venerdì 29 novembre 2019

COLIN KAEPERNICK


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Mentre stavo guardando un notiziario sportivo ecco che mi ha incuriosito la vicenda del giocatore di football americano Colin Kaepernick,quarterback tra i migliori del panorama statunitense che fino al 2016 ha militato nel campionato NFL con la maglia dei 49ers di San Francisco e che attualmente è ancora senza squadra.
Il motivo,e questo me lo ricordo,stava nel fatto che durante gli inni americani suonati prima dell'inizio dei match al posto di starsene in piedi si sedeva o s'inginocchiava,gesto di dissenso contro la repressione delle minoranze negli Usa.
Una protesta che si era allargata sia nella stessa NFL che in altri sport,e la forte presenza carismatica e mediatica di Kaepernick anche al di fuori dei campi di gioco ha fatto sì che venisse licenziato alla fine della stagione e non avesse più trovato una franchigia,ostracizzato dalla stessa federazione imbeccata da Trump.
L'articolo(www.ultimouomo.com )riporta tutta la storia del quarterback ed il provino della scorsa settimana per mostrarsi a tutte le squadre NFL per ottenere un ingaggio,che ha avuto riscontri anche farseschi viste le condizioni imposte dalla lega del football americano,dal giorno indicato all'assenza dei media,con una situazione ancora in di venire.

Come è andato il provino di Kaepernick.

Cronistoria dell’ultimo round tra la NFL e Colin Kaepernick.

«Le squadre della NFL sono state informate oggi che sabato ad Atlanta si terrà un workout privato per Colin Kaepernick […] Tutte le squadre sono invitate a presenziare, e video del workout e dell’intervista saranno resi disponibili a tutte le squadre» La notizia è arrivata all’improvviso martedì pomeriggio, e c’è voluto qualche controllo per essere sicuri non fosse nata da qualche account fake.

Invece era tutto vero, il tweet proveniva dall’account verificato di Adam Schefter, l’insider di punta di ESPN. Colin Kaepernick. Il nemico pubblico numero uno del commissioner Roger Goodell, il volto di una protesta che da tre anni divide l’America e il suo gioco preferito, è stato invitato dalla NFL a un provino. Come se Stalin avesse richiamato Leon Trotzky dal Messico per proporgli di rientrare nel partito.

Talmente assurdo che infatti le cose hanno finito per prendere una piega imprevedibile. Per comprenderla a pieno, però, vale la pena ripercorrere le tappe che ci hanno portato fino a questo snodo decisivo.

The National Football League vs Colin Kaepernick.

Lo sappiamo tutti: inginocchiandosi durante l’inno americano Colin Kaepernick ha squarciato il velo del politicamente corretto tirato su dalla NFL su questioni scomode, come quella della diseguaglianza razziale. La situazione precipita il 21 settembre 2017, quando dal palco di una Convention repubblicana in Alabama Donald Trump suggerisce ai proprietari delle squadre di licenziare i “figli di puttana” che, seguendo l’esempio di Kaepernick, hanno deciso di inginocchiarsi durante l’inno.

Mentre il caso mette a nudo il conflitto socio-ideologico tra le due anime degli Stati Uniti, Kaepernick, che in quel momento è senza contratto, inizia la propria battaglia legale con la NFL, portando in tribunale la lega e accusando i 32 proprietari di aver colluso per tenerlo fuori dal football professionistico nonostante le sue abilità gli permetterebbero di giocare.

Insomma, Kaepernick sostiene di essere stato vittima di “blackballing”, o, per dirla con Shannon Sharpe, ex giocatore e ora personalità televisiva di successo, di “whiteballing”. Lo scorso 15 febbraio la vicenda legale si conclude con un esito clamoroso: Kaepernick e la lega concordano un settlement che, per una cifra mai divulgata, sana il contenzioso a pochi giorni dalla sentenza decisiva.

Nonostante si vociferasse che una clausola di questo settlement impegnasse Kapernick a rinunciare per sempre a tornare in NFL, l’ex quarterback dei 49ers inizia a mandare segnali sempre più diretti circa la sua volontà di tornare nel football professionistico.

La scorsa estate Kaepernick spezza il suo tipico silenzio radio sui social media con una serie di video che si aprono, in modo molto esplicito, con un conto dei giorni di esilio forzato dai campi di football. Ad agosto ne viene pubblicato uno ambientato in una palestra di Manhattan, nella quale Colin Kaepernick solleva pesi alle cinque del mattino, dichiarando di essersi allenato costantemente nei suoi anni fuori dalla lega, proprio per farsi trovare pronto.

In un altro, caricato ai primi di settembre, alle porte della stagione regolare, lo si vede lanciare a Odell Beckham Junior, uno dei migliori wide receiver della lega. Lo scorso 10 ottobre l’agente di Kaepernick, Jeff Nailey, dichiara di aver contattato ogni singola franchigia per offrire almeno un provino al suo assistito, ma di aver ottenuto per risposta un silenzio fin troppo esplicito.

Un mese dopo quel comunicato, la NFL ha annunciato questo workout, prendendo tutti in contropiede. Non se l’aspettava Adam Schefter, il ragno tessitore della NFL, che pure è stato il primo a twittare lo scoop. Non se l’aspettavano nemmeno le 32 franchigie, che sono state notificate il giorno stesso. Cosa ancora più assurda, non se l’aspettava lo stesso Kaepernick, che è stato contattato alle 10.15 della mattina di quel martedì, poche ore prima che la notizia venisse data in pasto al pubblico.

Perché organizzare un provino per un giocatore che si è già proposto alle varie squadre senza successo? Perché organizzarlo adesso? Perché tutta questa fretta?

Visto che nessun rappresentante della NFL si offre di fare chiarezza attraverso una conferenza stampa, si resta nel campo delle speculazioni, che iniziano a fioccare grazie agli spifferi di fonti anonime. Una di queste parla di un’intercessione di Jay Z. Il rapper/produttore/imprenditore ha da poco firmato una collaborazione con la lega e si dice che proprio J-Hova, preoccupato dal danno d’immagine presso la black community conseguente alla sua partnership con la NFL, abbia persuaso Roger Goodell ad offrire una possibilità a Kaepernick. Un’altra, twittata dal reporter dell’area di Boston Albert Breer, pone alla base dell’iniziativa della lega il fatto che alcune squadre avrebbero mostrato sincero interesse per Kaepernick, ma avevano desistito dal contattarlo per paura che, espandendosi singolarmente, avrebbero attirato le ire della frangia anti-Kaepernick e avrebbero perciò chiesto alla NFL di offrire un ombrello mediatico prendendo iniziativa come lega.

Qualunque fosse la ragione dietro, la NFL ha fatto la sua mossa e ha atteso la risposta di Kaeprnick, che non si è fatta attendere.

«È da tre anni che sono pronto fisicamente e mentalmente per questo momento. Non vedo l’ora d’incontrare gli head coach e i General manager questo sabato».

Un vero provino?

Questa è stata la prima reazione di Kaepernick alla proposta della NFL. Una risposta istintiva e per questo forse troppo ottimistica. Probabilmente si aspettava una fair shot, una vera possibilità. Quella della NFL è stata invece una “palla curva”, perché mano a mano che i dettagli venivano pubblicati è emerso sempre più chiaramente che, com’era prevedibile, il provino era programmato in modo da mettere in difficoltà Kaepernick e ridurre al minimo le possibilità di un esito positivo, tale da suscitare l’interesse degli scout presenti.

Innanzitutto, la lega ha ridotto qualunque margine di negoziazione con l’entourage di Kaepernick: la proposta era immodificabile per data, location e modalità. È stato sabato, ad Atlanta e secondo un canovaccio prestabilito, prendere o lasciare. Tutti e tre gli aspetti mostrano dubbi sul reale interesse della NFL a facilitare il compito di Kaepernick.

Innanzitutto, il workout è stato fissato di sabato anziché di martedì, un giorno che avrebbe permesso di partecipare anche a head coach e General manager, che invece il sabato devono preparare la partita della domenica successiva e non possono esserci. La NFL, così, si sarebbe assicurata di limitare al minimo la presenza di decision makers e aumentare quella di scout di basso profilo e senza potere decisionale.

La NFL ha imposto poi non solo che il workout si disputasse di sabato, ma che si tenesse proprio sabato 17 novembre, lasciando a Kaepernick solo 4 giorni per prepararsi a un evento che la NFL in realtà non aveva ancora organizzato nei dettagli. Per vincere lo scetticismo degli scout, Kaepernick avrebbe dovuto svolgere un work out praticamente improvvisato, con poco tempo per assimilare il lavoro mentale invisibile che c’è dietro a ogni singolo passing concept che avrebbe dovuto eseguire e senza poter contare su una preparazione con ricevitori ai quali avrebbe lanciato.

Insomma, il messaggio subliminale della NFL è stato più o meno il seguente: «Dici di essere in forma da football? Ok, allora dimostralo subito, nelle peggiori condizioni possibili che noi ti imporremo. Se non accetti sei un codardo e un bugiardo. Se accetti in bocca al lupo, molto probabilmente fallirai e non potrai più dire che ti stiamo boicottando».

Molto probabile a questo punto che la NFL sperasse che le condizioni proibitive portassero Kaepernick a rifiutare l’invito e a non presentarsi ad Atlanta. In quel caso il rifiuto, per quanto giustificato, avrebbe fatto crollare la colonna portante della narrativa di Kaepernick, quella di essere stato escluso senza possibilità di venire reintegrato. La NFL quindi è andata “all in”, probabilmente sperando di indurre Kaepernick a passare la mano. Kaepernick invece ha giocato la sua mano con pazienza, si è presentato ad Atlanta e ha aspettato fino all’ultimo per fare il suo rilancio. Ed è stato un rilancio clamoroso.

La vigilia del workout sembra scivolare via in modo tutto sommato tranquillo. All’interno del centro di allenamento degli Atlanta Falcons, gli scout delle 25 squadre accorse sono pronti ad attendere l’arrivo di Kaepernick. Sui due lati della strada d’ingresso si formano spontaneamente due gruppi di manifestanti. Quelli su un lato sono pro-Kaepernick e vestono maglie con il numero 7, quelli sull’altro sono anti-Kaepernick e sventolano bandiere americane. Una metafora perfetta della frattura degli USA su questa vicenda.

