mai come ora i due mondi, quello della società civile e quello della politica sono apparsi tanto distanti e senza comunicazione fra loro. E’ una rottura che fa paura, non perché ci mostra la loro insensibilità, ma perché racconta anche la nostra debolezza. Come è possibile che dopo un anno di mobilitazioni, i decisori politici ci ignorino e non sentono l’urgenza di prendere qualche decisione?

Parlare male dei Trump, Bolsonaro serve a poco, così come denunciare l’impotenza di Europa, Cina, Russia e India. Forse è bene che si affrontino anche i nostri limiti, capendo che quello che fin qui abbiamo messo in campo è insufficiente. Non gli fa nessuna paura di essere cacciati dal potere, l’unico linguaggio che sentono.

Prendere atto della nostra debolezza è facile a dirsi e difficile a farsi. Non basta riprendere le nostre manifestazioni se non si capisce come fare perché incidano di più. Il movimento ha bisogno di cambiare pelle, definire un suo progetto e trasformarlo in vertenze. E’ tempo di allargare lo sguardo, incontrare gli altri movimenti e le loro ragioni, quello femminista, quello per la pace e contro gli armamenti, quello per la giustizia sociale, quello per le libertà e nuovi diritti. Sarebbe straordinario e coinvolgente legare le mobilitazioni studentesche all’apertura, scuola per scuola, di una vertenza per avere i luoghi in cui si studia ad emissione zero. Altrettanto mobilitante sarebbe rispondere al destino precario, a cui vengono condannati milioni di giovani donne e uomini, coinvolgendoli nella costruzione di un nuovo modello energetico, rinnovabile e poco bisognoso di energia, proponendo nuovi stili di vita, la difesa del territorio, una riduzione del consumo di suolo, come le chiavi per produrre lavoro e ricchezza, smettendo di illuderli che la medicina possa essere la crescita, che da anni è senza lavoro e senza benessere. Allargare lo sguardo al movimento femminista che lotta contro il patriarcato, capendo che l’altra faccia del dominio sulla donna, è la violenza sulla natura.

Insomma la continuità della mobilitazione è indispensabile, ma per durare nel tempo e incidere nelle decisioni ha bisogno di vertenzialità e soprattutto di contaminare e farsi contaminare.

venerdì 13 dicembre 2019

PIAZZA FONTANA,FASCISTI E SERVIZI SEGRETI


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La commemorazione della strage di Piazza Fontana avvenuta ieri a Milano durante la seduta straordinaria del consiglio comunale ha lanciato finalmente segnali eloquenti su quello che già poche settimane dopo quel maledetto 12 dicembre 1969 si sapeva
Dopo decenni di depistaggi e di insabbiamenti la matrice fascista appoggiata e coperta dai servizi segreti dello Stato è venuta fuori con il rammarico di non avere visto nessun colpevole finire dietro le sbarre,una situazione che nel decennio successivo(e in alcuni casi anche oltre)si sarebbe ripetuta nuovamente e sempre con gli stessi protagonisti.
L'articolo(www.rainews.it Milano-Piazza-Fontana-50-anni )riporta le dichiarazioni di ieri avvenute a Milano mentre per la storia infinita di questa che è stata la madre di tutte le stragi della strategia della tensione rimando a questi links:madn fascisti-eversivi-ieri-come-oggi ,madn chi-cera-sa e madn il-contentino-per-pinelli .

Sala: "Strage è ferita che ancora sanguina".

Piazza Fontana, 50 anni dopo. Mattarella: "Fu strappo lacerante, no a revisionismi".

Seduta straordinaria del Consiglio comunale con il presidente della Repubblica, e i rappresentanti dell'associazione dei familiari delle vittime della strage. Mattarella: "Attacco a democrazia non è questione del passato". Dopo il Consiglio comunale il corteo per le strade della città fino alla piazza. Licia Pinelli: "Cinquanta anni, passaggio importante", archivio on line che raccoglie documenti e testimonianze.

12 dicembre 2019
Stringe le mani e si ferma a parlare con le vedove di Mario Calabresi e Giuseppe Pinelli, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prima dell'inizio della seduta straordinaria del consiglio comunale per il 50 esimo anniversario della strage di piazza Fontana. Il Capo dello Stato saluta Licia Pinelli con le due figlie Silvia e Claudia, e Gemma Calabresi con il figlio Mario. Un momento estremamente importante e significativo. In aula consiliare anche l'arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. Ci sono poi il prefetto di Milano, Renato Saccone, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. Seduto fra il pubblico anche il giudice di Milano, Guido Salvini, che, nella figura di giudice istruttore, riaprì le indagini nel 2001, riportandole a Milano. È una seduta straordinaria del Consiglio comunale quella con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che è arrivato a Milano per ricordare cinquanta anni dopo quel 12 dicembre 1969, giorno della strage di piazza Fontana, in cui persero la vita in seguito allo scoppio di una bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura 17 persone e 88 rimasero ferite. Una tragedia che segnò l'inizio della strategia della tensione e degli anni di piombo.

Mattarella: "Rispetto della memoria, no a revisionismi".
"Il trascorrere del tempo non colloca tra gli eventi vecchi e da rimuovere l'attacco alla democrazia portato in quegli anni: non commetteremo l'errore di pensare che siano questioni relegate a un passato più o meno remoto". Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prendendo la parola davanti al Consiglio Comunale di Milano per la commemorazione del 50esimo anniversario della strage di piazza Fontana."Fu uno strappo lacerante; recato alla pacifica vita di una comunità e di una Nazione, orgogliose di essersi lasciate alle spalle le mostruosità della guerra, gli orrori del regime fascista, prolungatisi fino alla repubblica di Salò, le difficoltà della ricostruzione morale e materiale del Paese. Sono la nostra identità, il nostro Patto civile a essere usciti segnati da quegli avvenimenti. Occorre esserne consapevoli - osserva - per non correre il rischio di poterli rivivere. Immersi in pieno nella storia d'Italia, di cui l'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura rappresenta una pagina indelebile, affermiamo il dovere del rispetto di una memoria collettiva, in una vicenda di cui si conoscono origini e responsabilità", ha proseguito il presidente. "Disinvolte manipolazioni strumentali del passato - aggiunge - persistenti riscritture di avvenimenti, tentazioni revisioniste alimentano interpretazioni oscure entro le quali si pretende di attingere versioni a uso settario, nel tentativo di convalidare, a posteriori, scelte di schieramento, opinioni di ieri" .Il Capo dello Stato ricorda le parole del 2012 del suo predecessore, il Presidente Napolitano, in occasione della Giornata della memoria quando disse, 'non brancoliamo nel buio di un'Italia dei misteri: ci troviamo dinanzi a limiti da rimuovere e a problemi di giustizia e di verità ancora da risolvere, ma in un'Italia che ha svelato gravissime insidie via via liberandosene, che ha sconfitto il terrorismo, individuandone e sanzionandone a centinaia gli sciagurati attori, e che ha salvaguardato i presidi della nostra vita democratica'. Secondo Mattarella "l'attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata, quindi, doppiamente colpevole". Ma il presidente ha anche ricordato: "La Repubblica è stata più forte degli attacchi contro il popolo italiano. I tentativi sanguinari di sottrarre al popolo la sua sovranità sono falliti", ha aggiunto. "La democrazia si dimostrò, al contrario, forte. In grado di battere il terrorismo, con gli strumenti propri di uno Stato di diritto, senza rinunciare mai al rispetto dei diritti fondamentali della persona. Sono i valori della nostra Costituzione" ha ribadito Mattarella. "Il ricordo delle vittime di piazza Fontana - sottolinea - sollecita ancor di più la Repubblica ad affermarne la permanente validità". Il Capo dello Stato ha poi sollecitato un impegno comune: "Nel momento in cui facciamo memoria delle vittime di piazza Fontana - e, con loro di Giuseppe Pinelli, del Commissario Luigi Calabresi - sappiamo di dover chiamare le espressioni politiche e sociali del Paese, gli uomini di cultura, l'intera società civile, a un impegno comune: scongiurare che si possano rinnovare in Italia le fratture terribili in cui si inserirono criminalmente quei fatti. Il destino della nostra comunità non può essere preda dell'odio e della violenza. Per nessuna ragione la vita di una sola persona può essere messa in gioco per un perverso disegno di carattere eversivo", ha concluso.

Sala: "Strage è ferita che ancora sanguina".
La strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969 è "una ferita che ancora sanguina, perché ancora lo Stato non è stato capace di definire la verità assoluta" su quell'episodio. Lo ha detto il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, durante il suo discorso in Consiglio Comunale, alla presidenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione delle celebrazioni per il 50esimo della strage. I depistaggi che vennero dopo rimangono "un peso e una tristezza per Milano e per l'Italia", e talvolta "impediscono di andare oltre". Tuttavia "fare memoria è un dovere civico e morale perché il passato possa costituire nutrimento per il presente e il futuro". Il sindaco ha poi commentato "lo splendido gesto dell'incontro tra Gemma Carta Calabresi e Licia Rognini Pinelli" affinché sia di sprone per vivere un nuovo futuro guardando ad occhi aperti il passato". Il sindaco in precedenza aveva sottolineato la necessità di celebrare il ricordo di quella giornata "nelle scuole, facendo sì che i nostri ragazzi e i nostri nipoti sappiano cosa è stata per noi Piazza Fontana". In aula anche gli interventi dei rappresentanti dell'associazione dei familiari delle vittime della strage che, dopo tanti processi e una verità giudiziaria contestata, continuano a cercare risposte che ancora non hanno. La vicenda giudiziaria ebbe fine nel 2005, quando la Cassazione la chiuse con un'assoluzione generalizzata degli imputati presi in esame dall'indagine scaturita negli anni '90 dal lavoro sulle "Trame nere", del giudice Salvini. Il Consiglio precede il corteo che tradizionalmente parte da piazza della Scala per concludersi proprio in piazza Fontana, davanti alla Banca Nazionale della'Agricoltura alle 16.37, orario in cui esplose la bomba, dove è stato osservato un lungo silenzio. Evidente la commozione fra i parenti, in prima fila nel corteo commemorativo che si è radunato davanti al numero civico 4 della piazza a due passi dal Duomo, sede oggi di una filiale di Mps.

