La lotta di classe tra i padroni mette in crisi il governo Meloni.
di Dante Barontini
In assenza di una mobilitazione di massa di dimensioni adeguate, ci pensano i problemi economici concreti a minare l’egemonia (post?)fascista sul nostro paese.
Sembra quasi paradossale, ma il primo inciampo serio è arrivato su un terreno che appariva socialmente blindato: i costruttori edili. La decisione presa dal ministro leghista dell’economia, Giancarlo Giorgetti, ha seguito più la logica di Mario Draghi e dell’Unione Europea (ridurre il deficit previsto e quindi il debito pubblico futuro) che non quella caratteristica di tutto il centrodestra (favorire con soldi pubblici i settori sociali di riferimento).
La materia è parecchio intricata, visto che le norme che regolano il settore edilizio sono in gran parte antiche, derivanti da innumerevoli stratificazioni di provvedimenti susseguitisi nell’arco di 80 anni, ed in buona parte “nuovissime”, dopo la legge che istituiva il “superbonus” del 110% per le ristrutturazioni di case miranti a migliorarne l’efficienza energetica di almeno due “classi”.
Già Mario Draghi aveva minato questa parte della normativa, riducendo l’entità del superbonus per alcune tipologie di lavori, allo scopo di ridurre anche il carico per i conti pubblici. Generando così una marea di incertezze su quali meccanismi restavano praticabili, in un ginepraio di codicilli che inchiodavano nell’incertezza proprietari di immobili, imprese edili, banche, fiscalisti, commercialisti, geometri, Comuni.
Giorgetti, e quindi, il governo ha ora decretato lo stop totale alla cessione dei crediti e allo sconto in fattura (restano attive solo le detrazioni fiscali), anche se non sarà un blocco immediato, perché i lavori già avviati avranno ancora a disposizione la possibilità di liquidare i bonus. Il che ovviamente rischia di far fermare tutti i progetti ancora sulla carta, che però hanno messo in moto impegni, contratti, indebitamenti, fatturato prevedibile, assunzioni, ordinativi. Con altrettanto ovvie ricadute sull’occupazione e le previsioni sulla crescita del Pil. Un bel casino…
Immediate le ricadute sindacali e politiche. Con Forza Italia che minaccia di non votare il provvedimento in aula neanche con la minaccia della “fiducia” (significherebbe far cadere il governo, o comunque comprometterne pesantemente la credibilità politica a soli quattro mesi dalla nascita).
Leghisti e fascisti sono più cauti ma comunque “malpancisti”, visto che rappresentano socialmente gran parte delle categorie danneggiate dallo stop al superbonus. I “Grillini” – principali fautori del superbonus, quando erano al governo – sono ovviamente all’attacco per rivendicare la “positività” del provvedimento in termini di Pil e occupazione.
E infine i sindacati complici – CgilCislUil – che si sono improvvisamente ridestati dal coma profondo che li caratterizza da decenni, al punto da minacciare scioperi accuratamente evitati per ogni altro tipo di problemi del lavoro.
La materia è complessa, dicevamo, ma rappresenta un primo test sui problemi innumerevoli posti dalla “transizione ecologica” ed energetica. Pochi giorni fa l’Unione Europea ha approvato definitivamente una cosiddetta “direttiva green” che obbligherà a migliorare l’efficienza energetica degli immobili portandoli tutti alla classe energetica “E” entro il 2030 e a quella “D” entro il 2033.
Uno sforzo e costi enormi per paesi come il nostro, caratterizzati da un patrimonio immobiliare “storico” (la grande tradizione medioevale e rinascimentale dei centri storici), oppure semplicemente sciatto (l’autocostruzione di necessità) o speculativo (i palazzinari” italiani non hanno nulla da invidiare a quelli turchi, alla prova-terremoto).
Per di più, la folle politica edilizia seguita negli ultimi 40 anni (annullare l’edilizia popolare, liberalizzare il mercato degli affitti, “costringere” chiunque lavorasse a comprare almeno la casa di abitazione) ha creato una situazione in cui quasi l’80% della popolazione risulta ormai proprietario almeno di un appartamento.
Lavoratori, insomma, ma “proprietari”. Un dato che ha favorito certamente anche l’identificazione di tanti di loro con la “classe media”, i suoi valori reazionari, le sue fisime “securitarie”, il suo individualismo di m….