A pochi minuti dall’inizio programmato, l’ennesima bomba mediatica spariglia di nuovo le carte in tavola. Questa volta non arriva da Schefter, ma dai rappresentanti di Kapernick, che una volta preso atto della fermezza della lega emettono un comunicato che si apre con una notizia clamorosa: Kaepernick ha deciso di disertare il workout proposto dalla NFL nel centro di allenamento dei Falcons per tenerne uno gestito alle sue condizioni, sempre ad Atlanta ma questa volta completamente aperto ai media, programmato per le 4, un’ora dopo quella prevista. La comunicazione prosegue illustrando le motivazioni della scelta, tutte incentrate sulla mancanza di trasparenza dimostrata dalla lega su diversi punti, tra i quali:
– Segretezza sulle generalità degli scout inviati dalle squadre,
– Richiesta di firmare una liberatoria sugli infortuni diversa da quella standard che invece era stata proposta dai legali di Kaepernick,
– Divieto tassativo d’ingresso ai media e a qualunque tipo di film crew indipendente.

Quest’ultimo è stato il vero punto di rottura per il camp di Kaepernick, e il motivo è piuttosto semplice: senza occhi imparziali a giudicare e senza riprese disponibili per il pubblico, la NFL avrebbe detenuto il monopolio sulla narrativa dell’allenamento, e avrebbe avuto gioco facile nel far circolare voci negative sull’andamento del workout, voci che Kaepernick, in assenza di prove video, non avrebbe potuto smentire.

La notizia prende di sprovvista la lega, il cui ufficio stampa nei minuti seguenti emette a sua volta un comunicato nel quale, oltre a sottolineare alcune le concessioni marginali che la lega ha garantito a Kaepernick (possibilità di girare uno spot e di lanciare a ricevitori di sua scelta) esprime delusione per la scelta di Kaepernick di aver cambiato idea all’ultimo minuto, sostenendo, e questo è il punto chiave, di essere stati chiari dall’inizio circa il fatto che si sarebbe trattato di un workout privato, ma senza specificare perché fossero opposti a tenerne invece uno aperto.

Visto l’atteggiamento dei rappresentanti della lega, quindi, Kaepernick decide (anche se non è da escludere che la mossa fosse premeditata) di prendere in mano la situazione e di lanciare con i suoi ricevitori, alle sue condizioni e sotto gli occhi dell’intero paese.

Attorno alle 4 e trenta del pomeriggio, quindi, il manipolo di scout che ha accettato il cambio di location e i giornalisti presenti hanno visto apparire Colin Kaepernick, in canottiera nera come la pista d’atletica che circonda il campo della High School di Riverdale, nei sobborghi di Atlanta. Dopo una breve fase di stretching, l’hanno finalmente visto lanciare per la batteria di ricevitori composta da Brice Butler, Bruce Ellington, Jordan Veasy, and Ari Wertz.

Sono stati in totale sessanta lanci, tutti completati tranne 7, che hanno dimostrato che il braccio c’è, abbastanza preciso e potente al netto di qualche limite che c’è sempre stato – anche quando ha portato i 49ers al superbowl non è mai stato un passatore chirurgico- e di qualche errore che comunque è inevitabile quando non si ha tempo di sviluppare l’intesa necessaria con i propri ricevitori.

Kaepernick in ogni caso ha fatto una buona impressione agli scout presenti, tanto che un executive della NFL ha confidato ad Adam Schefter di aver trovato le capacita di lancio di Kaepernick identiche rispetto a quando è entrato nella lega.

Dopo aver concluso il workout, Kapernick ha ringraziato gli scout presenti, che rappresentavano otto squadre, ai quali ha chiesto di riferire ai rispettivi proprietari il messaggio “stop being scared” e poi si è presentato davanti alle telecamere, dove ha rivolto un altro appello: “stop running”, smettetela di scappare.


È sempre questione di soldi.

Il futuro di Colin Kaepernick nella lega non dipende da questo workout, nel senso che non sarà la qualità dei passaggi che ha lanciato a determinare il suo eventuale ritorno. Certo, era importante dimostrare di non essere arrugginito, ma Colin Kaepernick è quello che era prima di questo sabato, un buon quarterback in campo e un personaggio incredibilmente polarizzante fuori.

Qualunque cosa si pensi delle sue posizioni politiche, comunque, è difficile dire non abbia diritto a livello tecnico di far parte di uno dei 53 men roster. Ha sicuramente più diritto di atleti ai quali è stata data una possibilità recentemente. Se l’anno scorso gli Washington Redskins piuttosto che contattare Kaepenrick hanno riesumato personaggi come Josh Johnson, un quarterback pessimo che aveva la stessa età attuale di Kaepernick (32 anni) e non lanciava un pallone dal 2014, e addirittura Mark Sanchez, il cui momento più iconico in NFL è stato perdere un pallone schiantandosi contro il fondoschiena di un compagno, non c’è nemmeno da discutere sul lato tecnico della questione.

Il motivo per cui Colin Kaepernick si trova fuori dalla lega non è – e non sono mai state – le sue abilità, e nemmeno in modo diretto le sue posizioni politiche, nel senso che i proprietari non si sono opposti al suo reintegro per questioni ideologiche, ma per motivi di opportunismo prettamente finanziari. È stata la reazione alle posizioni di Kaepernick di una larga fetta dell’opinione pubblica, quella tendenzialmente conservatrice, che ha terrorizzato la NFL e ha indotto la lega a proseguire l’esilio forzato. Sono state le minacce di boicottaggio che hanno tenuto fuori dalla lega Kaepernick, non un presupposto razzismo dei proprietari e dei quadri dirigenziali.

Certo, i 32 owner condividono visioni politiche conservatrici e avverse alla battaglia di Kaepernick, ma condividono sopra ogni cosa l’aspirazione a massimizzare i profitti delle loro squadre e il terrore che associarne il nome a quello di Kaepernick comporti un crollo delle entrate miliardarie generate dalla lega.

Non bisogna dimenticare che l’agenda politica della NFL è dettata spesso da questioni di opportunismo economico. Facciamo un esempio molto semplice. Il momento dell’inno americano prima della partita ora è considerato una sorta di liturgia civile, e qualunque giocatore non lo ascolti sull’attenti e con la mano sul cuore è bollato come eretico, ma non è sempre stato così.

Fino a non molto tempo fa l’inno non era visto con la sacralità di adesso. Anzi, spesso le emittenti televisive sfruttavano il momento per andare in pubblicità, e fino al 2009 i giocatori della NFL non erano tenuti ad essere in campo durante la sua esecuzione. Il senso è cambiato quando il Dipartimento della Difesa ha iniziato a inondare di dollari la NFL per far passare, soprattutto attraverso il culto del pre-game anthem, un messaggio patriottico fondamentale per tenere alto il livello di popolarità delle guerre in Medio Oriente e favorire l’afflusso di arruolati volontari nelle fila dell’esercito.

La NFL ha abbracciato ancora più strettamente la causa patriottica (cui pure ha sempre aderito con entusiasmo) per ragioni economiche e sempre per ragioni economiche ha ostracizzato Kapernick e la sua protesta. La battaglia in corso quindi ha per la lega ha un valore finanziario molto prima che ideologico, e in questo senso va letto il progetto del workout di sabato, che verosimilmente doveva essere una una sorta di crash test per valutare l’impatto mediatico – e di conseguenza economico – di un eventuale reintegro di Kaepernick.

Se le cose sono veramente andate così, più che di un crash test si è trattato di un test nucleare, che ha sprigionato una nube radioattiva di polemiche che ci metterà tempo a dissolversi e che paradossalmente potrebbe giocare contro il ritorno di Kaepernick.

Se la sua volontà era quella di rientrare in NFL, le polemiche generate sabato, soprattutto se dovessero portare a un tweet al vetriolo inviato dalla Casa Bianca, rischiano di riportare i veleni al livello del 2017, creando una situazione troppo tossica per pensare di riportare nella lega il nemico giurato dell’America conservatrice. Se però Kaepernick con le sue mosse mediatiche puntava anche a ribadire l’ipocrisia del sistema che lo ha messo all’angolo, almeno questo obiettivo è stato centrato in pieno.

Quindi, cosa succede a questo punto? Kaepernick tornerà in NFL a breve? Tornerà la prossima stagione? Non tornerà mai? Difficile, se non impossibile, prevedere gli sviluppi futuri di una storia che a ogni capitolo continua a ribaltare aspettative e previsioni.

giovedì 28 novembre 2019

LE EVASIONI DELLE WEB CORPORATION


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Il numero 49 rientra spesso e volentieri nella cronaca italiana,soprattutto se si parla di Euro,dai 49 milioni di Euro che la Lega deve dare allo Stato italiano(forse)in comodissime rate(madn 49-milioni  )ai 49 miliardi che le multinazionali del web hanno risparmiato di versare all'erario nel quadriennio 2014-18..
I due articoli proposti(contropiano litalia-e-una-pacchia e left evasori-senza-manette )spiegano quello che lo studio di Mediobanca ha scoperto analizzando tutti i dati delle corporazioni del web come Facebook,Google,Microsoft,Apple e Amazon,che hanno e che continuano ad evadere davvero cifre spropositate a fronte di esigue multe e ovviamente introiti colossali.
Basterebbero semplici regole che però anche se già discusse non ci sono ancora,e di fronte all'imperativo del"ci portano lavoro"(le condizioni dei lavoratori tipo di Amazon le conoscono tutti)allora sarebbero avvantaggiate a scapito delle piccole e medie aziende?
Una domanda che ad ora non ha ricevuto nessuna risposta,solo un lassismo che prosegue da anni perché queste cifre ormai è da tempo che vengono snocciolate e sono sempre più un pugno nello stomaco,ai conti e ai lavoratori seri italiani.

L’Italia è una “pacchia” per le multinazionali. Fanno miliardi, pagano spiccioli.

di  Stefano Porcari
Le filiali italiane delle grandi corporation del Web hanno versato al fisco italiano “solo” 64 milioni di euro nel 2018. Appena 5 in più rispetto ai 59 milioni versati nel 2017, e a seguito di accordi con le autorità fiscali italiane, hanno dovuto pagare sanzioni per un totale di 39 milioni (erano stati 73 mln nel 2017).

Lo rivela il rapporto dell’Area Studi Mediobanca sui giganti del Websoft (Software & Web companies). Occorre dire che il giro d’affari delle loro filiali in Italia  ha un peso assai relativo rispetto al totale mondiale del settore: nel 2018 il fatturato dei giganti del web in Italia ha superato i 2,4 miliardi, occupando però solo oltre 9.840 unità ossia lo 0,5% dei dipendenti a livello internazionale. Ma il 2018 è stato un anno molto “generoso” per le imposte delle multinazionali.

A livello mondiale, quasi la metà dell’utile ante imposte delle WebSoft viene tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con un conseguente risparmio fiscale di oltre 49 miliardi nel periodo compreso tra il 2014 e il 2018.