Arnoldi: "Oggi lo Stato più vicino. C'è verità storica, ma forse mai quella giudiziaria".
"Oggi lo Stato è più vicino? Si,già l'anno scorso con l'intervento del presidente Fico, che ci aveva chiesto scusa quattro volte pubblicamente a nome dello Stato, abbiamo avuto una sorta di soddisfazione. Quest'anno ancor di più con la carica più alta dello Stato che per la prima volta dopo cinquant'anni viene a Milano, ci incontra privatamente, ci invoglia ad andare avanti, e dice che effettivamente in quegli anni qualcuno dello Stato voleva portare a deviazione i vari processi per non arrivare a una verità". Lo ha detto Carlo Arnoldi, presidente delle vittime della strage di piazza Fontana, dopo il discorso del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel cinquantenario dell'esplosione alla Banca nazionale dell'agricoltura. "Purtroppo la verità giudiziaria non l'abbiamo avuta, quella storica l'abbiamo e ce la teniamo stretta - ha aggiunto Arnoldi lasciando Palazzo Marino -. La verità giudiziaria credo che non l'avremo mai. Io mi auguro tanto che qualcuno parli ancora ma dopo cinquanta anni la vedo difficile. Diciamo che oggi la verità storica c'è su piazza Fontana, sappiamo chi voleva la strage, quindi Ordine Nuovo nelle persone di Franco Freda e Giovanni Ventura che non sono più processabili perché sono stati assolti due volte, prima a Catanzaro e poi a Bari. Ci attacchiamo a quello, sappiamo chi è stato, non avremo giustizia". "Però - ha proseguito Arnoldi - è importante che i giovani,le nuove generazioni ma anche i professori, la gente comune sappiano. Molte volte ci dicono che dopo cinquanta anni non si sa ancora chi è stato. Non è vero, si sa chi voleva quel giorno portare terrore e paura a Milano, in Italia e probabilmente portare anche a un colpo di Stato".

Licia Pinelli: "Cinquanta anni, passaggio importante.Anno di svolta".
"Quello di quest'anno è un passaggio importante, è una svolta. Ogni parola del presidente sarà un incentivo ad andare avanti per la democrazia. Parlare di mio marito Pino in un certo modo è anche un tassello per la democrazia". Dopo anni di silenzio, nel 50/0 anniversario della strage di Piazza Fontana Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, torna a parlare in un'intervista a Radio Popolare,spiegando che parteciperà oggi al consiglio comunale di Milano,con il presidente della Repubblica Giuseppe Mattarella.

Nasce archivio on line dedicato a Pinelli.
E proprio per ricordare la figura di Giuseppe Pinelli è stato realizzato un sito dove verranno archiviati i 5.000 articoli raccolti da Licia Rognini tra il 1969 e il 2015 su suo marito oltre a testimonianze, video e documenti: il progetto "Giuseppe Pinelli: una storia soltanto nostra, una storia di tutti" realizzato a cura del Centro Studi Libertari con la collaborazione di un comitato scientifico che comprende Claudia e Silvia Pinelli, le due figlie del ferroviere anarchico morto il 15 dicembre del 1969. Lo scopo del progetto, si legge in una nota, è quello di raccogliere materiali, documenti, memorie riguardanti la figura di Pinelli, la sua vita e le circostanze della sua morte, e renderle disponibili sul sito unastoria.archiviopinelli.it. Il progetto intende inoltre "recepire stimoli e segnalazioni,in modo da costruire una storia viva, dialogata, dal basso, e non ideologica".

lunedì 9 dicembre 2019

L'ESEMPIO LABURISTA


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A due anni e mezzo dalle ultime elezioni generali per la composizione per il Parlamento del Regno Unito,ecco che giovedì si torna al voto anticipato per la questione Brexit dove si profila un nuovo testa a testa tra conservatori e laburisti,con i primi che la spuntarono di poco più di due punti percentuali nel 2017(madn la-pessima-vittoria-e-la-buona-sconfitta ).
Il partito del leader Jeremy Corbin con il Manifesto laburista ha virato decisamente ancor più a sinistra mettendo dei paletti fissi su questioni annose come la povertà e la disuguaglianza sociale,con misure incisive sui redditi,gli orari di lavoro e la difesa delle industrie britanniche.
Nel programma,sintetizzato sotto nell'articolo di Contropiano(la-sfida-del-manifesto-laburista ),i punti più salienti del programma che vede anche delle parti riguardo i rifugiati ed i migranti,la situazione del mondo femminile peggiorata negli ultimi anni oltre al diritto della casa e di maggiori tutele sia in ambito lavorativo che sanitario.
Per quanto riguarda la Brexit non si mette in discussione al momento il referendum che vuole l'Uk fuori dall'Europa,ma non in modo che gli Usa possano conquistare economicamente e socialmente il paese e nel caso di un ritorno sui binari di una rinnovata intesa con l'Ue dei termini contro l'austerità.
Per ultimo in campo internazionale non dovranno più esserci favoritismo verso i veri paesi canaglia del mondo,guerrafondai e nemici della democrazia(Israele e Arabia Saudita su tutti),impegnandosi a diminuire i contributi per i conflitti in tutto il mondo.

La sfida del Manifesto laburista.

di  Giacomo Marchetti 
Il 12 dicembre, cioè giovedì di questa settimana, ci saranno le elezioni politiche In Gran Bretagna.

Abbiamo seguito quest’inedita campagna elettorale sin dalla convocazione delle “snap election”.

Nel contributo precedente, oltre a dare un quadro dello stato dell’arte della competizione elettorale, caratterizzata dalla forte polarizzazione tra Conservatori da un lato e Laburisti dall’altro, abbiamo analizzato dettagliatamente i contenuti dei primi due capitoli del Manifesto del Labour, dopo averne dato una sintetica visione d’insieme (http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/12/02/la-campagna-elettorale-in-gran-bretagna-e-il-manifesto-del-partito-laburista-0121437)

Torneremo ad occuparci, prima delle elezioni, delle ultimi fasi della campagna elettorale, ora analizziamo la seconda parte del programma laburista.

Affrontare la povertà e l’ineguaglianze

I labouring poor sono un fenomeno che caratterizza l’attuale società britannica. Mentre le retribuzioni non hanno ancora raggiunto i livelli pre-crisi, i dividendi degli azionisti sono “schizzati” in cielo.

Così, mentre le classi subalterne sono state coinvolte in una spirale di indebitamento a causa dei bassi salari e dall’aumento complessivo del costo della vita, la parte più ricca ha potuto prosperare indisturbata.

“Delle 14,3 milioni di persone in povertà, nove milioni vivono in famiglie dove almeno un adulto lavora. I salari reali sono ancora più bassi di quelli percepiti prima dell’avvento della crisi, mentre i dividendi pagati agli azionisti sono aumentati dell’85%”

Il Labour vuole introdurre un salario minimo di almeno 10 sterline l’ora, dai 16 anni in su, ed un reddito di base universale.

Oltre a questo costituirà un Inclusive Ownership Funds (IOFs), rendendo i lavoratori proprietari di almeno il 10% delle aziende, con una distribuzione equa dei dividendi; per i quali è previsto un tetto, con una parte che servirà per finanziare il fondo per la transizione climatica Climate Apprenticeship Fund.

Aumentare il potere dei lavoratori attraverso l’organizzazione sindacale e la contrattazione collettiva è uno dei cardini del Manifesto, con una serie articolata di proposte che compongono due pagine del programma. In ambito governativo, per restituire parola ai lavoratori, verrà istituito un Ministero per i diritti dell’occupazione (Ministry for employment Rights).

La filosofia con cui il Labour si approccia alla questione è ben spiegata nel preambolo delle proposte:

“Siamo fieri delle conquiste del movimento sindacale nel dare alle persone una voce nei posti di lavoro attraverso la contrattazione collettiva. Non è solo una parte della nostra storia, ma è parte del nostro futuro. Solo cambiando i rapporti di forza in favore dei lavoratori otterremmo salari decenti, sicurezza e dignità al lavoro.

Il prossimo governo laburista trasformerà la vita delle persone in meglio attraverso la più grande estensione dei diritti dei lavoratori nella storia!”

Il progetto di riduzione dell’orario di lavoro è radicale.

“In un decennio ridurremo la media della settimana lavorativa full-time a 32 ore, senza perdita di salario, basata sull’aumento di produttività”

Sono i sindacati la maggior garanzia per un miglioramento della condizione lavorativa.