Lavoratori, comunque, con i salari fermi a 30 anni fa, o addirittura diminuiti. Che dunque non hanno poche o nessuna possibilità di realizzare i lavori di ristrutturazione edilizia necessari a raggiungere gli obiettivi fissati in sede europea. E che, non mettendosi al passo, si ritroveranno con immobili pesantemente svalutati o addirittura invendibili per legge (ci sono ancora incertezze, sul punto).
Ergo: come si fa a ristrutturare tutto questo immenso patrimonio?
La pensata grillina del superbonus sembrava un accenno alla soluzione, addirittura in anticipo sulla tempistica europea (se ne parlava da anni, in quelle sedi), ma con il “piccolo difetto” di scaricare quasi per intero il costo dell’operazione sul debito pubblico.
Non entriamo ora nei complessi calcoli richiesti dagli “effetti di ritorno” su quegli stessi conti in termini di tasse derivanti dall’aumento del fatturato delle imprese e dai salari dei nuovi occupati, e che riducono anche in modo consistente gli importi per le casse dello Stato.
Ma è certo che a breve termine sforamenti anche pesanti ci sarebbero stati. Magari non i 110 miliardi sbandierati dal ministro leghista dell’economia, ma cifre grosse sì…
Non a caso la seconda mossa decisa da Giorgetti ha riguardato il divieto per le pubbliche amministrazioni ad acquistare crediti derivanti dai bonus edilizi. In pratica, proprio per colpa delle “mine” piazzate sotto il superbonus dal governo Draghi, i Comuni – dalla Regione Sardegna a Treviso – stavano cominciando ad acquistare i crediti che le banche non ritenevano più così sicuri, in modo da garantire che le imprese potessero eseguire i lavori già contrattualizzati ma non partiti.
Anche questo, naturalmente, avrebbe aumentato il deficit pubblico, anche perché molti Comuni – che hanno subito tagli drastici nei trasferimenti dallo Stato centrale – hanno bilanci già disastrati.
Un caos esponenziale, dunque, che i fascisti di governo hanno cercato di risolvere alla loro maniera: bloccare tutto.
Sarebbe da ridere se la rivolta sociale partisse grazie alla frantumazione del “blocco sociale reazionario” e piccolo borghese. Ma la Storia fa di questi scherzi…
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Stop auto benzina e diesel dal 2035, via libera definitivo dell’Europa: cosa cambia.
Il Parlamento europeo ha approvato definitivamente la misura che prevede che, dal 2035, sarà vietato in Europa vendere nuove auto con motore a benzina o diesel. Il voto è arrivato dopo mesi di trattative. Ecco cosa dice la norma e cosa cambierà per gli automobilisti.
A cura di Luca Pons
Dal 2035 non si potranno più vendere auto e furgoni con motori a benzina o diesel, in Europa. Il Parlamento europeo ha dato oggi il via libera definitivo alla misura, che ha l'obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 e fa parte del pacchetto di misure ‘green' chiamato Fit for 55. I voti sono stati 340 a favore, 279 contrari e 21 astenuti.
La nuova norma stabilisce il percorso che si dovrà seguire per azzerare le emissioni di CO2 delle nuove auto e i nuovi furgoni. È previsto anche un obiettivo intermedio: entro il 2030 le emissioni complessive dovranno essere ridotte del 55% per quel che riguarda le auto e de 50% per i furgoni, rispetto ai livelli del 2021. Entro il 2025, sarà compito della Commissione europea presentare un metodo per valutare e comunicare i dati sulle emissioni di CO2 da misurare. Entro il dicembre 2026, poi, sarà monitorata la differenza tra i valori-limite e i dati reali di consumo di carburante.
La legge era in lavorazione da tempo, ma l'accordo nella sua forma attuale è stato definito lo scorso ottobre. Il governo italiano di Giorgia Meloni si è detto più volte contrario alla misura, specialmente con il ministro dei Trasporti e leader della Lega Matteo Salvini, che in diverse occasioni ha affermato che la misura sarebbe stata "un regalo alla Cina". Eliminare le auto con motore a combustione entro 12 anni, per Salvini, sarà un "suicidio economico e sociale" che porterà a "distruggere lavoro e industrie europee e italiane per regalarle alla Cina". In campagna elettorale Salvini aveva anche promesso un referendum per bloccare la norma, che poi è sparito.