Microsoft, Alphabet e Facebook hanno risparmiato rispettivamente 16,5, 11,6 e 6,3 miliardi di imposte nel periodo 2014-2018. La tassazione in paesi a fiscalità agevolata combinata alla riforma fiscale Usa, e ai crediti d’imposta sulle spese in ricerca, ha fatto sì che nel 2018 il tax rate effettivo delle multinazionali WebSoft risultasse pari al 14,1%, ben al di sotto di quello ufficiale del 22,5%.

In particolare, nel periodo 2014-2018 la tassazione in Paesi a fiscalità agevolata ha determinato per Apple un risparmio fiscale cumulato che sfiora i 25 miliardi.

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Evasori, senza manette, con nome e cognome.

di Giulio Cavalli
Aproposito della tanto decantata virata sull’evasione fiscale di questo governo (che dovrebbe virare su un bel po’ di argomenti ma continua spedito, dritto) ci sono dei numeri che raccontano perfettamente come sarebbe possibile dare segnali forti (anche quelli, sempre promessi, in calce a ogni governo che si rispetti) con il minimo sforzo.

Se avete bisogno dei nomi e dei cognomi, delle partite Iva, degli indirizzi e dei citofoni di quelli che “evadendo rubano soldi alla collettività” (parole dell’esponente di punta di governo, l’avvocato degli italiani) allora vi basta spulciare nel rapporto di R&S Mediobanca (che non sono propriamente dei pericolosi comunisti) per accorgersi che nel 2018 i «big del web» con una filiale nel nostro Paese hanno lasciato al fisco italiano una cifra irrisoria: 64 milioni di euro (sempre più dei  59 milioni versati nel 2017, eh). Microsoft ha pagato 16,5 milioni, 12,5 milioni di Apple, Amazon 6 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153 mila euro e Alibaba solo 20 mila euro.

A livello mondiale fra il 2014 e il 2018 i giganti del web hanno risparmiato oltre 49 miliardi di euro di tasse a livello globale, domiciliando circa la metà dell’utile ante imposte in Paesi a fiscalità agevolata.

Sono le stesse società che vengono celebrate ogni piè sospinto per il loro miracoloso business. Sì, sono loro, quelli bravissimi a fare slalom tra le norme. E la mancanza di una web tax (e la distrazione dell’Europa) rendono tutto questo terribilmente facile.

Inutile ricordare che di solito le battaglie andrebbero fatte partendo dai colossi, quelli che governano l’economia molto spesso più della politica. Inutile dire che ci vorrebbe fegato per portare la questione all’ordine del giorno. E inutile dire che la credibilità di un governo (di qualsiasi governo) si rivela proprio quando ha il coraggio di regolamentare i potenti, mica i sottomessi.

E volendo è tutto qui, con nome e cognome, senza nemmeno bisogno di sventolare manette.

Buon giovedì.

giovedì 21 novembre 2019

LE INDAGINI SULL'OMICIDIO DI DAPHNE CARUANA GALIZIA


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L'arresto di Yorgen Fenech,miliardario maltese con intrallazzi dappertutto nell'isola mediterranea e non solo,è il punto di svolta nelle indagini per la morte della giornalista Daphne Caruana Galizia avvenuta poco più di due anni fa(madn malta-e-i-suoi-segreti ),fatta saltare in aria mentre era alla guida della sua auto.
Da subito era chiaro che la sua inchiesta giornalistica che aveva messo all'indice il grave stato di corruzione presente a Malta che giungeva fino alle più alte cariche dello Stato potrebbe essere stata il movente per la sua esecuzione,ed infatti il presunto mandante è stato arrestato mentre col suo yacht si stava allontanando dalle acque nazionali.
L'articolo(left la-lezione-di-daphne )parla del giro di affari sommerso e non di Fenech e del coinvolgimento ancora tutto da verificare ma anche a Malta evidentemente esistono gli intoccabili,del premier Muscat e del ministro Mizzi,per affari legati all'approvvigionamento dell'energia.

La lezione di Daphne.

di Giulio Cavalli
Vale la pena soffermarsi sull’arresto avvenuto ieri a Malta di Yorgen Fenech, amministratore delegato del Tumas Group e direttore generale della centrale elettrica a gas di Malta, con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia.

Per mesi abbiamo assistito da lontano (lontani per quanto si può essere lontani a ottanta chilometri di distanza) alla disumanizzazione della giornalista maltese (uccisa nell’ottobre del 2017) descritta come una strega e come una visionaria dalle teorie strampalate. L’arresto di ieri invece conferma che Galizia ci aveva visto benissimo e ancora una volta si scopre che si perde la vita ogni volta che si mette il dito lì dove potere e illegalità si incontrano sotto banco.

Yorgen Fenech è stato identificato come proprietario della 17 Black, società con sede a Dubai che avrebbe foraggiato con 2 milioni di euro i conti panamensi di Keith Schembri, capo staff del primo ministro maltese Joseph Muscat, e del ministro Konrad Mizzi. Fenech è stato al centro della trattativa per il nuovo impianto energetico insieme al primo ministro Joseph Muscat già a partire dalla campagna elettorale del 2013 e il Corriere di Malta scrive che il progetto della centrale elettrica assicurò a Electrogas 3,9 miliardi di euro in 19 anni. Affare di Stato. Insomma.

Eppure quando è morta Daphne Caruana Galizia alcuni sindaci maltesi addirittura hanno festeggiato il suo omicidio, in quel gorgo di odio che serve per isolare una persona prima di ucciderla. “Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci.”, diceva Gandhi e invece qui troppo spesso succede che “Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi muori.”

E chissà se riusciremo a farne memoria. Per Daphne e per tutti quelli che muoiono così. Soli.

Buon giovedì.

martedì 19 novembre 2019

LE PROMESSE DISATTESE PER VENEZIA

Le polemiche cominciate da chi tira il sasso e poi nasconde la mano fanno del caso Venezia il classico esempio di una politica che certamente non è nata ieri ma molti decenni orsono,ma che nelle parole del centrodestra attuale trova il culmine della vergogna e dell'idiozia.
Lasciando stare,come del resto ha fatto la politica e i mass media negli ultimi giorni,di situazioni più serie e tragiche in tutta Italia,il caos creato dal sistema Mose che dovrebbe essere in funzione da anni ma che grazie soprattutto ad inefficienze e spartizioni di denaro funziona solo in minima parte,la città lagunare per eccellenza è sempre più sott'acqua come dimostrano anche i dati forniti nell'articolo presentato sotto(ilfattoquotidiano.it mose-cronistoria-dellopera ).
Da un progetto iniziale per limitare i danni a Venezia già discussi negli anni settanta al 1992,al piano finale del Mose(l'ennesima grande ed ormai inutile opera costata miliardi di Euro fin'ora),tra ritardi e processi per corruzione,arresti e un commissariamento,quello che doveva proteggere Venezia dalle alte maree è ancora un sogno lontano dal suo completamento.
Una città magnifica e piena di problemi,con le fondamenta sempre più fragili non solo per le maree ma anche per il passaggio delle grandi navi,con un reale problema di sovraffollamento turistico,ora è in ginocchio certamente non per colpa dei veneziani ma per scelte sbagliate di chi li amministra e per colpa di una regione dove da decenni regna il centrodestra che evidentemente non sa risolvere problemi che con le stesse somme investite in qualsiasi altra parte dell'Europa ora permetterebbe di fare dormire sonni tranquilli.

Mose, cronistoria dell’opera che dovrebbe separare le acque: dal via libera di Berlusconi, 18 anni tra tangenti, lavori rinviati e ruggine.

Da un'alluvione all'altra: il grande bluff del sistema pensato per proteggere Venezia dalle maree. L'idea nacque dopo il 1966, negli Anni 80 furono presentati i primi progetti. Poi il via libera con la legge obiettivo del 2001, i cantieri aperti nel 2003, gli arresti per le mazzette tra 2013 e 2014. Oggi il Mose è costato quasi 6 miliardi di euro e non è ancora pronto - TUTTE LE TAPPE

di Daniele Fiori  | 13 Novembre 2019
Sono passati 53 anni dalla prima alluvione. 16 dall’inizio dei lavori. Altri 8 dalla prima data fissata per l’inaugurazione dell’opera. Eppure ancora oggi, mentre Venezia è stata sommersa da una marea che ha portato l’acqua fino a 187 centimetri d’altezza, nessuno sa con certezza se e quando il Mose riuscirà a separare le acque e difendere la laguna dalla forza del mare. Di un’opera che proteggesse la Basilica di San Marco e la città si iniziò a parlare proprio dopo gli enormi danni provocati dall’alluvione del 1966. Il governo Berlusconi nel 2001 stanziò i primi soldi per il “progettone“, nel frattempo diventato noto proprio con il nome di Mo.s.e. (Modulo sperimentale elettromeccanico): in pratica, delle dighe mobili che chiudano le tre bocche di porto quando la marea supera i 110 centimetri, proprio come successo martedì sera. Costo: 5,493 miliardi di euro. I lavori cominciarono nel 2003 ma il vero spartiacque, è il caso di dire, furono gli arresti che tra 2013 e 2014 scoperchiarono il sistema di tangenti, colpendo imprenditori, politici e vertici del concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova. Dopo lo scandalo, sono sorti i problemi di natura tecnica: la paratie sono risultate inceppate dalla sabbia che si deposita sui fondali, le cerniere in acciaio – fondamentali per far funzionare il meccanismo – si stanno arrugginendo. Intanto, il prezzo continua a lievitare verso i 6 miliardi di euro, che diventano 8 se si considerano anche le altre opere per la salvaguardia della laguna dalle maree.

Venezia, decine di milioni di tangenti e una ventina di condanne: perché non c’è il Mose a proteggere la città.

Dall’alluvione del 1966 a quella odierna, ecco la cronistoria del Mose, al momento fermo sott’acqua come la città che dovrebbe proteggere.

1966 – Durante l’alluvione del 4 novembre di 53 anni fa Venezia e i centri della laguna vengono sommersi da 194 centimetri d’acqua: un record solo sfiorato dalla marea di martedì notte che è arrivata fino a 187 cm. Proprio dopo quel disastro si fa largo l’idea di proteggere la città dal mare. Inizia così un lungo iter legislativo e tecnico.

1975 – Il ministero dei Lavori pubblici indice un appalto concorso per realizzare un efficace sistema di difesa dal mare della laguna. Nessuna ipotesi risulta adeguata alle esigenze richieste

1981 – Gli elaborati del concorso del 1975 vengono affidati a un gruppo di esperti al fine di elaborare un progetto definitivo, diventato noto come il “Progettone“.