“Sindacati forti sono il mezzo migliore e più efficiente per i diritti al lavoro. Il Labour introdurrà un nuova, unificata Agenzia di Protezione dei Lavoratori” (Workers Protection Agency).

Il Labour riscriverà le regole complessive della politica industriale, promuovendo una mentalità che liberi dalle esigenze a corto termine degli azionisti, implementando il potere decisionale effettivo dei lavoratori in azienda, destinando un terzo dei posti nel board a direttori eletti dai lavoratori, “perché quando coloro che dipendono da una azienda hanno voce nella sua gestione, la ditta generalmente fa meglio e dura maggiormente”.

Allo stesso modo verranno introdotti criteri protezionistici per tutelare la base industriale della Gran Bretagna, prevenendo soggetti che ne minano la solidità con take-over ostili o il dissanguamento degli asset.

Le politiche dei Conservatori hanno penalizzato la componente femminile della popolazione. “Più dell’85% del peso dei tagli dei Conservatori e dei Lib Dem è ricaduto sulle spalle delle donne”

Il Labour creerà un nuovo Dipartimento per le Donne e le Eguaglianza, con un Segretario di Stato full-time ed una nuova Commissione Nazionale per le Donne.

Un attenzione particolare è rivolta a promuovere una parità di salario effettiva, l’abolizione delle discriminazioni attuali, la piaga delle violenze domestiche e degli abusi sessuali sul lavoro…

Razzismo e discriminazioni in genere saranno priorità dell’agenda governativa, promuovendo una cultura inclusiva che valorizzi le differenze e attui una vera realizzazione dei diritti civili.

Un paragrafo consistente è dedicato alla “comunità LGBT”, perché la politica dei Conservatori è stata piuttosto deficitaria nel rimuovere gli elementi di discriminazione.

Sulle politiche migratorie e sulla condizione dei rifugiati il Manifesto è chiaro, eliminando le storture del passato.

“Porremo fine alla detenzione indefinita, passeremo in rassegna le alternative alle condizioni inumane dei centri di detenzione, e chiuderemo Yarl’s Wood e Brook House.”

Con una politica di tutela dei rifugiati.

La sicurezza sociale per ciò che riguarda la presa in cura delle persone è stata minata dalle politiche dei Tories in differenti aspetti, che hanno fatto diventare la povertà un fenomeno endemico, rendendo strutture pubbliche come la DWP più orentate a “perseguitare” le persone che non ad aiutarle.

Nelle parole delle Nazioni Unite, la rete della sicurezza sociale in Gran Bretagna “è stata deliberatamente rimossa e sostituita con un etica persecutoria e di sostanziale mancanza di cura”.

Una delle piaghe che affligge il Regno Unito è la povertà infantile, che il Labour intende prendere di petto: “metteremo fine al fatto che 300.000 bambini vivono in povertà”.

Tutti i “soggetti deboli” sono stati colpiti, compresi i portatori di handicap.

Sugli anziani le politiche dei Conservatori sono state devastanti: “400.000 pensionati sono stati spinti nella povertà e una generazione di donne nate negli Anni Cinquanta hanno visto cambiare la loro età pensionabile senza una giusta comunicazione. Questo tradimento ha lasciato milioni di donne senza il tempo necessario per fare piani alternativi – con conseguenze personali talvolta devastanti.”

La questione abitativa è uno dei cardini della politica laburista, visti i connotati di vera emergenza che ha assunto. Le conseguenze della politica abitativa dei Tories negli ultimi 10 anni sono devastanti ed hanno come simbolo del loro fallimento la tragedia di Greenfell Tower.

“Ci sono meno case nuove per l’affitto a canone sociale, un milione di inquilini in più costretti all’affitto dai privati. 900.000 giovani in meno che possiedono una casa, più del doppio costretti a dormire in strada”. Il Labour creerà un nuovo Dipartimento per le Politiche Abitative, rinnoverà Home England, facendola diventare una agenzia in cui gli eletti locali siederanno nei posti di comando.

La soluzione più idonea per l’emergenza abitativa è identificata nella costruzione di case popolari – 150.000 l’anno – con una governance adeguata dei processi di “gentrificazione” e un ribilanciamento dei rapporti di forza inquilino/proprietario.

“Più di 11 milioni di persone affittano da un proprietario privato” e soffrono lo strapotere dei proprietari di casa, per non parlare della piaga dei “tenza-tetto”, tra cui ci sono 125.000 bambini.

Il Labour vuole cambiare la “cornice” istituzionale come prodotto di un processo costituente, e propende per la sostituzione della Camera dei Lords con un Senato che rappresenti i territori.

In generale il processo di de-centralizzazione dei poteri e di maggiore partecipazione delle istituzioni locali nei processi decisionali è auspicata, si coniuga con un maggiore autonomia garantita agli Stati dell’Unione.

L’ultima parola sulla Brexit

Il Labour constata il fallimento dei Conservatori nella conduzione delle trattative sulla Brexit, e giudica l’accordo raggiunto da Boris Johnson peggiore di quello raggiunto da Theresa May.

Allo stesso tempo si oppone ad una No-deal Brexit, vista come una minaccia di cui si potrebbe avvantaggiare solo l’amministrazione nord-americana – in specie per la privatizzazione del Sistema Sanitario Nazionale -, e propone di dare l’ultima parola ai cittadini, che saranno chiamati ad esprimersi sull’accordo che sarà raggiunto, predisponendo le basi giuridiche per la realizzazione del voto vincolante dei britannici su questa delicata questione.

Il Referendum proposto non sarà una messa in discussione di quello effettuato nel 2016, ma una sua implementazione.

I perni dell’accordo sulla Brexit, in caso di vittoria laburista, sarebbero l’unità commerciale della Gran Bretagna per “proteggere” il settore manifatturiero britannico e permettere al paese di beneficiare degli accordi commerciali GB-UE, prospettando uno stretto allineamento con il Mercato Unico.

Promuovere gli standard adottati dalla GB sui diritti dei lavoratori, i consumatori e la protezione dell’ambiente come soglia minima sulla quale non giocare al ribasso, continuare la cooperazione in aree vitali con le agenzie e programmi finanziati della UE, una chiara vocazione a continuare la cooperazione in materia di sicurezza poliziesca.

Il Labour assicura in ogni caso di tutelare le garanzie per i tre milioni di cittadini UE che vivono in GB per lavorare e vivere nel Regno Unito, così come vuole garantire il milione e più di britannici che vivono nel Vecchio Continente.

In caso di permanenza nella UE, la Gran Bretagna non accetterà lo status quo, a cominciare dalle politiche di austerity che sono state portate avanti fin qui, propugnando per un “riformismo radicale” imperniato su gangli vitali su cui si basa la politica del Labour.

“Se le persone decideranno di lasciare l’UE, un governo laburista lavorerà in maniera costruttiva con la UE su interessi vitali di mutuo interesse e il per beneficio reciproco della Gran Bretagna e dell’Unione Europea. Ma lasceremo la UE. La cosa più importante, con un governo laburista, avrete l’ultima parola sulla Brexit.”

Un nuovo internazionalismo

Il Labour vuole promulgare un War Powers Act “per garantire che nessun primo ministro possa bypassare il Parlamento per attuare una azione militare convenzionale”. Condurre un audit “sull’impatto dell’eredità coloniale britannica”, incrementare gli sforzi diplomatici britannici per la pace e la tutela del clima. Il riconoscimento di alcuni crimini dell’Impero britannico.

Intende promuovere una politica attiva dei diritti umani, invertendo il corso della vendita di armi a regimi repressivi, considerando che dal giugno 2017 i ministri Conservatori hanno firmato con loro più di “2 miliardi di vendita di armi”.

Propende per la sospensione immediata della vendita delle armi all’Arabia Saudita, utilizzate nel conflitto yemenita, e ad Israele, che le usa contro i palestinesi. “Condurre una riforma root-and branch del nostro regime di export di armi, affinché i ministri non possano più chiudere un occhio rispetto alle armi fabbricate in Gran Bretagna usate per colpire civili innocenti”.

Una politica internazionale attiva nei confronti delle popolazioni discriminate ed una diplomazia climatica attiva, insieme alla prevenzione dei conflitti e la promozione della pace sono tra gli obiettivi del “nuovo internazionalismo” del Labour, a cominciare dalla risoluzione del conflitto israeliano-palestinese.

Questo dovrebbe verificarsi all’interno di una risoluzione che propenda per i “due Stati”, rimuova il blocco sui Territori, l’occupazione e le colonie.

“Un governo laburista riconoscerà immediatamente lo stato della Palestina”, viene detto espressamente, suscitando le ire della lobby sionista.

Una riforma dell’ONU e l’incremento dei fondi per le operazioni di Peacekeeping dell’ONU, rispettando gli impegni nella NATO sono alcuni assunti programmatici

Il rinnovo del Trident nuclear deterrent e la promozione di un mondo libero da armi nucleari.

Il Labour vuole comunque confermare la spesa del 2% del PIL per le forze armate, tutelando il settore dell’industria militare, a partire dal navale e dall’aerospazio.

