E' difficile pronunciare la parola giustizia dopo dodici anni di infamie e di accuse,di depistaggi riusciti ed altri svelati,di lotta strenua di una sorella e del suo avvocato,di carabinieri cattivi e criminali e di altri con una coscienza.
La foto di presentazione che vede Stefano Cucchi sorridente è affiancata da quelle di quattro rifiuti umani che hanno prestato servizio in politica che corrispondono ai nomi di Salvini,Tonelli,Giovanardi e La Russa,che hanno le mani insanguinate come quelle dei carabinieri condannati assieme a coloro che hanno gettando fango(sto tranquillo)a Cucchi e altre persone ammazzate dallo Stato e difeso senza se e senza ma i loro aguzzini.
Anche se rimangono ancora troppi lati oscuri e ci sono i vertici dell'arma che hanno tentato di gettare tutto lo sporco sotto al tappeto che ne sono usciti(speriamo momentaneamente)puliti,è tuttavia una sentenza definitiva che è una mosca bianca in un paese come l'Italia,prodiga ad usare violenza e tortura sia durante gli arresti che durante la carcerazione.
Giustizia per Stefano Cucchi, dopo dodici anni.
di Redazione Contropiano
La Cassazione ha condannato in via definitiva a 12 anni – un anno in meno rispetto alla sentenza di appello – i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale per il pestaggio e alla morte di Stefano Cucchi.
Per i due carabinieri condannati dovrebbero a questo punto aprirsi le porte del carcere. Per puro caso, le condanne sono della stessa dimensione del tempo passato a combattere i depistaggi che l’Arma dei Carabinieri – a diversi livelli – ha messo in atto, fino a costringere a ben dieci processi per arrivare infine a stabilire questa verità che appariva evidente fin dal primo momento.
Prima della sentenza, il procuratore generale della Cassazione, Tomaso Epidendio ha dichiarato che i carabinieri hanno “voluto infliggere a Cucchi una severa punizione corporale di straordinaria gravità, per il suo comportamento strafottente. Tutto qui è drammaticamente grave ma concettualmente semplice: senza i calci, gli schiaffi, le spinte, ci sarebbe stata la frattura della vertebra? La risposta è palesemente negativa”.
La ricostruzione dei fatti – che riprendiamo per semplicità da Wired – è, nella sua dinamica abbastanza semplice, ex post.
Stefano Cucchi, la sera del 15 ottobre 2009, veniva arrestato da una pattuglia di carabinieri per il possesso di circa 20 grammi di hashish, 2 grammi di cocaina e due pastiglie di ecstasy.
Prima di essere portato in caserma, il giovane deve condurre i carabinieri a casa dei suoi genitori, dove viveva, per la perquisizione dell’alloggio. L’operazione non porta a nulla, tranne alla constatazione da parte della coppia che loro figlio si trova in buone condizioni fisiche e di salute. Un dettaglio che si rivelerà fondamentale nei successivi 13 anni.
Quella notte, Stefano la passa in caserma, da dove viene allertato il 118 per verificare il suo stato di salute. In poche ore, insomma, le sue condizioni passano da “buone” a “critiche”, tanto da dover essere chiamata un’ambulanza (cosa che, in una caserma dei carabinieri, avviene solo in casi davvero estremi).
In base ai resoconti e ai verbali dei carabinieri, Cucchi avrebbe rifiutato la visita medica, cosa che appare comprensibile solo per chi conosce da vicino le dinamiche e i comportamenti “obbligati” della detenzione (“sono caduto per le scale”, si usa dire dopo aver subito un pestaggio).
Il giorno successivo, prima dell’udienza per la conferma dell’arresto, il ragazzo viene consegnato alla polizia penitenziaria. Gli agenti a quel punto pretendono che Stefano sia sottoposto a una visita medica, dalla quale emergono forti lesioni alla regione sacrale, cioè alle vertebre più basse della colonna, e alle gambe.
Di nuovo, i verbali sostengono che Stefano abbia rifiutato una controllo più accurato.
Appare chiaro, insomma, che i “secondini” – vendendolo in condizioni critiche – abbiamo voluto una certificazione sanitaria che escludesse fossero loro gli autori del pestaggio pestaggio. Un detenuto, in questa trafila, viene trattato come un “pacco”: ogni nuovo “lavorante” che lo prende in carico vuole che siano precisate le condizioni in cui gli arriva…
Durante l’udienza l’arresto viene convalidato, ma Stefano Cucchi, invece che in un ospedale, viene spostato nel carcere di Regina Coeli a Roma.
Segue subito l’ennesima visita medica e, questa volta, il dottore ne richiede l’immediato ricovero presso l’ospedale Fatebenefratelli. I verbali riferiscono che Stefano Cucchi avrebbe rifiutato il ricovero, venendo dimesso con la diagnosi di diverse fratture e numerosi ematomi.
Ufficialmente, i referti sostengono che la causa delle lesioni sarebbe stata una caduta dalle scale.
Passa un altro giorno e Stefano non può non andare in ospedale. Gli viene così imposto il ricovero, presso il reparto di “medicina protetta” del Pertini (in realtà una sezione specifica per detenuti).
Nonostante le sue condizioni precarie, l’amministrazione penitenziaria impedisce ogni visita alla famiglia Cucchi. Tre giorni dopo, alle 6 del mattino del 22 ottobre 2009, Stefano muore da solo, senza aver nemmeno potuto salutare i genitori e la sorella.
Il lunghissimo iter processuale non è però ancora arrivato al punto finale. O almeno non per tutti i carabinieri coinvolti nell’omicidio.
Ci sarà un processo di appello bis per il reato di falso nei confronti dei carabinieri Roberto Mandolini e per Francesco Tedesco, condannati in appello a 4 e a 2 anni e mezzo. Per questo reato però la prescrizione è ormai imminente, a maggio.
Tra pochi giorni, giovedì 7 aprile, è inoltre prevista la sentenza del processo sui presunti depistaggi dopo il decesso di Cucchi, che vede imputati otto carabinieri con diversi gradi – anche alti – accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia e per i quali il pm ha chiesto condanne che vanno da 1 anno e 1 mese fino a 7 anni.
Giustamente soddisfatte, dopo la sentenza definitiva della Cassazione, le dichiarazioni dei familiari e del loro avvocato, Fabio Anselmo, autentico protagonista di questa lunghissima battaglia giudiziaria.
“A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui”, ha detto Ilaria Cucchi dopo la sentenza.
“Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte“, ha aggiunto Rita Calore, madre di Stefano Cucchi, riportate dal suo legale Stefano Maccioni.
“Questi occhi hanno visto finalmente Giustizia. Stefano Cucchi è stato ucciso dai due carabinieri che lo arrestarono la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Questa sentenza la dedichiamo ai medici legali Arbarello e Cattaneo che parlarono di caduta probabilmente accidentale e di lesioni lievi. Ora i responsabili dell’omicidio di Stefano saranno incarcerati”.
Così in un post su Facebook l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Ilaria Cucchi, dopo la sentenza.
Ma non è finita, dicevamo. I carabinieri – tra cui alcuni alti ufficiali – responsabili dei depistaggi devono subire anche loro, se non altro per la semplice logica degli eventi, una condanna proporzionata.