1984 – Una legge speciale istituisce il Comitato di indirizzo, coordinamento e controllo degli interventi di salvaguardia (il cosiddetto “Comitatone”) e ne affida la progettazione e l’esecuzione ad un unico soggetto, il Consorzio Venezia Nuova.

1992 – Viene ultimato il progetto delle opere mobili alle bocche di porte per il controllo della marea, dopo varie sperimentazione condotte fin dal 1988 su un prototipo di paratoia noto come Mo.s.e. (Modulo sperimentale elettromeccanico): è il nome che poi viene dato all’intera opera.

1994 – Arriva il primo via libera dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici: per difendere Venezia dalla maree verranno costruite quattro dighe mobile alle bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia

2001 – La famosa legge obiettivo del governo Berlusconi comincia a stanziare i primi soldi per la realizzazione del Mose (subito 5,2 miliardi di euro sui 5,4 necessari) e fissa anche una data per il completamente dell’opera: il 2011.

2003 – Il progetto definitivo viene presentato nel 2002, un anno dopo vengono aperti i cantieri alle tre bocche di porto di Lido (dove sono previste due schiere di paratoie mobili, la Lido Treporti con 21 e la Lido San Nicolò con 20), Malamocco (19 barriere) e Chioggia (18 paratoie). Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi inaugura i lavori.

Febbraio 2013 – Mentre la prima data di consegna è già stata sforata di due anni, arriva la prima ondata di arresti che comincia a colpire il sistema di corruzione nato intorno all’opera. Il primo a finire in carcere a febbraio è il manager di Mantovani, Piergiorgio Baita, rivelando molto di quello che sarebbe poi diventato lo scandalo Mose. Gli inquirenti il 12 luglio dispongono gli arresti domiciliari per Giovanni Mazzacurati, direttore generale del Consorzio Venezia Nuova, con l’accusa di turbativa d’asta.

Ottobre 2013 – Si alza la prima paratoia alla bocca di porto di Lido-Treporti: presenti ed entusiasti il ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi, il governatore del Veneto Luca Zaia e il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni.

Giugno 2014 – La seconda ondata di arresti svela il sistema di tangenti distribuite per oliare il meccanismo dei finanziamenti secondo gli inquirenti, 33 milioni di euro di fatture false. Il 4 giugno vengono arrestate 35 persone, un centinaio gli indagati. Ci sono imprenditori e politici che negli anni sono entrati nel libro paga di Giovanni Mazzacurati, tra cui l’ex governatore leghista Giancarlo Galan.

Novembre 2014 – Il presidente del Consiglio Matteo Renzi propone il commissariamento del Consorzio. Vengono nominati Giuseppe Fiengo, Francesco Ossola e Luigi Magistro, poi dimessosi. Il commissariamento è ancora in atto.

2015 – Si scopre che i lavori alla barriera di Lido Treporti – che in teoria dovevano terminare a fine 2014 – sono rimasti bloccati per otto mesi. La possibile messa in funzione del Mose viene ancora fatta slittare al 2018.

2017 – Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio fissa per dicembre 2018 il termine dei lavori e la consegna dell’opera definitiva al 31 dicembre 2021. Nel Consorzio Venezia Nuova emerge la consapevolezza dei problemi che umidità e infiltrazioni stanno causando su paratie e cerniere.

Gennaio 2018 – Il provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Roberto Linetti, annuncia che sarà difficile rispettare la scadenza di fine 2018. Svela anche che il Mose costerà 80 milioni di euro all’anno per restare in attività e per essere mantenuto in buono stato di funzionamento.

Dicembre 2018 – Vengono messe in acqua le ultime paratoie alla bocca di San Nicolò, al Lido Sud. Alla bocca di Chioggia ne erano state collocate 18 nel 2017. Nello stesso anno erano state messe le 19 di Malamocco. In precedenza le 21 di Treporti. Nel frattempo si sono già manifestati i primi fenomeni di ruggine.

Luglio 2019 – Il Fatto Quotidiano rivela che le 156 cerniere del Mose, progettate per durare 100 anni, hanno in realtà una vita che in alcuni casi e per alcune componenti arriva a 13 anni. Sono consumate dalla ruggine e per questo il Consorzio Venezia Nuova ha deciso di correre ai ripari con una gara internazionale per lo studio degli interventi, dei materiali più adatti, delle tecniche di protezione e, ove necessario, della sostituzione delle cerniere.

Novembre 2019 – La prova delle 19 paratoie mobili alla bocca di porto di Malamocco prevista per il 4 novembre, anniversario dell’alluvione del 1966, viene annullata. Alcuni tubi che immettono aria e acqua per consentire l’innalzamento e l’abbassamento dei portelloni hanno manifestato vibrazioni anomale. Una settimana dopo la marea torna a colpire Venezia: l’acqua arriva a 187 centimetri, ci sono danni alla Basilica di San Marco e nel centro storico, decine di gondole e barche vanno distrutte.

Il futuro – Una data possibile per il termine dei lavori è la fine del 2021. Una data più plausibile il 2022. Intanto, il prezzo fissato a 5 miliardi e 493 milioni di euro viaggia verso i sei miliardi. Senza considerare le altre opere per la salvaguardia della laguna: in quel caso il conto arriva a 8 miliardi di euro. Senza sapere se il Mose riuscirà mai a separare le acque.

venerdì 15 novembre 2019

CASO CUCCHI:LE CONDANNE E NESSUNA SCUSA


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Fino all'ultimo momento il processo sull'assassinio di Stefano Cucchi ci ha tenuti col fiato sospeso,per ultimo il caso del giudice in pieno conflitto d'interessi in quanto ex carabiniere che dopo essere stato scoperto si è autoastenuto(quello che riguarda i depistaggi,tutt'ora in corso),mentre per l'omicidio i due colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro hanno avuto dodici anni di pena rispetto ai diciotto richiesti.
Nell'articolo di Contropiano(politica-news )tutte le altre condanne e le assoluzioni e le prescrizioni che riguardano sia altri membri della"benemerita"che i medici del Pertini,dando spazio anche ai nomi dei reietti che avevano fatto del delitto Cucchi un caso di difesa estrema dei tutori del disordine come i vari Giovanardi,Salvini,Tonelli e La Russa che non si sono scusati per le loro sudicie parole.
Tutti pronti a puntare il dito contro Stefano,sua sorella Ilaria e tutta la famiglia e gli amici del geometra romano,tutti pronti a gettare fango su di un fatto che non è una disgrazia ma un omicidio preterintenzionale così come stabilito dalla Corte d'Assise di Roma.

Si, alla fine quello di Stefano era proprio un omicidio.

di  Alessio Ramaccioni 
Omicidio preterintenzionale. Dodici anni di carcere. Soltanto due in più del tempo che è servito affinché un giudice abbia deciso che quello di Stefano Cucchi è stato un omicidio, e che i due autori materiali del pestaggio che causò la sua morte, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, sono due assassini.

Dieci anni lunghissimi, durante i quali è successo di tutto: depistaggi, falsificazioni, menzogne, offese (alla famiglia ed alla memoria di Stefano). E’ capitato addirittura che un ministro dell’Interno – Angelo Alfano – mentisse durante un intervento in Senato sulla base di una serie di atti falsi che erano arrivati a lui dopo un delirante percorso di mistificazione della realtà partito nella caserma dove avvenne materialmente il pestaggio e proseguito attraversando le gerarchie dell’Arma dei Carabinieri.

Un susseguirsi di falsità volte non solo a nascondere quello che era realmente avvenuto, ma anche a screditare quei pochi che provavano a dirla, la verità; come ad esempio il carabiniere Riccardo Casamassima, tra i primi a raccontare quello che era successo e per questo oggetto di accuse (quasi tutte inventate) ed allusioni.

Ce ne sono tante di storie così, all’interno della grande e tragica storia della morte di Stefano.

Una storia che ieri ha avuto una sua prima conclusione, finalmente vera.

La sentenza emessa ieri dalla Corte d’Assise di Roma ha fatto giustizia, anche se ha parzialmente alleggerito le pene che erano state richieste dal pm Giovanni Musarò: aveva chiesto 18 anni per D’Alessandro e Di Bernardo, che sono stati invece condannati, appunto, a dodici anni di carcere. Condannato a due anni e sei mesi per falso il carabiniere Francesco Tedesco, uno dei testimoni chiave del processo (assistette al pestaggio da parte dei suoi due colleghi) e, sempre per falso, a tre anni e otto mesi Roberto Mandolini, al tempo comandante interinale della Stazione Appia (che è stato assolto invece dal reato di calunnia). Tedesco è stato assolto dalla condanna di omicidio.

Una assoluzione e quattro prescrizioni, invece, per i cinque medici imputati (inizialmente per abbandono d’incapace, poi per omicidio colposo): assolta Stefania Corbi, prescritti il primario del reparto di Medicina Protetta del Pertini (dove era stato portato Stefano) Aldo Fierro ed i medici Flaminia Bruno, Luigi de Marchis Preite, Silvia Di Carlo.

Ancora aperto invece il processo che riguarda i depistaggi sulla morte di Stefano, che ha comunque avuto il suo colpo di scena: in apertura di udienza uno dei giudici, Federico Bonagalvagno, si è dovuto astenere dal processo in quanto ex carabiniere in congedo.

La decisione è arrivata solo dopo una richiesta esplicita dei legali della famiglia Cucchi (il giudice aveva organizzato convegni invitando alti ufficiali dell’Arma, e dai report era venuta fuori la sua precedente carriera in quel corpo). E’ da sottolineare come a questo giudice non fosse nemmeno venuto in mente di astenersi spontaneamente dalla causa (come se non si fosse reso conto del clamoroso “conflitto di interessi”). E va altrettanto sottolineato che continuerà la sua carriera da magistrato giudicante: ossia ad emettere sentenze sulla base di rapporti delle “forze dell’ordine” (carabinieri e polizia giudiziaria), che presumibilmente avranno per lui un’attendibilità maggiore rispetto a qualsiasi altro “giudice terzo”.

Processo altrettanto importante, quello sui depistaggi: la macchina della disinformazione che fu allestita per coprire le azioni dei due carabinieri poi condannati è così ampia, articolata ed inesorabile da rappresentare una ferita enorme per una democrazia come dovrebbe essere la nostra. Lo Stato che, pur di difendere se stesso, mente a danno di chi dovrebbe massimamente tutelare: i cittadini. Un’altra storia nella storia, quella di Stefano, che quindi fu assassinato: picchiato, piegato, massacrato e lasciato morire.