Una politica di sostegno attivo di tipo “non caritatevole” né imperiale nei confronti del Sud Globale, tesa a porre al centro i bisogni dei più, rispetto ai privilegi dei pochi, in particolare in sostegno delle organizzazioni sindacali, dei movimenti di donne ed in direzione della giustizia climatica, l’accesso al cibo e ai farmaci concludono gli obiettivi dichiarati delle 107 pagine del programma.

venerdì 6 dicembre 2019

LA FRANCIA VERSO LA PARALISI NEI TRASPORTI


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In questi primi due giorni di sciopero generale indetto in Francia contro la riforma pensionistica e parallelamente per chiedere le dimissioni del Presidente Macron molte città,Parigi soprattutto,sono in ginocchio per la paralisi del traffico dovuto all'intransigenza dei lavoratori dei trasporti che hanno incrociato le braccia.
Come più volte è avvenuto nel corso degli ultimi anni(vedi:madn la-mobilitazione-francese )in Francia lo sciopero è un momento di coesione di tutti i lavoratori che spesso va oltre le appartenenze e le simpatie politiche,perché se una cosa va male lo è per tutti,e il tema caldo come detto è quello delle pensioni,che ancora deve essere portato in campo ma la protesta si è fin da subito infiammata per le indiscrezioni che vogliono un'età sempre più alta,molti meno introiti rispetto a quelli versati ed un ripartizione peggiorativa della sulla condizione retributiva in tutta la vita lavorativa(soprattutto per le donne)...insomma un livellamento verso il basso come da noi ma con reazioni totalmente differenti.
L'articolo(infoaut francia-e-greve-generale )parla della situazione che si è venuta a creare in tutto il paese e nella capitale dove gli occhi sono puntati maggiormente,dove nei servizi televisivi non si parla degli scempi che vogliono imporre ai lavoratori ma si limitano agli scontri fomentati da una piccola percentuale di manifestanti.

Francia: è grève générale !

Riceviamo e pubblichiamo da un compagno a Parigi un commento sulla giornata di sciopero di ieri a Parigi.

La tanto attesa data del 5 dicembre è arrivata. Trainata dal protagonismo degli cheminots, i lavoratori delle ferrovie e dell’azienda del trasporto pubblico di Parigi, la mobilitazione si è presto espansa alla pressoché totalità del settore pubblico: lo sciopero dei trasporti si è trasformato, nel corso della sua costruzione, in sciopero generale, che ha strabordato a sua volta in forme di opposizione e resistenza alle politiche di ristrutturazione neoliberale ben oltre semplice giornata di giovedì. Sciopero illimitato, blocchi, cortei selvaggi, azioni e occupazioni di piazze hanno preceduto, attraversato e superato la giornata di ieri: una reale strategia di attacco verticale che punta direttamente alle stanze dell’Eliseo.

Sono gli studenti dei licei ad aprire, alla vigilia dello sciopero, le danze, con blocchi sparsi negli istituti superiori e cortei selvaggi nel centro della capitale francese. La serrata, messa in campo dalla dirigenza universitaria della Sorbona, di parte dei poli universitari e la presenza di agenti armati di fronte alla sua sede centrale è specchio di un forte timore da parte del potere, causato dal ritrovato protagonismo del mondo della formazione, che nelle mobilitazioni contro la precarietà studentesca delle ultime settimane ha ritrovato vigore e volontà di convergere nella mobilitazione contro la riforma delle pensioni che agita il paese. Il risultato è un 5 dicembre di blocco e paralisi di gran parte dei settori strategici: trasporti, istruzione, sanità, raffinerie e settore energetico registrano altissime percentuali di scioperanti, in tutto il paese. Più di un milione di persone sono mobilitate in tutta la Francia, di cui 250.000 in piazza a Parigi.

Della giornata parigina di giovedì è, anzitutto, il colpo d’occhio a impressionare. In una capitale completamente bloccata dallo sciopero dei mezzi, il numero e la composizione della piazza sono significativi. Gilets gialli, un’importante partecipazione di pompieri in divisa, k-way neri e lavoratori con l’uniforme del settore di appartenenza rappresentano una buona parte della marea che invade i boulevards parigini. Ai primi scontri, sarà proprio questa miscela sociale esplosiva a mettere in pratica forme di dura resistenza, che terrà impegnati gli agenti per ore. Dalle cariche, contro-cariche e barricate di Place de la République, fino alla risposta determinata alle sciocche provocazioni della polizia, alla fine del corteo a Nation. Forme di cooperazione sociale eterogenee, in cui la resistenza di piazza, trainata dalla componente giovanile, si è accompagnata a forme inedite di protagonismo di soggetti non tradizionalmente associati a forme radicali di conflitto, con colonne di pompieri in divisa che fronteggiano e fanno arretrare gli agenti, in più occasioni, o membri della base CGT, che contribuiscono attivamente alla resistenza di fronte ai tentativi di spezzare il corteo e dividerne la forza. L’affollatissima assemblea generale tenutasi alla fine della giornata di lotta rilancia la mobilitazione. Lo sciopero dei mezzi è, per ora, confermato fino a lunedì, mentre l’attenzione è rivolta alla giornata di sabato, quando gli scioperanti convergeranno all’interno del tradizionale atto dei Gilets Gialli.

È “convergenza” la parola d’ordine che guida la costruzione della mobilitazione. Gilets gialli, basi sindacali, studenti e pezzi del mondo dell’ecologismo radicale hanno costruito negli ultimi mesi una piattaforma trasversale che, intorno alla data del 5, è riuscita a imporre alle burocrazie delle realtà sindacali promotrici forme e contenuti di una mobilitazione che va ben oltre la rivendicazione del blocco della contestatissima riforma delle pensioni. “Macron démission”, obiettivo minimo, è l’epiteto di una critica radicale all’esistente che negli ultimi anni le piazze francesi sono riuscite a imporre al dibattito pubblico, consolidate in un anno di straordinaria agitazione sociale. Se “Giletjaunizzare lo sciopero” era uno degli intenti principali dei gruppi autonomi e radicali che vi hanno preso parte attiva, si può parlare di un risultato pienamente ottenuto.

La mobilitazione, in costante costruzione, vive della propria imprevedibilità. Non è dato sapere quanto durerà lo sciopero, né quali strategie di risposta verranno adottate, ma un dato è certo: l’autorganizzazione costruita negli ultimi anni di scontro e resistenza alle politiche di ristrutturazione neoliberali è, ormai, affermata in quanto grammatica del discorso politico quotidiano. Se la sfida è quella della tenuta e della continuità, si può stare certi che la mobilitazione non è che al suo inizio: continuons le début!

giovedì 5 dicembre 2019

SETTANT'ANNI D'INFAMIA


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In questi giorni a Londra si sono incontrati alcuni dei leaders mondiali per il settantesimo anniversario della creazione della Nato,acronimo dell'Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord,figlio della nascente guerra fredda in un dopoguerra ancora pieno d'insidie e di strascichi importanti e tragici.
Il redazionale di Contopiano(settantanni-di-nato )parla della nascita di questa congrega che fin da subito ha fatto tanti danni e provocato molte tensioni,sfociate anche in guerre con praticamente alla testa gli Usa con i cagnolini Gran Bretagna e Francia al guinzaglio,mentre sei anni più tardi in contrapposizione ad essa nacque per sciogliersi nel 1991 il Patto di Varsavia composto dall'Urss e dai paesi dell'est Europa comunisti(Jugoslavia esclusa).
I poteri politici e militari dei 29 paesi membri sono molto forti nell'egemonia mondiale,c'è un controllo tanto potente da indirizzare trattati economici e influenzare il decorso di conflitti bellici(vedi:madn la-nato-comanda-e-noi-ubbidiamo ),soprattutto basti pensare agli interventi nei Balcani e in Afghanistan negli ultimi decenni.
Ma l'articolo si sofferma molto sull'ingresso italiano nella Nato,fortemente osteggiato da comunisti e socialisti ma non solo,anche una buona fetta dei cattolici era contro,poi c'è da dire che soprattutto la Francia era una strenua oppositrice di questa annessione,dopotutto avevamo perso la guerra e c'era ancora la situazione irrisolta di Trieste,ma decisivo fu l'intervento di Papa Pio XII che spostò i voti verso l'adesione alla Nato contro i nemici dell'ateismo e del comunismo.
Le dichiarazioni di questi giorni di Macron che una volta ogni tanto l'azzecca(la Nato è anacronistica e non ha più necessità d'essere)ha trovato la reazione pronta di Trump e dello scagnozzo Johnson oltre che il servilismo più abbietto di altri membri,con l'Italia da sempre in prima fila.

Settant’anni di Nato.

di  Redazione Contropiano 
Cosa resta della NATO nel momento in cui i Capi di Stato e d Governo degli stati membri si riuniscono a Londra per festeggiare il settantesimo anniversario dell’organizzazione?

Una risposta difficile a una domanda difficile: per intanto con questo intervento molto schematico ci si limita a riassumere le vicende che portarono, nella fase d’avvio della “guerra fredda” alla stipula del trattato.

L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (in inglese North Atlantic Treaty Organization, in sigla NATO, in francese: Organisation du Traité de l’Atlantique Nord, in sigla OTAN) è un’organizzazione internazionale per la collaborazione nel settore della difesa.

Il trattato istitutivo della NATO, il Patto Atlantico, fu firmato a Washington il 4 aprile 1949, ovvero nell’immediato secondo dopoguerra, ed entrò in vigore il 24 agosto dello stesso anno. Attualmente, fanno parte della NATO 29 paesi. Ha sede a Bruxelles. Il mondo nel frattempo è profondamente cambiato e l’organizzazione appare per la prima volta dentro a una vera e propria crisi d’identità immersa com’è in un disordine globale che alla fine potrebbe anche decretare la fine del “ciclo occidentale”.