E’ naturale che tornino alla mente le parole di Matteo Salvini, di Gianni Tonelli, di Carlo Giovanardi, di Ignazio La Russa e di tutti coloro scelsero – per ideologia, per convinzioni personali, per incapacità di avere pensieri diversi e più grandi di quelli che hanno – di difendere ciecamente i carabinieri soltanto perché tali.

Parole spazzate via dalla verità processuale, che naturalmente ha tutti i gradi di giudizio previsti per poter essere confermata. Parole che però in qualche modo meritano di essere spazzate via, come tutte le cose brutte o alla fine irrilevanti della storia.

mercoledì 13 novembre 2019

UN LAVORO SEMPRE PIU' UMILIANTE


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La situazione della redistribuzione dei redditi in Italia è andata via via peggiorando dagli anni settanta ad oggi,ed il dato calato di dieci punti percentuali(dal 75 al 65%)va ricercato principalmente nella diminuzione del denaro investito nello Stato sociale,i sindacati che si sono inginocchiati se non allineati ai padroni,nella sempre più crescente disoccupazione e nella flessibilità lavorativa,con contratti part time infiniti ed orari e giorni lavorativi assurdi e degradanti.
Proprio quest'ultima ha sempre più una valenza sociale oltre che economica,col lavoratore costretto ad abbassarsi al volere dello sfruttatore datore di lavoro e che per tenersi il sempre più rosicato stipendio(in base alle mansioni sempre più alte)accetta le condizioni sempre più precarie sia in termini di reddito che di sicurezza e garanzia in materia di salute e di ferie.
L'articolo di Contropiano(news-economia )oltre le impietose percentuali in aumento per quel che concerne la povertà,spiega come effettivamente maggiori risorse ci siano e su come lo Stato,con queste politiche liberiste e basate sul capitale in denaro e non quello umano,non voglia fare marcia indietro sulla questione lavorativa italiana,e che anzi indirizzata dall'Europa voglia sempre più togliere condizioni di garanzia ai lavoratori e aiutare maggiormente i poteri forti,con l'esempio lampante di spostare la pressione fiscale dal ricco al povero.

Redistribuire: i soldi ci sono, basta andare a prenderli.

di  Coniare Rivolta* 
In una delle scene cult di Pulp Fiction, la nota coppia di gangster si ritrova davanti ad un increscioso problema: sui sedili posteriori della loro auto un ragazzo ha appena ricevuto un colpo di pistola alla testa, c’è sangue dappertutto e la macchina è zeppa di brandelli di materia grigia. I due malviventi devono assolutamente ripulire l’auto e liberarsi quanto prima di ciò che resta di quel corpo. Presi dal panico, si rivolgono ad un famigerato problem solver, il signor Wolf, che si presenta sul luogo del misfatto e aiuta i due criminali ad uscire da quella situazione complicata.

L’esplosione delle disuguaglianze che si sta verificando nei principali paesi avanzati ricorda molto questa scena di Tarantino. Ma la sempre maggiore concentrazione della ricchezza in poche mani rappresenta un increscioso problema solo per lavoratori e disoccupati, perché non siamo tutti sulla stessa barca e, quando le disuguaglianze si allargano, i lavoratori perdono reddito in favore di profitti e rendite. Solo una parte della società, dunque, avrebbe davvero bisogno dell’intervento di un Mr. Wolf.

In Italia i lavoratori riescono ad appropriarsi oggi del 65% del prodotto sociale, mentre negli anni Settanta i salari si aggiudicavano circa il 75% della torta. Abbiamo così assistito ad una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti di 10 punti percentuali che si spiega solo in base ad un progressivo spostamento dei rapporti di forza in favore del capitale: indebolimento del sindacato, costante riduzione dello stato sociale, flessibilizzazione del mercato del lavoro con annessa proliferazione dei contratti precari e dei part-time involontari e, non ultimo, disoccupazione di massa hanno messo in ginocchio i lavoratori, consentendo al capitale di riprendersi quelle quote di reddito che una lunga e durissima stagione di lotte aveva assicurato ai salari.

Un ulteriore sguardo ai dati ci dà la misura della drammaticità del problema. Per il 2018 l’ISTAT ha stimato 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta, per un totale di 5 milioni di individui: ciò significa che quasi una persona su dieci, in Italia, vive in condizioni di povertà assoluta, fino ad arrivare ad una su cinque se si confina l’analisi al sud. Guardando alla ricchezza posseduta, attualmente il cosiddetto top 10% (ossia il dieci percento più ricco) della popolazione italiana possiede oltre sette volte la ricchezza posseduta dalla metà più povera della popolazione. La disuguaglianza risulta ancora più elevata se si fa riferimento al 5% più ricco degli italiani, che detiene quasi la metà della ricchezza nazionale, o addirittura osservando che l’1% più ricco detiene un quarto della ricchezza nazionale. Analizzando, infine, il trend degli ultimi 20 anni, si nota che la quota di ricchezza detenuta dal top 10% è passata dal 50% del 2000 all’attuale 56%, mentre quella della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, passando dal 13,1% di inizio millennio ad appena il 7,85% nel 2018. Insomma, la situazione non solo è grave, ma pare essere in costante peggioramento.

Davanti a questa macelleria sociale, un tarantiniano signor Wolf potrebbe essere rappresentato dallo Stato, che storicamente ha contribuito a determinare le fondamentali tendenze redistributive operando sulla leva fiscale e sull’intervento pubblico nell’economia. La politica economica godrebbe in teoria di tutti gli strumenti necessari a combattere la disuguaglianza e favorire l’equità sociale redistribuendo redditi e ricchezza.

La prima arma in mano allo Stato è, vista l’elevatissima correlazione tra disoccupazione e povertà, il perseguimento di una piena e buona occupazione. L’obiettivo del pieno impiego resta il principale canale di riduzione delle disuguaglianze. Uno Stato capace di assicurare un’occupazione a tutti, e di assicurarla a condizioni retributive e lavorative dignitose, favorirebbe da un lato l’accesso al reddito da parte di coloro che un lavoro non ce l’hanno, e dall’altro ripristinerebbe un certo equilibrio nei rapporti di forza tra lavoro e capitale, con conseguente inasprimento del conflitto distributivo e della ripresa di quella dinamica salariale ferma al palo da decenni. Infatti, con più occupazione viene spuntata l’arma principale usata dai capitalisti per disciplinare i lavoratori, il ricatto della disoccupazione. La paura di perdere il posto e, con quello, il reddito, costringe oggi milioni di lavoratori a chinare il capo davanti alla prepotenza del profitto, che impone le peggiori condizioni di lavoro senza incontrare opposizioni politiche o sociali di massa, come invece accadeva negli anni Settanta. La piena occupazione, dunque, non deve essere vista come un orizzonte politico e sociale in sé, ma come un presupposto per una nuova offensiva dei lavoratori, finalmente liberi di rialzare la testa e guidare una nuova e vigorosa ripresa della lotta di classe.

Tuttavia, far sì che tutti siano occupati, ed occupati dignitosamente, potrebbe non essere sufficiente a garantire un adeguato livello di uguaglianza, in virtù dell’enorme concentrazione della ricchezza a cui siamo arrivati. Ecco allora che lo Stato potrebbe utilizzare un altro espediente per redistribuire la ricchezza, andando a toccare il sistema della fiscalità. Fatta salva l’opportunità teorica di finanziare in deficit i programmi di spesa sociale, lo Stato potrebbe comunque fare politiche redistributive garantendo welfare e servizi alle fasce meno abbienti della popolazione attraverso il prelievo di risorse nei confronti dei soggetti più facoltosi. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, abbiamo assistito al processo contrario, ossia ad un marcato spostamento del carico fiscale dai più ricchi ai più poveri. A questa tendenza, inoltre, si è associata una sempre più sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte dei redditi da capitale, e in particolare dei grandi capitali, che possono “fuggire” all’estero con estrema facilità nel quadro europeo di piena libertà di movimento del denaro.

Alcune evidenze confermano queste tesi. Il numero di scaglioni, che contribuisce a determinare il grado di progressività delle imposte dirette, è passato dalle 32 aliquote del 1974 alle 5 attuali (e c’è pure chi sogna l’aliquota unica, la flat tax): è chiaro che un numero maggiore di aliquote consente di graduare meglio il carico fiscale sulla base del reddito, mentre un numero inferiore di scaglioni mette sullo stesso piano redditi molto diversi tra loro. Così, ieri era prevista un’aliquota del 72% per i redditi che superavano i 500 milioni di lire, mentre oggi chi supera i 75.000 euro paga un’aliquota del 43%, senza alcuna differenza tra redditi alti e altissimi. Il risultato è che oggi due terzi del gettito IRPEF provengono da contribuenti che guadagnano fino a 55.000 euro l’anno: sono i lavoratori che compongono la classe media, in buona sostanza, a garantire la parte più consistente delle entrate IRPEF dello Stato. E mentre il lavoro sostiene in pieno le spese dello Stato, i profitti pagano un’imposta sostitutiva (IRES) pari al 24% degli utili dichiarati, a prescindere dal livello degli utili, dunque fuori da qualsiasi progressività. È così che nel 2018 lo Stato ha incassato dall’IRES meno di 36 miliardi di euro, mentre i lavoratori dipendenti pubblici e privati, insieme, pagavano circa 154 miliardi di euro di IRPEF. La leva fiscale, quindi, è stata usata negli anni più recenti per contribuire attivamente a determinare quella violenta redistribuzione del reddito dai salari ai profitti: lavoratori e famiglie meno abbienti pagano sempre più imposte, mentre i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno.

Invertire questa tendenza sarebbe, in linea teorica, ben possibile. Per quanto riguarda la tassazione sui redditi, occorrerebbe informare a criteri di progressività il sistema tributario e riportare sotto il cappello di tale progressività tutti i redditi, principalmente quelli da capitale, che ad oggi ne restano esclusi. Si tratta, in sostanza, di far pagare a coloro i quali percepiscono un reddito più elevato delle imposte via via maggiori, applicando un sistema di aliquote più che proporzionale rispetto al reddito – l’esatto contrario di quanto fatto negli ultimi anni e di quanto proposto dai sostenitori della flat tax. In maniera analoga, parte delle risorse destinate a finanziare la spesa sociale – e quindi a ridurre indirettamente la disuguaglianza – potrebbe derivare da una tassazione sui grandi patrimoni, proprio alla luce di quell’1% più ricco degli italiani che detiene il 25% della ricchezza nazionale. Esistono poi altre forme di redistribuzione attuabili mettendo mano al vigente sistema di funzionamento del fisco: basti pensare ad una eventuale revisione delle aliquote IVA (ad esempio, all’abolizione di tale imposta sui beni di prima necessità, di cui si compongono in misura relativamente maggiore i consumi dei meno facoltosi), nonché alla possibilità di decontribuzioni ed agevolazioni fiscali per coloro che non superano determinate fasce di reddito.

Insomma, il nostro Mr. Wolf potrebbe agevolmente incidere sulla redistribuzione del reddito e della ricchezza e risolvere questa situazione complicata per disoccupati e lavoratori: nel pieno rispetto del dettato costituzionale (si veda l’Art. 53), sarebbe infatti possibile rimodulare il sistema tributario e renderlo maggiormente incline alle esigenze degli strati più disagiati della popolazione, contribuendo in questa maniera alla realizzazione di una distribuzione più equa.

È probabile, però, che l’ingresso sulla scena di uno Stato che risolve i problemi dei lavoratori a colpi di fisco e piena occupazione sia destinato a rimanere un pio desiderio per la classe dei lavoratori. Politiche di piena e buona occupazione sono quelle che più spaventano i capitalisti, ed è per questo che la classe dirigente italiana, dopo aver subito un arretramento con la stagione di lotte degli anni Settanta, ha costretto il Paese sui binari dell’integrazione europea. L’Italia è ora inserita in un contesto istituzionale che vieta per legge le politiche fiscali di spesa necessarie a promuovere la piena occupazione: nei vincoli europei – da Maastricht al Fiscal Compact – non vi è alcuno spazio per perseguire una crescita economica caratterizzata da migliori condizioni di lavoro. Il sistema europeo è fondato sul ricatto della disoccupazione di massa, usata come arma per imporre una crescente polarizzazione della ricchezza.

Inoltre, un sistema fiscale progressivo ed una tassazione più severa sui redditi da capitale non risultano certamente compatibili con i princìpi di libera circolazione delle merci e dei capitali su cui sono incardinati i trattati dell’Unione Europea. Se pure riuscissimo a mettere mano al sistema fiscale, infatti, i capitali sarebbero liberi di spostarsi in altri Paesi europei per fuggire alla tassazione, e la libertà di movimento delle merci gli consentirebbe di venire a vendere in Italia i beni che sarebbero prodotti altrove. Solo un pieno ritorno al controllo dei flussi di merci e capitali può permettere di ridiscutere radicalmente il sistema tributario nella direzione di una maggiore equità e progressività.

Regole e Trattati europei si palesano ancora una volta come delle catene appositamente concepite per tenere a bada le rivendicazioni degli ultimi, contribuendo in questo modo a generare quella disuguaglianza che rende i lavoratori più facilmente ricattabili e favorendo lo sfruttamento. Lo si capisce bene se si ammette che persino le opzioni riformiste, come quella di un nuovo sistema fiscale ispirato a principi di progressività, appaiono totalmente incompatibili con la gabbia dell’Unione Europea. In teoria, lo Stato ha tutto il potere di incidere sulla distribuzione del reddito e della ricchezza, influenzando così i rapporti di forza tra le classi sociali. In pratica, tale potere è esso stesso terreno di lotta, un ambito dello scontro sociale che, con il procedere dell’integrazione europea, diventa sempre più difficile contendere per i lavoratori.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

martedì 12 novembre 2019

SANCHEZ CON LA DESTRA O LA SINISTRA?


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L'ennesimo ritorno alle urne in Spagna,ormai in media una volta l'anno negli ultimi quattro anni,oltre che a sancire l'ingovernabilità ha decretato il successo del partito di estrema destra di Vox,in un contesto che ha visto comunque il Psoe di Sanchez vincere sul Pp queste elezioni.
L'articolo di Left(sanchez-al-bivio-dopo-il-voto )mette il leader progressista a fronte di una scelta,se continuare a flirtare con Casado dei popolari oppure tentare la virata verso sinistra e unirsi con Podemos ed i nazionalisti del Pnv baschi e quelli catalani di Erc,visto che Mas Pais la nuova creatura della sinistra non ha ottenuto i risultati sperati.
Un clima di bagarre sulla scia di quello successo in Catalogna continua in Spagna,e stavolta vedremo se Sanchez avrà il coraggio di risolvere la questione di Barcellona in maniera politica senza snobbare gli indipendentisti(se non attaccarli)oppure sceglierà la via più facile,quella del neoliberismo accordandosi nuovamente con i liberali del Pp più avvezzi in piani di austerità imposti da Bruxelles.

Sánchez al bivio: o il modello neoliberista o la svolta a sinistra.

di Massimo Serafini e Marina Turi
Le urne hanno confermato che la scelta di Sánchez e dei socialisti di riportare la Spagna al voto, per la quarta volta in quattro anni, è stato un errore che era meglio evitare. Il Psoe perde tre seggi e rimane con 120 deputati, Unidas Podemos scende da 42 a 35, il PP sale da 66 a 88 seggi, Vox diventa terza forza con 52 deputati e Ciudadanos sparisce con solo 10 deputati. Nessuna forza ottiene la maggioranza assoluta per poter governare da sola. Vox, il partito di Santiago Abascal, si configura come la principale minaccia del bipartitismo.

Si è sciolta l’incognita Más País, la nuova formazione a sinistra del Psoe, che avrà solo tre deputati, contro i 15 che si aspettava, ma Íñigo Errejón ha insistito sull’idea che i numeri rendono possibile un governo progressista e la responsabilità è raggiungere un accordo dopo le elezioni. E, sebbene Más País abbia sostenuto di non voler sottrarre i voti a Unidas Podemos, i numeri sono chiari: la somma di Unidas Podemos -3.090.540- e Más País -553.009 – supera la somma dei voti di Vox, 3.632.410.

La nuova opportunità elettorale è stato un regalo inaspettato per le destre spagnole che erano state fermate, ma che ora tornano alla ribalta, in qualche modo determinanti. La crescita a destra riconcentra i suoi voti sul PP di Casado, penalizzando di conseguenza Ciudadanos, fino a renderlo non significativo, ma soprattutto sdogana definitivamente il partito di ultradestra Vox con le sue politiche sessiste e razziste.

Ripetere più o meno lo stesso risultato elettorale del 28 aprile scorso per le sinistre è stato il migliore scenario possibile. Il Psoe vince numericamente le elezioni, ma senza migliorare il suo ultimo risultato elettorale e per governare è comunque vincolato al voto degli indipendentisti. Queste elezioni non hanno cancellato Unidas Podemos, come auspicava qualcuno tra i socialisti, che rimane una forza essenziale per un governo di sinistra.

Se c’è qualcosa di positivo in questo voto, è che teoricamente lascia ai socialisti la stessa possibilità che avevano dopo le precedenti elezioni di dare vita a un governo di coalizione e progressista. Possibilità solo teorica perché richiederebbe una nuova svolta a sinistra del Psoe, difficile dopo il netto spostamento a destra che ha portato al rifiuto di qualsiasi accordo con Podemos.

Si sono di fatto abbandonati i punti qualificanti del patto di bilancio concordato fra Iglesias e Sánchez, fra cui la possibilità di mettere regole precise al mercato dell’affitto sconvolto da una bolla speculativa che ha messo in discussione in tutte le città spagnole il diritto costituzionale ad avere una abitazione, per consegnarsi a un turismo distruttore e demolitore di ogni identità urbana. In più è stata accantonata la deroga delle due leggi simbolo dei governi della destra: quella sul lavoro e quella sulla sicurezza cittadina, detta legge bavaglio, la repressiva Ley Mordaza.

Ma la conferma di questa svolta a destra è l’avere derubricato i gravi problemi sociali che colpiscono la Spagna, per concentrare tutto lo scontro elettorale sulla Catalogna.
Dopo l’iniqua sentenza che ha condannato a più di 100 anni di detenzione i dirigenti indipendentisti catalani si è accettato di mettere al centro dello scontro elettorale ciò che le destre volevano e cioè la questione territoriale. Il dialogo ha lasciato il posto a una progressiva accentuazione della scelta repressiva che ha significato per i socialisti abbandonare il terreno della plurinazionalità.

Il risultato elettorale lascia ora ai socialisti due possibilità o continuare a piegarsi ai poteri forti delle banche, alle grandi corporazioni energetiche e ai grandi patrimoni, con un indurimento delle misure sociali ed ambientali e della repressione in Catalogna, o tornare a quel progetto con cui Sánchez si riprese la segreteria del Psoe, basato su una svolta nelle politiche sociali ed economiche e sulla volontà di trovare una soluzione politica alla questione catalana.

La prima scelta passa per un accordo con le destre, isolando la parte estrema di Vox, e cercando l’intesa con il PP, un ritorno al passato, alle larghe intese in nome della governabilità e della stabilità. La seconda per la coalizione con Unidas Podemos con l’appoggio dei nazionalisti baschi del PNV e di ERC, la forza indipendentista catalana. Quindi o Sánchez fa un’offerta al PP di Pablo Casado, dando di nuovo spazio al modello neoliberista europeo, o dovrà ricercare quei partner che ha disprezzato in giugno e luglio.

Se per una volta si guardasse a ciò che la vicenda catalana sta oscurando e cioè l’enorme crisi sociale e ambientale che sta lentamente colpendo l’Europa, Spagna compresa, forse i socialisti capirebbero che il prezzo da pagare per una soluzione della crisi puntando alle larghe intese è troppo alto. La situazione obiettiva spingerà il PP e quel poco che resta di Ciudadanos verso scelte sempre più autoritarie, sotto forma di nazionalismo e razzismo, e sempre più verso la destra estrema di Vox.

Ada Colau, sindaca di Barcellona, verso mezzanotte ha twittato: “Nessuna persona democratica e progressista può essere contenta oggi. L’estrema destra avanza per l’incapacità della sinistra. Pedro (Sánchez) le tue elezioni sono state un fallimento. E in generale, o la sinistra fa un fronte ampio, o andiamo todas a la mierda”

lunedì 11 novembre 2019

MORALES COSTRETTO A DIMETTERSI


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Negli ultimi mesi sempre di più la cronaca sta parlando del Sudamerica e dei tentativi di sovvertire l'ordine con colpi di Stato orchestrati dagli Usa,che si ritirano dal resto del mondo ma che hanno aumentato la loro dittatura dal Messico in giù.
Da Venezuela all'Ecuador passando dall'Argentina e il Brasile,ecco che la situazione in Bolivia è precipitata nel caos nelle ultime ore a seguito della ribellione della polizia e dei militari che di fatto hanno costretto alle dimissioni il Presidente Evo Morales.
Un golpe nato dalle proteste alle ultime elezioni dove si è parlato di brogli per eleggere direttamente Morales senza ricorrere al ballottaggio,in un aumento di attacchi fascisti a politici e sindacalisti oltre che un tentativo di uccidere l'ormai ex Presidente di ritorno da un viaggio a Cuba.
Non si sanno ancora le prossime decisioni,la democrazia in Bolivia per ora è un'utopia e delle nuove elezioni potrebbero indicare la via per uscire fuori da questa situazione complessa e pericolosa come riportato dall'articolo preso da Infoaut:conflitti-globali .