Vale la pena allora tornare alla ricostruzione di ciò che avvenne al momento della formazione dell’Alleanza per cercare di riconoscerne, attraverso la memoria, i tratti distintivi.

Allora, andando per ordine.

Tra la metà del 1947 e la metà del 1948 la divisione dell’Europa era compiuta.

La “cortina di ferro” evocata da Churchill nel marzo 1946 era diventata un’effettiva realtà: le due parti del continente erano separate da una completa diversità di forme di governo e di sistemi politici.

L’Unione Sovietica cercava di consolidare la propria egemonia sull’Europa orientale; l’ERP e la formazione di governi politicamente omogenei in tutti i paesi dell’Europa Occidentale avviavano un processo di ricostruzione e integrazione, del quale la creazione della Repubblica federale di Germania era il momento più risonante.

Si era avviato anche uno sforzo, propugnato dagli Americani ma fatto proprio anche da un certo numero di statisti europei, di consolidare la rinascita dell’Europa occidentale, mediante un processo di integrazione graduale, che molti considerarono il primo avvio verso l’unificazione europea.

La politica degli Stati Uniti verso l’Europa e nei confronti dell’Unione Sovietica era stata costruita sui due presupposti della supremazia militare e di quella economica.

Secondo la tradizione della loro politica gli Americani avevano ancora mostrato di prediligere le formule dell’impegno non politico e non diretto.

Tra la fine del 1947 e i primissimi mesi del 1948 la misura di questo impegno apparve rapidamente insufficiente: in Europa si sta diffondendo il timore che i benefici del piano Marshall fossero potenzialmente messi in pericolo dall’estendersi dell’influenza sovietica e persino dall’esistenza di una minaccia militare sovietica.

Questa “paura” aveva però le sue radici più nella psicologia di massa che nella realtà delle situazioni.

Il fallimento della riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri tenuta a Londra nel novembre – dicembre 1947 spinse i governi a prendere atto dell’intersecarsi delle crisi interne con i problemi internazionali.

Inoltre in Italia e in Francia si avviò una stagione di turbolenze sociali con scioperi economici e politici appoggiati dai partiti comunisti e socialista cui corrispose una feroce repressione poliziesca.

In Italia nelle elezioni del 1948 le sinistre si presentarono unite sotto il simbolo del Fronte Popolare e furono sconfitte dalla Democrazia Cristiana, qualche mese dopo in seguito all’attentato a Togliatti si vissero momenti di timore per una fase apertamente pre-insurrezionale.

Il colpo di stato di Praga aveva già aggiunto altri elementi a questo quadro di definizione di quella che poi sarebbe stata denominata “guerra fredda”.

Un primo passo verso la costituzione di un fronte occidentale europeo. nel quale la Francia superasse i suoi timori rispetto alla rinascita della Germania e all’appoggio di cui tale processo godeva negli Stati Uniti e la Gran Bretagna e cercasse di mantenere una sorta di legame/controllo rispetto agli equilibri della nuova Europa era già stato fatto con la firma, avvenuta il 4 marzo 1947, del trattato anglo – francese di Dunkerque.

Quel trattato anglo –  francese presupponeva un’alleanza diretta contro la rinascita militare tedesca ma anche politicamente espressiva dell’intenzione dei due paesi di collegarsi per bilanciare la supremazia americana e sovietica.

In questo clima e sulla base del principio che l’iniziativa europea sarebbe stata seguita da una risposta americana, ebbe inizio la preparazione di un trattato fra alcune potenze dell’Europa Occidentale.

La prima indicazione pubblica di questo passo si ebbe con un discorso del ministro degli Esteri inglese Bevin svolto alla Camera dei Comuni il 22 gennaio 1948.

Per quanto vago il progetto di Bevin fu sufficiente a mettere in moto un negoziato.

Un negoziato complesso, poiché esso non era ancora svincolato dall’eredità dei problemi della guerra o dalle ambizioni delle due grandi potenze europee (Francia e Gran Bretagna) di creare un sistema capace di esprimere in primo luogo le esigenze di una di esse: alle trattative parteciparono oltre agli anglofrancesi soltanto i 3 paesi del Benelux.

Il 17 marzo 1948 venne firmato a Bruxelles il trattato istitutivo dell’alleanza a cinque, poi chiamata Unione occidentale.

Si trattava di un’alleanza cinquantennale diretta contro la rinascita di un pericolo tedesco mediante la reciproca garanzia di un aiuto militare e politico e mediante l’impegno a concertarsi sulle misure da adottare “in caso di ripresa aggressiva da parte della Germania” o su qualsiasi situazione che potesse rappresentare una minaccia contro la pace, dovunque essa si fosse presentata.

Era prevista anche la costituzione di un Consiglio consultivo e di una Commissione permanente, dalla quale sarebbero poi potute scaturire altre strutture organizzative.

L’occasione fu colta da quanti, assicurato l’appoggio americano, pensarono di far affiorare anche sul piano politico un’ondata di europeismo: dalla nascita dell’Unione Occidentale si cercava di intravedere un embrione di federalismo, ed è questo un punto che oggi dovrebbe essere sottoposto a un vaglio di riflessione storica nel mentre si esaminano i successivi passaggi che portarono alla costituzione dell’Unione Europea.

La trasformazione del patto di Bruxelles in un’alleanza più vasta era desiderata dagli Inglesi, che consideravano questa ipotesi come lo sviluppo del loro compito di mediazione fra gli Stati Uniti e l’Europa; dai francesi essa venne considerata come un modo per confermare il loro primato continentale e per fare di questo il punto di riferimento sia della stessa Europa Continentale sia della nuova Germania che contemporaneamente stava per essere ricostituita.

Gli USA, dal canto loro, sfruttarono questa situazione per concludere che soltanto l’estensione dell’Unione occidentale avrebbe potuto acquistare l’efficacia necessaria a rendere credibile un trattato “difensivo” rispetto alla minaccia sovietica.

L’11 giugno 1948 la commissione esteri del Congresso approvò la cosiddetta “risoluzione Vandenberg” considerata come una svolta storica nella politica estera americana; vi si sosteneva, infatti, l’obiettivo dell’associazione degli Stati Uniti, mediante procedimento costituzionale, a quegli accordi regionali o a quegli accordi collettivi che fossero basati sul continuo ed effettivo impegno di autodifesa e sul reciproco aiuto, e che concernessero la sicurezza nazionale degli stessi Stati Uniti.

La risoluzione pose le premesse istituzionali perché fosse possibile a Truman autorizzare l’inizio a Washington di colloqui esplorativi che ebbero inizio il 6 luglio 1948 e terminarono nel marzo 1949, quando tutti i problemi relativi alla stesura del trattato dell’Atlantico del Nord o Patto Atlantico furono risolti.

La questione della delimitazione geografica dell’alleanza pose interrogativi di vari natura e non venne risolta se non alla vigilia della conclusione del negoziato.

Il concetto di area atlantica poteva essere inteso in senso restrittivo o in senso estensivo ma il problema vero era chiarire subito se tutti gli Stati importanti per un progetto di sicurezza dell’Europa Occidentale dovevano essere ammessi su di un piede di parità nell’alleanza.

Il 20 marzo 1949 il nuovo segretario di Stato americano, Dean Acherson che aveva da poco sostituito il generale Marshall diede l’annuncio dell’imminente firma del trattato.

La cerimonia ebbe luogo il 4 aprile 1949 a Washington con la partecipazione dei rappresentanti di 12 paesi: USA, Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Portogallo, Italia, Norvegia, Islanda e Danimarca

Il punto nodale del trattato era rappresentato dall’articolo 5 che così recitava:


“Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica.»

Questa misura era concepita in modo tale che se l’Unione Sovietica avesse lanciato un attacco contro uno qualsiasi dei paesi membri, questo sarebbe stato trattato da ciascun paese membro come un attacco diretto, ed era rivolta soprattutto a una temuta invasione sovietica dell’Europa occidentale.

L’APPROVAZIONE DELLA ADESIONE DELL’ITALIA ALLA NATO

In Italia erano duramente contrari alla NATO i comunisti e i socialisti, usciti sconfitti dalla prova elettorale del 18 aprile 1948 e fermamente decisi a contrastare l’ingresso dell’Italia in un patto militare occidentale. Con loro erano schierati i socialdemocratici di Saragat, da poco entrati a far parte della coalizione governativa presieduta da De Gasperi. E con loro c’era anche una buona parte del mondo cattolico e leader prestigiosi come Giuseppe Dossetti e Giovanni Gronchi. E questa non era l’ unica difficoltà. Se si esclude la Francia, quasi tutti i membri della futura alleanza, in testa gli Stati Uniti, sembravano contrari all’ingresso dell’Italia, paese vinto e mediterraneo, in un patto che a non caso prendeva il nome di Atlantico.

De Gasperi non prese subito una posizione netta, ma era chiara la sua volontà di salire, senza porre condizioni, sul treno in formazione di quell’alleanza. D’ accordo col ministro degli Esteri Carlo Sforza, De Gasperi attivò, fin dall’ estate del 1948, tutti i canali utili per favorire la nostra partecipazione. In particolare chiese il parere dei tre ambasciatori piazzati nei punti strategici della politica mondiale: a Washington, a Mosca, a Parigi.