Colpo di stato in Bolivia, Morales si dimette.

Alla fine il presidente boliviano Evo Morales è stato costretto a dimettersi. Dopo la conferenza stampa in cui i militari avevano "suggerito" al presidente di mettersi da parte, Morales e i membri del suo partito, il MAS, che ricoprivano la carica di vice-presidente e presidente del Senato hanno rassegnato le loro dimissioni.

La scelta avviene dopo quasi un mese di proteste di piazza portate avanti dai Comitati Civici di Luis Fernando Camacho, leader dell'opposizione, e dalla Unión Juvenil Cruceñista formazione paramilitare composta da fascisti, anticomunisti ed ultracattolici. Le proteste sono state giustificate con dei presunti brogli elettorali che Morales avrebbe organizzato per evitare di finire al ballottaggio. Durante le manifestazioni che hanno visto come epicentro la roccaforte dell'opposizione, la città di Santa Cruz de la Sierra, i fascisti si sono prodigati in diversi episodi di violenza contro leaders sindacali, politici del MAS e la famiglia del presidente. Fino ad arrivare ad un attentato fallito all'elicottero su cui viaggiava Morales al rientro da una conferenza a Cuba. Morales negli scorsi giorni si era anche detto disponibile a una nuova tornata elettorale per dissipare i dubbi sui brogli, ma il tradimento delle forze di polizia e il posizionamento dei militari hanno fatto precipitare la situazione.

Il governo di Morales, primo leader indigeno a diventare presidente, ha rappresentato per anni un esperimento di ridistribuzione sociale non indifferente, se pure pieno di contraddizioni. Negli ultimi tempi però ha fatto sempre maggiori concessioni alle elites del paese e ai militari per tentare di tenere in equilibrio la propria presidenza e questo ha portato ad un forte scontento e disillusione tra alcune parti dei settori popolari che lo avevano fin qui sostenuto. Anche in questo caso traspariscono alcuni dei limiti riscontrati in altri esperimenti socialisti nel continente sudamericano (il confidare troppo nell'estrazione di materie prime per assicurare la redistribuzione, l'incapacità di mettere a critica fino in fondo l'iniziativa privata, tanto che da alcuni osservatori il progetto economico di Morales veniva soprannominato "capitalismo andino", i rischi legati alla burocratizzazione ecc… ecc…), ma indubbiamente per i poveri, i lavoratori e gli indigeni si preparano tempi duri dopo aver comunque conquistato delle condizioni sociali migliori e delle libertà maggiori. A testimoniarlo immediatamente il gesto dei militari che hanno ammainato la Wiphala, la bandiera che rappresenta i popoli indigeni, voluta da Morales accanto alla bandiera nazionale nel 2009, dal palazzo presidenziale.

Il golpe, portato avanti dalle elites borghesi e dai militari, conferma la strategia trumpiana di voler tornare a mettere ordine in quello che gli USA chiamano "cortile di casa" (correlato a un parziale disimpegno in Medio Oriente). Il desiderio degli strateghi statunitensi però finora si è incagliato di fronte a diversi ostacoli. Il fallito colpo di Stato in Venezuela, il movimento contro Pinera in Cile, quello in Ecuador e la scarcerazione di Lula in Brasile sono più che un grattacapo per la Casa Bianca. Ora l'attenzione dei falchi nordamericani si rivolge verso la Bolivia e le sue riserve di litio (fondamentali per molti dispositivi elettronici), ma non è detto che la transizione sarà così liscia in un continente in ebollizione contro le politiche neoliberiste e coloniali.

sabato 9 novembre 2019

LA SCARCERAZIONE DI LULA


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Dopo più di un anno e mezzo passato in carcere l'ex Presidente brasiliano Lula Da Silva è ritornato in libertà dopo la decisione della corte suprema che ha deciso di appoggiare la linea difensiva degli avvocati.
Subito si è radunata una folla immensa per salutare Lula fuori dal carcere di Curitiba,che ha promesso un discorso alla nazione sul fango gettato sulla sua persona,sul Partito dei lavoratori e sulla sinistra(madn la-verita-su-lula ),in un paese che sta vivendo un momento storico importante vista la presidenza attuale di Bolsonaro criticato a più riprese per le sue politiche liberticide e la questione amazzonica(madn la-terra-bruciadi-nuovo ).
Nell'articolo di Contropiano(lula-e-libero-brasile-in-festa )le prime impressioni sulla liberazione e il clima di festa ma con la testa sulle spalle per proseguire il lavoro di opposizione alle politiche fasciste che stanno mettendo in ginocchio la maggior parte dei brasiliani.

Lula è libero! Brasile in festa.

di  Redazione Contropiano 
Lula Da Silva è libero! La corte Suprema accetta la linea della difesa e scarcera l’ex presidente del Brasile, arrestato con false accuse per impedirgli di vincere le elezioni poi finite nelle mani di Bolsonaro.

Che ora comincia a tremare…

La Corte Suprema aveva infatti annullato con 6 voti favorevoli e 5 contrari una precedente sentenza che richiede che i  condannati vadano in prigione dopo aver perso il primo appello, aprendo la strada anche alla sua scarcerazione e di altri 5mila detenuti. In Brasile, come in Italia, una condanna diviene definitiva solo dopo la sentenza di Cassazione; anche se Rio de Janeiro ha un grado di civiltà giuridica superiore a quella italiana, visto che non prevedere l’ergastolo (e tanto meno “ostativo”).

Il voto decisivo è stato quello del presidente del massimo tribunale brasiliano, Antonio Dias Toffoli, nominato peraltro dallo stesso Bolsonaro (evidentemente la legge non gli lasciava alternative).

Il permesso di rilascio è stato firmato dal giudice Danilo Pereira Junior, titolare del 12 ° Tribunale federale di Curitiba, è stato inviato venerdì alle 16:15. Una folla si è subito radunata all’uscita del carcere, in attesa dell’uscita.

Lula è stato un prigioniero politico  esattamente per 580 giorni, dal 7 aprile 2018, dopo la condanna del Porto Alegre nel processo triplex di Guarujá. Dopo una serie di decisioni di persecuzione e di “accelerazione” del suo processo, una decisione del Supremo alla fine ha portato alla sua libertà.

Secondo il giornalista Marcelo Auler, che si trova a Curitiba, la polizia federale era già stata informata da Pereira Junior che Lula avrebbe dovuto lasciare il PF oggi.

Il leader del PT raccomanda tranquillità. “Continuiamo con calma, come lo è il presidente, ed evitiamo le provocazioni che potrebbero derivare dal clima di odio ed estremismo di destra, per non rovinare questo momento di gioia, di una fase passata nella ricerca della difesa della democrazia e della giustizia per Lula. Continuiamo su questa strada per la piena libertà di Lula con l’annullamento di condanne ingiuste contro di lui“.

E’ uscito dalla prigione con il pugno alzato, promettendo di “continuare a lottare per il popolo brasiliano”, stringendo mani e abbracciando uno per uno i suoi sostenitori, alcuni in lacrime, che lo attendevano davanti alla Soprintendenza di Curitiba da 580 giorni.

L’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva ha varcato nel pomeriggio, accolto da un mare di folla, la soglia della prigione dove si trovava agli arresti dal 7 aprile 2018 con l’accusa di corruzione e riciclaggio di denaro nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, considerata la Mani Pulite verdeoro e guidata da un magistrato, Sergio Moro, addestrato negli Usa e premiato poi da Bolsonaro con la nomina a ministro della Giustizia.

L’ordine di scarcerazione è arrivato a tempo di record. L’ex presidente del Brasile ne era così sicuro che già in mattinata aveva annunciato “un grande discorso alla nazione” una volta fuori. Ha inoltre dichiarato che avrebbe lasciato la prigione “più a sinistra” di quando vi era entrato.
Ha accusato la giustizia, la polizia e lo Stato brasiliano di aver tentato di “criminalizzare” la sinistra per i 580 giorni in cui è stato imprigionato per una condanna per corruzione.

“Avevo bisogno di resistere per combattere contro il lato marcio dello Stato, della Polizia federale, della Procura della Repubblica, della Giustizia. Hanno lavorato per criminalizzare la sinistra, Lula e il Partito dei Lavoratori”.

Leader indiscusso del Partito dei lavoratori, da lui co-fondato, Lula conquista la presidenza con un programma di economia sociale che, secondo le stime ufficiali, ha sottratto 29 milioni di persone alla povertà.

venerdì 8 novembre 2019

CHI HA PAURA DI LILIANA SEGRE?


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La scorta prevista per l'incolumità fisica per la senatrice a vita Liliana Segre,quella intellettuale non necessità di alcuna protezione,è stata resa indispensabile viste le minacce gravi,anche di morte,che le sono arrivate dopo l'istituzione della commissione parlamentare di vigilanza ma anche d'indirizzo contro i fenomeni di intolleranza e di razzismo,di antisemitismo e di istigazione all'odio e alla violenza lo scorso 30 ottobre.
La maggioranza ha votato compatta per questa commissione mentre anche la destra(Lega,Fdi,e Fi)si sono astenuti,di fatto una contrarietà bella e buona del lupo che perde il pelo ma non il vizio di essere a stretto contatto,se non palesemente a favore e con membri effettivi nelle loro fila,coi fascisti che ultimamente godono di una elevata immunità giudiziaria,vedi il caso dei fognauovisti assolti per il saluto romano in Liguria.
Nell'articolo di Left(non-lavevamo-mica-salvata-liliana-segre )un percorso di memoria che nonostante tutto non sta servendo molto,un tentativo fatto già dalla fine della guerra e dalla firma della Costituzione che però si sta affievolendo e che come ricordato sopra nonostante leggi chiare sull'argomento si sta riabilitando il fascismo che non solo è tollerato ma incitato.
Ma sono proprio i fascisti ad avere una paura tremenda della signora Segre,visto che nulla possono contro la memoria storica e l'istruzione,sta a noi fare riflettere e studiare le nuove generazioni,visto che con quelle più vecchie ormai le speranze sono poche e servirebbero più le bastonate.