Lo storico Brunello Vigezzi in una ricostruzione di grande interesse (La dimensione atlantica, Jaca Book editore) ha portato alla luce le varie fasi di quel singolare dibattito a tre voci. Da Parigi l’ ambasciatore Pietro Quaroni invitò il governo De Gasperi a non traccheggiare, e ad aderire senza esitazioni o riserve.

Manlio Brosio, da Mosca, fece invece sapere di non essere per nulla d’ accordo col suo collega Quaroni. A suo parere la formula della neutralità era la sola che poteva consentire d’ impostare, di fronte all’ Unione Sovietica, il problema della revisione del Trattato di pace: riarmo, colonie, e la questione di Trieste.

Per Alberto Tarchiani, che dal suo privilegiato osservatorio di Washington era forse quello più in grado di capire cosa stava bollendo nella pentola atlantica, le tesi di Brosio erano un non senso: “La nostra neutralità armata permanente”, sostenne Tarchiani, “appare un mito quando si rifletta alle condizioni economiche e finanziarie in cui l’ Italia si dibatte e si dibatterà per molti anni”.

C’era poi da tener conto del parere della Santa Sede. I due maggiori responsabili della diplomazia vaticana avevano in proposito idee abbastanza diverse. Monsignor G. B. Montini, il futuro Paolo VI, sosteneva che la missione civilizzatrice dell’ Italia non era affatto incompatibile con la piena adesione alla politica detta “occidentale”. Monsignor Domenico Tardini pensava al contrario che “l’adesione dell’Italia ai patti di carattere militare sarebbe stata altrettanto inutile e dannosa al gruppo che, intorno all’America, assumesse con noi reciproci impegni… “.

A dirimere le divergenze ci pensò Pio XII. L’ 11 febbraio del 1949 il Papa, in un durissimo documento, descrisse un mondo nettamente diviso in due: da una parte il bene della libertà religiosa, e dall’altra le tenebre dell’ateismo e del comunismo.

Per questo, tuonò Pacelli, la posizione della Chiesa non doveva prestarsi a equivoci. Una frase, soprattutto, fu interpretata come un chiaro incoraggiamento a entrare nell’alleanza: “Chi non sente timore e orrore per le rivalità, le discordie cittadine, e per la conflagrazione di guerre che, in avvenire, saranno quanto mai micidiali per la potenza delle nuove armi?”.

Proprio per questo, fu la conclusione di Pio XII, “noi salutiamo con gioia e approviamo quelle iniziative che, allo scopo di sventare tali minacce, tendono a riunire le nazioni in alleanze con vincoli sempre più stretti”. Non si poteva essere più chiari e “atlantici”.

Siamo alle solite, scrisse Togliatti in un articolo di risposta intitolato “Dio e il patto atlantico”. Contro gli “odiatori di Dio”, ironizzava il segretario del Pci, “la Chiesa mobilita il blocco di Londra e il Patto Atlantico”, e mentre le alleanze imperialistiche faticano a realizzarsi, ecco arrivare “l’ acquasanta a benedirle”. Ai primi di marzo del 1949 la questione arrivò alla stretta finale.

L’ 8 marzo il dipartimento di Stato americano comunicò, infatti, al governo italiano, tramite Tarchiani, l’ invito a partecipare al costituendo Patto Atlantico i cui negoziati erano in corso a Washington. Tre giorni dopo, l’ 11 marzo, De Gasperi informò il Parlamento che il Consiglio dei Ministri si era pronunciato “per l’ accessione in via di massima al Patto e quindi per la partecipazione alle discussioni nella fase conclusiva dei negoziati”. Per questo, concluse De Gasperi, chiedo il voto di fiducia delle Camere.

L’ esito dello scontro parlamentare si presentava incerto. La posizione chiave era costituita dai socialdemocratici. La destra, capeggiata da Saragat e D’ Aragona, era favorevole. Il centro, rappresentato da Mondolfo e Faravelli, era tiepido ma in linea di massima sfavorevole ai patti militari. La sinistra di Matteotti, Zagari, Vassalli, Vigorelli era invece decisamente anti Nato.

Solo dopo lotte accanite, e massicci interventi interni ed esterni, Saragat riuscì quasi in extremis a fare schierare il Psdi a favore dell’ Alleanza. Le incognite erano molte. Oltre alla posizione fluida del Psdi c’erano molti deputati democristiani che nel segreto dell’ urna avrebbero potuto non seguire la linea filoatlantica del partito.

All’interno della Dc, mentre fervevano le discussioni in Parlamento, il dibattito fu, infatti, abbastanza acceso anche se dall’ esito scontato. Di fronte a De Gasperi che si affannava a spiegare le ragioni che imponevano di aderire all’ alleanza, Gronchi, Dossetti e Gui manifestarono a lungo la loro aperta contrarietà. Il dibattito cominciò l’ 11 marzo e fu violento fin dalle prime battute. Il voto conclusivo, previsto per il 16 marzo, fu rimandato più volte.

L’ orologio di Montecitorio fu fermato per la seduta fiume che durò cinquantuno ore senza alcuna interruzione. Nei vari punti dell’ emiciclo si accendevano di continuo zuffe e colluttazioni che i commessi facevano fatica a domare.

Una cronaca del Corriere della Sera descrisse così la scena: “All’improvviso ecco balzare alto nella mischia il comunista Giuliano Pajetta che, partito come un razzo dal terzo settore, con tre balzi aerei, da un settore all’altro, è piombato a tuffo nel groviglio di teste, braccia e gambe e in quel groviglio sparisce inghiottito. Lo si vede riemergere poco dopo, con il colletto slacciato, la faccia paonazza e i pugni in azione. Da un settore dell’estrema sinistra vola un cassetto di legno, al quale un altro ne segue subito dopo. Anche i due proiettili spariscono nel mucchi“Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica.»o, mentre due poltrone degli stenografi galleggiano nella mischia impugnate per le gambe da deputati decisi a servirsene come clave”.

Il dibattito si concluse il 18 marzo 1949 con questo esito: 342 voti a favore, 170 contrari, 19 astenuti (missini e sinistra socialdemocratica).

Contemporaneamente al dibattito parlamentare si svolsero grandi manifestazioni di piazza organizzate dalla sinistra: il 17 marzo a Terni le forze di polizia spararono uccidendo l’operaio Luigi Trastulli e ferendone altri 12.

In seguito per  molti anni nelle manifestazioni la sinistra fece echeggiare lo slogan: “Fuori la NATO dall’Italia, fuori l’Italia dalla NATO” con chiaro riferimento anche alla presenza delle basi americane nel nostro Paese che l’adesione al trattato aveva consolidato, un tema che nonostante il modificarsi dell’assetto delle relazioni internazionali rimane comunque di assoluta attualità.

Oggi con il ritorno dei nazionalismi appare conclusa la fase del post – caduta del Muro di Berlino, quella della “fine della storia” e degli USA “gendarmi del mondo”, esportatori di “democrazia”.

Rimane l’interrogativo riguardante il valore e l’attualità di un’organizzazione come quella del Patto Atlantico soprattutto dal punto di vista dell’Europa che, come scrive Gian Giacomo Migone sul “Manifesto”, non può essere considerata semplice terreno di conflitto e di spartizione da parte dei vari Trump, Putin, XI Jinping.

La risposta a questo quesito riguarda tutti gli europei e l’Italia non può sottrarsi esaltando semplicemente il richiamo alla propria sovranità mentre si sta preparando una nuova era nella quale sarà necessario rivedere la nostra capacità complessiva di individuare le nuove grandi “fratture” a livello globale.

mercoledì 4 dicembre 2019

ANCORA RAZZISMO ATTORNO AL MONDO DEL PALLONE


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Sarà poi efficace fino in fondo la campagna nazionale promossa dalla Figc contro il razzismo sempre più dilagante negli stadi italiani ed in tutte le categorie?A me sembra che ad ora non ci sia la voglia fino in fondo di contrastare questo orripilante fenomeno che fa vergognare ed incazzare sia dentro che fuori il canonico rettangolo di gioco.
Forse in primis le società di Serie A appoggiano questa iniziativa per non subire multe o peggio ritrovarsi con settori o stadi vuoti,non posso credere che società come Lazio e Hellas Verona,non penso sostenitrici(meglio me lo auguro)delle proprie tifoserie dichiaratamente di estrema destra,possano essere ostaggio delle proprie tifoserie e difenderle sempre e comunque come già avvenuto.
Ma accade su tutti i campi tutte le domeniche e a qualsiasi livello agonistico,nessuno escluso anche se in certi casi fortunatamente i razzisti vengono subito zittiti anche a ceffoni in faccia,in quanto nel bene e nel male nella curva e nelle altre zone degli stadi c'è lo specchio della società attuale,che piaccia o meno e nonostante i propositi di lasciare la politica al di fuori dei discorsi calcistici(mera utopia).
Gli articoli proposti parlano di due casi eclatanti che hanno fatto e stanno facendo discutere in Italia,partendo da quello più recente(ilmessaggero.it/sport )con le dichiarazioni dell'ad dalla Lega di Serie A De Siervo,che propone praticamente di gettare lo sporco sotto il tappeto censurando dalla televisione gli ululati e gli slogan razzisti,che perfino una mente non brillante come quella del capo della polizia Gabrielli ritiene sbagliata in quanto facendo in tal modo non si risolve nulla,anzi bisogna parlarne e fare sentire tutto.
Poi c'è il caso della calciatrice della Juventus Aluko(tgcom24.mediaset.it )che lascia Torino non direttamente per il razzismo nel mondo del calcio ma per quello latente,più subdolo e pericoloso,che la accompagna nei gesti e nelle parole degli abitanti(non tutti ovvio)del capoluogo piemontese ed in generale dell'Italia,dai comportamenti nei negozi ai controlli aeroportuali.
Due ennesime pagine tristi che legano il calcio al razzismo,due moniti che devono essere riportati e spiegati,anche se da capire e comprendere almeno per la maggioranza degli italiani non penso che bisogni dirlo neanche.

Razzismo in serie A, l'audio di De Siervo: «Spegniamo i microfoni». Poi spiega: era per evitare emulazioni.

di Emiliano Bernardini
​Caos Serie A, l'audio rubato dell'ad De Siervo: «I cori razzisti? Per non sentirli spegniamo i microfoni»
Lega di Serie A sempre più nel caos. Non bastavano le dimissioni del presidente Gaetano Miccichè. Ora nella bufera c'è l'amministratore delegato Luigi De Siervo. Ancora una volta è un audio a creare scompiglio nella sede di via Rosellini a Milano. Dopo quello legato all'assemblea elettiva, ora ne spunta uno in cui l'ad De Siervo propone una soluzione tutta sua per i cori razzisti: «spegniamo i microfoni direzionali, così gli ululati non si sentono».
 
A breve è prevista una conferenza stampa di fuoco di De Siervo. Che intanto si difende, sostenendo che l'ipotesi di spegnere i microfoni direzionali sarebbe stata una misura legata esclusivamente al prodotto televisivo: «Nell'audio si sente solo una frazione del ragionamento. Che era molto più ampio. Stavamo parlando di produzione televisiva. Stavamo ragionando di come le riprese tv possono raccontare al meglio la bellezza del calcio. Lo facciamo continuamente. E la linea è evitare di indugiare sui brutti episodi che ogni domenica capitano». Del resto il giudice sportivo, per assumere le proprie decisioni, utilizza non gli audio diffusi dalla televisione, ma i rapporti scritti dagli ispettori della Lega.

Come atto dovuto, comunque, con ogni probabilità sarà aperto a breve un fascicolo di indagine sull'episodio dalla giustizia sportiva.

De Siervo si difende. «Il tentativo che è stato fatto era quello di evitare di trasformare in eroi determinati ragazzi. Se hanno determinati atteggiamenti sono considerati degli eroi. C'è il rischio di emulazione, come accaduto con il lancio delle pietre nei cavalcavia. Dobbiamo evitare di trasformare in eroi dei criminali»: così l'ad della Lega Serie A Luigi De Siervo, in conferenza stampa, spiega le sue dichiarazioni dell'audio registrato durante un consiglio di Lega del 23 settembre e pubblicato da Repubblica. «Ho chiesto ai nostri registi - diceva - di spegnere i microfoni verso la curva».

Procura Figc apre inchiesta. Le frasi sui cori razzisti «da non trasmettere in diretta tv» pronunciate dall'amministratore delegato della Lega di serie A, Luigi De Siervo, hanno immediatamente suscitato l'interesse della procura della federcalcio che ha appena aperto un procedimento sulla vicenda. Lo apprende l'Ansa. Al più presto, trapela da fonti qualificate, la Procura chiederà l'audio di cui è in possesso il sito Repubblica.it.

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La calciatrice Aluko lascia Juve e Italia, e attacca: "Trattata come Escobar, scappo da Torino" | Poi la precisazione: "Non lascio per razzismo"

Lʼattaccante nigeriana naturalizzata britannica, pronta a volare allʼestero, accusa: "La città è molto indietro nellʼaccettare le diversità". Il sindaco: "Ci sono stati episodi discriminanti ma non ci rassegniamo"

"A volte Torino sembra un paio di decenni indietro nei confronti dei differenti tipi di persona. Sono stanca di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che ruba". La calciatrice Eni Aluko ormai ha deciso: lascia la Juventus, lascia Torino, lascia l'Italia. Per quella orrenda sensazione che talvolta (o spesso, o quasi sempre) si è sentita addosso. Razzismo: è questa la parola giusta. Tornerà in Inghilterra, ma prima di trasferirsi ha rilasciato una (pesantissima) intervista al The Guardian. Poi la precisazione: "Ho parlato di esperienze positive e negative anche in Inghilterra".

L'attaccante nigeriana e naturalizzata britannica (che ha anche affermato che spesso, atterrata all'aeroporto di Torino, i cani antidroga l'hanno "fiutata come fossi Pablo Escobar") ha voluto precisare di non avere avuto "alcuna esperienza di razzismo dai tifosi della Juventus né nel campionato di calcio femminile", ma ha voluto evidenziare che "il tema in Italia e nel calcio italiano c'è ed è la risposta a questo che veramente mi preoccupa, dai presidenti ai tifosi del calcio maschile che lo vedono come parte della cultura del tifo".

 La giocatrice ha invitato la società, per continuare ad attrarre i talenti dell'Europa dall'Italia, a "farli sentire a casa". Questa, ha concluso, "è una parte importante di un progetto a lungo termine". Lei, comunque, non tornerà indietro. La decisione è stata presa. Sabato, contro la Fiorentina, Eni Aluko giocherà la sua ultima partita con la maglia della Juventus Womens. L'ultima partita a Torino. L'ultima partita in Italia.

Appendino: "Parole che pesano come un macigno" - Le affermazioni di Eniola Aluko, ex giocatrice della Juventus Women che ha accusato Torino di essere una città razzista "pesano come un macigno". Lo dice il sindaco Chiara Appendino, ricordando che quella di Torino è "storia di porte aperte". "Purtroppo nel Paese sono tornati episodi discriminatori - ammette - ma ad essere tornata indietro non è la città, solo alcune persone che non rappresentano che loro stesse. Torino non si rassegna".

martedì 3 dicembre 2019

LA CONFERENZA DI MADRID UNA RIUNIONE INUTILE?


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Come la precedente conferenza internazionale per il clima di Parigi,quella che si sta svolgendo ora a Madrid(doveva essere Santiago del Cile prima e poi il Brasile ad essere le sedi deputate per questo convegno)rischia di essere un enorme buco nell'acqua in quanto si assiste a dei lavori cui la metà dei partecipanti sono"infiltrati"dei governi che intervengono per calmierare se non annullare le multe contro gli Stati che decidono di non aderire ai trattati(vedi gli Usa:madn trumpil-clima-e-lambiente ).
Il primo dei due articoli,entrambi di Left(cop25-e-green-new-deal-italia e cop25-chi-manovra-i-manovratori-del-clima )parla esclusivamente della situazione italiana e di quello che si è fatto,(pardon,non si è fatto)su direttive europee,fino ad oggi,ossia intervenire radicalmente contro una situazione che da noi,per mezzo del cambiamento climatico,vede una situazione sempre più disastrata dove bastano un paio di giorni di pioggia per mettere in ginocchio un intero paese.
Il secondo di focalizza su Madrid e sul rischio reale che le decine di nazioni e le migliaia di delegati presenti poco possano fare seduti attorno ad un tavolo dove mancano i principali responsabili di questa situazione che sta distruggendo la terra e che viene fin troppo strumentalizzata in entrambe gli schieramenti tra chi vuole continuare a lordare il pianeta e chi lo vuole(veramente?)difendere.

Cop25 e Green new deal: Italia all’avanguardia contro l’effetto serra e la povertà energetica?

di Guido Marinelli
Il presidente del Consiglio, la Confindustria, i partiti: tutti ci dicono che l’Italia è all’avanguardia nel Green new deal, nella riconversione ecologica per contrastare i cambiamenti climatici. Ma sarà vero? Cerchiamo di capirlo meglio partendo dal ‘PNIEC’: suona quasi come una parolaccia, sembra uno pneumatico che si sta sgonfiando. Invece no, vuol dire Piano Nazionale Integrato Energia e Clima. Oppure sì? È uno pneumatico sgonfio? Forse sì e forse no. Dipende da quello che succederà da qui al 31 dicembre. Pochi giorni per definire le azioni e gli obiettivi che l’Italia deve attuare dal 2020 al 2030 per ridurre l’impatto su clima.

Vi sembra poco? Secondo gli scienziati abbiamo 11 anni per intervenire e mitigare il riscaldamento climatico, la produzione di gas serra, per invertire il trend e portare il nostro pianeta e la nostra società a essere più giusta e sostenibile. Quindi proprio fino al 2030. Solo questa considerazione ci dovrebbe far capire quanto è strategico il PNIEC e quanto è importante che parta come uno pneumatico bello gonfio di interventi e strategie.

Eppure non ne parla nessuno. Siamo tutti concentrati sul “fondo salva stati” o sulla finanziaria per decidere qualche centesimo in più o in meno su qualche tassa. Ma che ce ne faremo di qualche centesimo se avremo fallito un piano così importante per il nostro futuro?