Non l’avevamo mica salvata, Liliana Segre.

di Giulio Cavalli
Forse ci eravamo illusi che bastasse questo: avere visto la sconfitta dei tedeschi, avere rimosso Mussolini, avere aperto i cancelli dei lager, essersi seduti per scrivere una Costituzione con le migliori menti del Paese per evitare la rinascita di qualsiasi dittatura, avere letto le parole di Primo Levi, avere portato i partigiani a scuola per raccontare cosa fu il fascismo, avere organizzato incontri con i deportati perché i loro tatuaggi fossero i nostri tatuaggi. Abbiamo pensato che dopo un orrore del genere, dopo avere tollerato che le persone diventassero fumo sarebbe stato impossibile ricaderci.

E abbiamo pensato di averla salvata, Liliana Segre, lei e i sopravvissuti alla sventura, abbiamo pensato di averli onorati del nostro dolore e della compassione e abbiamo pensato che ora Liliana Segre fosse al sicuro. Ci sbagliavamo. Eccome. E non ci sbagliavamo solo perché ora abbiamo in giro una grande donna, anziana gentile, nobile solo per come non abbia mai ceduto al giogo della rabbia e della vendetta che deve essere protetta dallo Stato per l’odio che scorre contro tutto quello che rappresenta ma ci sbagliavamo anche perché ci eravamo convinti di dovere proteggere Liliana Segre dal passato e invece abbiamo costruito un presente che la mette in pericolo, ancora.

In pericolo da una vita, Liliana Segre: significa che non ne siamo mica usciti da quel rancido periodo di violenza. È cambiato il fascismo, sotto traccia e dissimulato in sovranismi vari all’amatriciana, ma questo Paese è ancora un pericolo per la Segre. Ecco, scusate, a me fa scoppiare il cervello sapere che non l’abbiamo mica salvata Liliana Segre, non è tanto la questione della scorta, mica solo questo, è la consapevolezza che questo Paese sia ancora “pericoloso” per lei a non andarmi giù, che in tutti questi anni non abbiamo voluto vedere la brace che sotto bruciava ancora.

«Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea», scriveva Primo Levi. Noi pensavamo che fosse un capitolo di Storia. Invece è una diagnosi dell’oggi.

Buon venerdì.

mercoledì 6 novembre 2019

LA FINE DELL'EX ILVA?


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In questi giorni uno degli argomenti caldi è la scelta di Arcelor Mittal di andarsene da Taranto abbandonando l'ex Ilva ad un destino che sembra già segnato,la chiusura del più grande stabilimento per la produzione di acciaio dell'Europa.
L'articolo proposto(contropiano nessuna-impunita )parla della fuga del gruppo indoeuropeo per la semplice motivazione di non avere ricevuto più i segnali tangibili dell'impunità dei propri dirigenti,un passo indietro del governo italiano che di fatto aveva deciso qualche giorno fa che sarebbe stata tolta l'immunità penale sull'inquinamento e l'avvelenamento.
Perché il problema principale dell'ex Ilva è sempre stato questo negli ultimi anni:la produzione e la buona riuscita dell'impresa contro una situazione sanitaria tragica che ha fatto registrare malattie e decessi in tutta l'area.
O il pane o la salute,il lavoro o la morte insomma,e gli investimenti calcolati per avere una produzione senza inquinamento(perché si può fare)sono troppo onerosi per chi ha la brama solo di capitalizzare il proprio denaro(vedi:madn chi-gioca-sullilva ).
Non solo questi sono i problemi dell'industria che fu dei Riva e che tempo addietro era punto cardine del sistema industriale pubblico,anche gli infortuni sul lavoro e la situazione degli altri impianti in tutta Italia da Terni a Genova fino a Piombino sono a rischio,i sindacati sono divisi sui probabili scioperi e la politica fa confusione e spettacolo televisivo mentre altri accordi permettono la delocalizzazione delle aziende o la chiusura in toto di esse.
Il sistema del diritto o del lavoro inventato dal"compianto"Marchionne ha fatto scuola,interventi del pubblico per foraggiare i privati,cassa integrazione continua finita in licenziamenti,orari impossibili e redditi diminuiti,sono il frutto della liberalizzazione scellerata che ha aiutato solamente i padroni ed il capitalismo.

Nessuna impunità per Arcelor. L’unica soluzione è nazionalizzare.

di  Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo) 
Il precipitare della vicenda Arcelor Mittal è solo un altro atto del degrado industriale, sociale e politico del paese. Il solo fatto che si possa considerare tema di confronto tra le forze politiche e sociali l’immunità penale su inquinamento e avvelenamento, pretesa dalla multinazionale franco indiana. Il solo fatto che questa immunità sia stata nel passato concessa e magari ancora promessa sottobanco.

Il solo fatto che oggi vi siano politici e sindacalisti, da Renzi, a Salvini, a Landini, che propongano di concedere questa immunità all’azienda per non farla andare via o per non concederle alibi. Il solo fatto che si possa tranquillamente anteporre la conservazione dei posti di lavoro al rispetto delle leggi sulla salute delle persone, in una realtà industriale dove di inquinamento e di infortuni sono morte in tante e tanti. Uno solo di questi fatti segnala di quanto sia regredito un paese in cui il palazzo fa finta di emozionarsi per i giovani di Fridays For Future.

Nel 2010 Marchionne impose a Pomigliano il ricatto: o i diritti o il lavoro. Oggi questo ricatto si è esteso alla stessa vita delle persone. Anni di crisi e di disoccupazione di massa, in particolare nel Mezzogiorno, hanno costituito la base materiale per estendere ed ampliare la fuoriuscita dell’economia e del lavoro dalle condizioni della Costituzione e della stessa civiltà.

Ma su questa base si è poi inserito il dominio dell’impresa e del mercato, con la relativa ideologia diventata senso comune di massa. E la politica, almeno quella ufficiale, si è totalmente asservita ad impresa e mercato. Gli stessi Cinquestelle, che pure avevano iniziato con un punto di vista diverso, ora paiono semplicemente travolti nella difesa di principi a cui non credono più.

La famiglia Agnelli cede la FCA a PSA e la politica tace o approva. Le multinazionali delocalizzano e la politica tace o cede. È in questo contesto che Arcelor può fare il suo ricatto estremo.

Lo stabilimento di Taranto non può più produrre senza inquinare e senza mettere a rischio le persone, ma probabilmente non può nemmeno davvero produrre.

Mancano all’appello miliardi di investimenti, non solo per eliminare i veleni, ma per rendere la produzione minimamente sicura e anche efficiente. Quando l’Ilva è stata ceduta ad Arcelor aveva 13000 dipendenti, ma la multinazionale ne ha impiegati con fatica solo 8000 e la produzione non ha mai superato la metà di quella prevista. L’azienda accumula milioni di passivo ogni mese. Così gli azionisti hanno destituito il management e lo hanno sostituito con colei che ha tagliato ciò che restava delle Acciaierie di Terni.

È stato lo stesso quotidiano “La Repubblica” poche settimane fa ad anticipare un piano aziendale, non smentito, nel quale si prevedrebbero altri 5000 esuberi. Quindi AM vorrebbe impegnare a Taranto non più di 3000 persone, il che vuol dire la chiusura di gran parte degli impianti. Tutto questo è scomparso nel polverone politico attuale, ma la realtà è che la multinazionale, una volta acquisite le quote di mercato dell’Ilva, le può produrre altrove in modo per essa più conveniente. E protesta contro i giudici perché essi hanno imposto misure di sicurezza e risanamento sul più importante altoforno, che l’azienda non farà nei termini previsti e neppure dopo.

La realtà è che il risanamento e la messa in produzione compatibile con l’ambiente dell’Ilva è un progetto di politica industriale di lungo respiro, che richiede risorse e tempi incompatibili con le esigenze di profitto immediato di una multinazionale. Le produzioni vanno fermate in molti settori e poi riprese solo con altri impianti, nel frattempo garantendo il posto ed il salario ai lavoratori. Quale privato farebbe questo? Nessuno, tanto è vero che non una sola delle crisi aziendali affidate a salvataggi imprenditoriali si è risolta, quasi tutte si sono aggravate.

È il modello di soluzione privatistica delle crisi che è completamente fallito, dalla Pernigotti all’Ilva. Invece la politica insiste in questa ricerca del cavaliere bianco che salvi la fabbrica, ora pare che per Taranto ci si voglia rivolgere a Jindal, quello che sta chiudendo Piombino.

La realtà è che nel momento in cui lo stato ha rinunciato al proprio intervento diretto nelle crisi e a costruire politica industriale, in quel momento la politica ha abbandonato il sistema produttivo italiano al saccheggio. È stato Romano Prodi pochi giorni fa, in una intervista televisiva, ad ammettere che lo smantellamento del sistema industriale pubblico, di cui l’Ilva era parte fondamentale, non fosse una bella cosa, ma una scelta obbligata dalle istituzioni UE.

E così da allora il paese ha perso capacità e qualità produttiva. È la rinuncia al ruolo attivo dello stato, mentre cresceva quello passivo di finanziatore a fondo perduto dei privati, è questa rinuncia che porta al disastro Ilva.
 Anche la contrapposizione lavoro ambiente è stata falsata da questa rinuncia, perché era il paese che doveva decidere se e a quali condizioni produrre a Taranto. Invece si è affidato tutto al mercato e così abbiamo la distruzione del lavoro senza il risanamento dell’ambiente.

Ci vorrebbe quindi una nazionalizzazione vera per l’Ilva con un piano di risanamento e rilancio produttivo gestito dal pubblico, non come eccezione ma come ricostruzione di strumenti validi per tutte le crisi in atto.

La fuga di ArcelorMittal potrebbe essere l’occasione per rivedere tutto il rapporto tra imprese e politica, tra mercato e stato, ripristinando la supremazia costituzionale delle istituzioni.

L’acciaio è meno inquinante della plastica, ma non può essere prodotto al prezzo di salute e vita. Esistono tecnologie ed impianti che permettono una produzione compatibile di acciaio, ma ci vogliono miliardi. Ecco la scelta vera: il paese ritiene utile produrre acciaio? Allora lo stato garantisca che ciò avvenga senza inquinare e devastare, altro che impunità.

Se invece continuerà il balletto a comando del profitto privato, se si concederà ad Arcelor la licenza di avvelenare, allora la politica e la società italiana continueranno a degradare e alla fine il mondo di Salvini sarà quello più adatto a governare il regime dell’impunità.