Cosa è il PNIEC e a cosa serve? A dicembre 2018 la Commissione europea ha definito il regolamento 2018/1999 “sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima” che prevede la realizzazione dei “piani nazionali integrati per l’energia e il clima”. Tali piani per il primo periodo (2021-2030) devono dedicare particolare attenzione agli obiettivi 2030 relativi alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, all’energia rinnovabile, all’efficienza energetica e all’interconnessione elettrica. Un altro aspetto da indicare nei piani è la percentuale di popolazione in povertà energetica e gli obiettivi per ridurla. In Italia il 16% della popolazione (dati 2016 dell’Osservatorio Europeo sulla povertà energetica) è in povertà energetica cioè in una situazione nella quale non è in grado di pagare i servizi energetici primari (riscaldamento, raffreddamento, illuminazione, trasporti e corrente) necessari per garantire un tenore di vita dignitoso, a causa di una combinazione di basso reddito, spesa per l’energia elevata e bassa efficienza energetica nelle proprie case. Un chiaro esempio della correlazione che esiste tra giustizia sociale e giustizia ambientale. Le politiche per l’energia rinnovabile devono necessariamente essere orientate anche alla riduzione delle povertà e delle diseguaglianze. Come, appunto, all’eliminazione della povertà energetica.

Inoltre l’Italia, per la sua collocazione, è uno dei Paesi europei più esposti alla crisi climatica: si prevede una perdita di alcuni punti percentuali di Pil già a metà secolo e fino al 10% del Pil nella seconda metà del secolo. Il Sud Italia sarà particolarmente colpito dalla crisi climatica, aggravando il già ampio divario delle condizioni economiche del Sud rispetto al resto del Paese. La crisi climatica rischia di aumentare le diseguaglianze non solo tra Sud e Nord ma anche tra ricchi e poveri.

Lo schema del PNIEC doveva essere presentato entro il 2018 e il piano definitivo entro il 31 dicembre di quest’anno. L’Italia ha in effetti presentato lo schema di piano a gennaio 2019. Ma a giugno 2019 la Commissione Europea ha rilevato che il piano dovrebbe porre maggiore attenzione al tema dell’efficienza energetica, rafforzando le misure nell’edilizia e nei trasporti e aumentando l’uso di energia rinnovabile per il riscaldamento e il raffrescamento. Devono inoltre essere specificate le misure per ridurre la dipendenza energetica e aumentare la diversificazione. Devono essere stabiliti obiettivi, traguardi e scadenze chiari per realizzare le riforme previste nei mercati dell’energia. Elencate le azioni intraprese per eliminare i sussidi per i combustibili fossili. Soprattutto devono essere precisati gli obiettivi e i finanziamenti per ricerca e innovazione, affrontati i problemi della povertà energetica e specificati anche come garantire una transizione equa, in particolare fornendo maggiori dettagli sugli impatti sociali, occupazionali, delle competenze e sulla distribuzione del reddito.

In sintesi un mezzo disastro. Che dobbiamo recuperare entro il 31 dicembre. Sono in corso audizioni presso le commissioni parlamentari. Riusciremo a migliorare il nostro piano? Ma soprattutto riusciremo a realizzare gli impegni che prenderemo? È auspicabile, ma un controllo dal basso e un’adeguata e costante informazione saranno essenziali per monitorare l’efficacia del processo di riconversione ecologica. Anche perché l’Italia considera il gas naturale una fonte rinnovabile. Ma il gas naturale è destinato a esaurirsi e, soprattutto, genera comunque effetto serra. Certo meno del carbone o del petrolio ma non è impatto zero come le vere rinnovabili. Lo stesso ministro Patuanelli nella recentissima audizione alla Camera del 27 novembre parlava di gas e della realizzazione del gasdotto TAP chiaramente destinato ad mantenere e aumentare l’importazione di gas in Italia.

Intanto tra il 2 e il 13 dicembre si tiene il COP25 a Madrid. Un evento importante che speriamo produca indicazioni e impegni concreti in coerenza con l’accordo sul clima di Parigi 2015.

Mancano 10 anni per evitare che i cambiamenti climatici siano irreversibili. Possiamo usare questi 10 anni per attuare una transizione ecologica che riduca le diseguaglianze, elimini la povertà energetica e migliori i diritti sociali, civili e ambientali che sono ormai chiaramente fortemente interconnessi. Oppure possiamo usare questo tempo per sviluppare un nuovo “capitalismo verde” che semplicemente trova un nuovo modo di produrre e consumare utilizzando la scusa dell’ecologia per integrare e cambiare l’offerta di prodotti e continuare ad aumentare i propri profitti. La COP25 è in corso, il PNIEC deve essere presentato nei prossimi giorni. In che direzione va, quale modello di transizione prefigura? Sarebbe giusto che, prima di mandarlo alla Commissione, fosse reso disponibile a tutti perché ne possano essere valutate le misure ambientali e i relativi effetti sociali e occupazionali. Il PNIEC varrà per i prossimi 10 anni. Potrebbe essere una grande occasione per dimostrare che è vero che l’Italia è all’avanguardia nel Green New Deal. Oppure no. Una cosa però è certa: non abbiamo più il tempo per perdere l’occasione di essere concreti.

Guido Marinelli, comitato nazionale èViva, cofondatore associazione PerIMolti.

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Cop25, chi manovra i manovratori del clima.

di Massimo Serafini.
Solo persone che fanno del sopruso verso i deboli una loro regola di vita, possono negare che il cambiamento climatico sia già una durissima realtà con cui bisogna fare i conti ogni giorno, una verità che dovrebbe funzionare più di qualsiasi appello del mondo scientifico.
Dovrebbero bastare le immagini di Venezia sott’acqua per raccontare la tragedia a cui va incontro l’umanità, soprattutto la sua parte più povera.
Fenomeni naturali… bla, bla, bla… scrivono e ripetono in televisione, prezzolati gazzettieri, gli stessi che chiamano taxi del mare i gommoni con cui i migranti cercano di sfuggire ai soprusi, alle guerre o più semplicemente alla desertificazione dei propri territori.
Eppure, se si guardano i risultati dei precedenti vertici sul clima, sembra proprio che le regole del gioco le decida questa gente. Dal 2 dicembre l’Onu ne ha convocato un altro, la COP25. Si svolge a Madrid, ma si sarebbe dovuto fare a Santiago del Cile o in alternativa in Brasile entrambe scartate, la prima perché travolta dalle manifestazioni di protesta del suo popolo e la seconda per manifesta ostilità del suo presidente, impegnato a dar fuoco alla foresta amazzonica.
Dicono che parteciperanno una cinquantina di capi di Stato, cioè di decisori politici, e quasi 30mila loro consulenti. Già questa sproporzione fra chi decide e chi consiglia cosa decidere, è sospetta.
Dei 30mila partecipanti annunciati una buona metà sono lobbisti o “facilitatori”, tutti inviati dalle multinazionali del fossile e del nucleare, per controllare e possibilmente determinare il solito vuoto di decisioni dei documenti finali. La regola non è impedire che si prendano impegni, anche solenni ed ambiziosi, ma che sia facoltativo applicarli nelle politiche dei vari governi. Quindi, in poche parole, che non siano previste sanzioni per chi deciderà di non rispettarli. Se questo sarà il compromesso a cui anche questo appuntamento di Madrid giungerà, suoneranno come vuote le parole del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres che chiedono di agire in fretta, ammonendo che è già stata varcata la soglia da cui non si torna più indietro. Basta un dato, dei tanti diffusi dall’ultimo rapporto dell’Onu a dirci quanto grandi siano i ritardi accumulati: anche questo vertice di Madrid si apre con le emissioni climalteranti in aumento. Non solo. Se a ciò si aggiunge che fra la COP24 di Parigi, nel 2018, e questa di adesso a Madrid, uno dei paesi che più emette gas serra, gli Usa, si tira fuori da qualsiasi accordo possibile, non resta che prepararsi al peggio. Si tratta di un colpo quasi definitivo dato alla necessaria multilateralità con cui va affrontato il problema, aggravato dal fatto che tutti gli altri paesi, Europa in testa, saranno spinti dalla decisione americana a non fare nulla, in attesa che gli Stati uniti cambino presidente e opinione.
E così non solo non si previene, ma si fa poco anche per le necessarie politiche di adattamento. Tanto per incominciare va detto che possono adeguarsi al clima che cambia solo i paesi ricchi, cioè una piccola parte dell’umanità, mentre la parte povera, a cui non resta che scappare dalle proprie terre, viene abbandonata o agli eventi estremi o alla repressione se cerca di sfuggirvi.
Questi sono i crudi presupposti con cui confrontarsi e che indurranno tanti al pessimismo. Sarebbe augurabile non all’impotenza. Come non accorgersi che questa volta il loro rituale si svolge disturbato da un movimento collettivo, animato dalle nuove generazioni? E’ vero che tutti i vertici hanno avuto il loro contro vertice, ma questa volta c’è una grande novità. Da ormai un anno si susseguono manifestazioni e proteste in tutto il mondo, cresciute grazie all’esempio della giovane svedese Greta Thumberg.
È quindi augurabile che siano tante e tanti coloro che parteciperanno all’appuntamento alternativo, la COP sociale, che inizierà con una grande manifestazione il prossimo 6 dicembre, sempre a Madrid.
Conforta soprattutto che l’obiettivo degli organizzatori sia quello di proseguire la mobilitazione anche dopo la conclusione del vertice ufficiale. Sarà anche vero che quel movimento non ha ancora la forza sufficiente per orientare le decisioni, ma la sua consapevolezza e la sua diffusione stanno crescendo rapidamente e quindi è giusto sperare che oltre ad annunciare catastrofi, possa influire e faccia prendere le decisioni giuste per impedirle.