giovedì 30 dicembre 2021

CONFUSIONE TOTALE

E' chiaro ormai a tutti che il governo nel caso della prevista quarta ondata e sicuramente non ultima stia lavorando in maniera confusa e casuale,e nemmeno in questo caso la comunità scientifica se la stia cavandosela all'altezza con scelte fatte a spanne che seppur dettate da modifiche del coronavirus ormai giornaliere non riesce ad azzeccarne due di fila.
Tra quarantene azzerate per l'ordine di Confindustria(madn coronavirus-colpa-nostra(?) ),tracciamenti ormai impossibili da fare,prolungamento delle vacanze scolastiche e caos amplificato dai mass media che fanno terrorismo mediatico con conseguente code agli hub e alle farmacie per i tamponi,l'esecutivo si è dimostrato ulteriormente più preoccupato per l'economia che per la salute dei cittadini quando basterebbe rendere obbligatoria la vaccinazione.
I telegiornali solamente ad inizio mese parlavano con la bocca dei politici di quando siamo belli e bravi in quanto in Italia i casi erano poche migliaia mentre Germania,Francia e Uk erano decine di migliaia,e a meno di un mese ci ritroviamo dall'altra parte in una situazione più caotica degli altri Stati membri europei.
L'articolo di Contropiano(il-governo-nel-pallone-abolisce-di-fatto-la-quarantena )sancisce il totale fallimento a poco meno di due anni dall'emergenza Covid-19 di tutta una politica che fa del profitto l'unico faro cui rivolgersi,con la salute privata che si sta facendo le palle d'oro sulla pelle dei malati e con i comitati scientifici che pure loro hanno colpe sulle varie fasce d'età che vengono via via colpite e con una campagna vaccinale che pur se ha raggiunto un'alta percentuale è ancora ostaggio di tamponi ad ogni variante che salta fuori,e ce ne saranno altre che periodicamente si svilupperanno,e ciò dovuto soprattutto a quelli che non hanno mai accettato il vaccino,che seppur zoppicante rimane l'unico baluardo contro la malattia,in un paese come detto in soqquadro e qui in Lombardia veramente ancora molto peggio.

Il governo nel pallone: abolisce di fatto la quarantena.

di  Dante Barontini   

Allora, diciamola in modo semplice: i governi occidentali, compreso quello italiano, di fronte al moltiplicarsi incontrollabile dei contagi scelgono di diminuire i periodi di quarantena in caso di contatto con portatori accertati del Covid, in qualsiasi variante si presenti.

Lo fanno – e lo dicono apertamente – per impedire che il contagio generalizzato della popolazione porti al sostanziale blocco dell’economia. Visto che, come sta accadendo in molti settori, la necessità di mettersi in isolamento impedisce a un numero crescente di persone di andare a lavorare.

Per di più, un incapace cronico messo a guidare la pubblica amministrazione pretende che i dipendenti pubblici in smart working – quindi a minore rischio di esposizione e di contagio attivo – tornino immediatamente al lavoro “in presenza”. Evidentemente il virus gli piace…

Il ministro dell’istruzione, appoggiato dal super presidente del consiglio, esclude che alla scadenza delle vacanze natalizie gli studenti possano evitare di ammassarsi nuovamente dentro edifici scolastici che dopo due anni non hanno ricevuto alcuna manutenzione adattativa al Covid.

Questo nonostante che i dati riferiscano che ormai il contagio passa soprattutto attraverso le fasce giovanili semi-risparmiate dalla prima variante originale (“Wuhan”).

Qualsiasi virologo o epidemiologo, da due anni a questa parte, ci spiega che per impedire i contagi – e lo sviluppo delle “varianti” – bisogna fare l’esatto opposto. Ma il Pil è sacro e molti scienziati fanno poi come il prof. Mindy in Don’t look up: si adeguano, ammorbidiscono, “conciliano”, trovano compromessi…

Quel che è venuto fuori da un Consiglio dei ministri particolarmente complicato, dopo uno scontro altrettanto duro con e dentro il Cts, è un elenco di misure più cervellotiche non si può. Vediamole: 

“Nuove misure in merito all’estensione del Green Pass Rafforzato (che si può ottenere con il completamento del ciclo vaccinale e la guarigione) e le quarantene per i vaccinati.

Dal 10 gennaio 2022 fino alla cessazione dello stato di emergenza, si amplia l’uso del Green Pass Rafforzato alle seguenti attività:

◦alberghi e strutture ricettive;

◦feste conseguenti alle cerimonie civili o religiose;

◦sagre e fiere

◦centri congressi

◦servizi di ristorazione all’aperto

◦impianti di risalita con finalità turistico-commerciale anche se ubicati in comprensori sciistici

◦piscine, centri natatori, sport di squadra e centri benessere anche all’aperto

◦centri culturali, centri sociali e ricreativi per le attività all’aperto.

Inoltre il Green Pass Rafforzato è necessario per l’accesso e l’utilizzo dei mezzi di trasporto compreso il trasporto pubblico locale o regionale.”

Ognuno di voi può agevolmente trovare altre decine di occasioni altrettanto favorevoli per la circolazione del virus – a cominciare dai luoghi di lavoro – che non sono menzionate.

Ma non è neanche questo l’aspetto più eclatante. La gestione delle quarantene, infatti, sfida contemporaneamente le leggi della logica, quelle della comunicazione e – ovviamente – quelle della salute pubblica.

“Il decreto prevede che la quarantena precauzionale non si applica a coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al COVID-19 nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione nonché dopo la somministrazione della dose di richiamo.

Fino al decimo giorno successivo all’ultima esposizione al caso, ai suddetti soggetti è fatto obbligo di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 e di effettuare – solo qualora sintomatici – un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all’ultima esposizione al caso.

Infine, si prevede che la cessazione della quarantena o dell’auto-sorveglianza sopradescritta consegua all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare, effettuato anche presso centri privati; in tale ultimo caso la trasmissione all’Asl del referto a esito negativo, con modalità anche elettroniche, determina la cessazione di quarantena o del periodo di auto-sorveglianza.”

Vedete un po’ voi se è possibile lasciare una materia del genere al caso (alla freddezza e responsabilità dei singoli, magari pressati da datori di lavoro che non vogliono perdere neanche una frazione di prodotto, necessità o menefreghismo vari, ecc). 

Tanto più che vengono considerati “buoni” per uscire dalla quarantena test antigenici rapidi – diventati nel frattempo quasi introvabili, come anche quelli molecolari – che sono valutati “inaffidabili” per la verifica certa, o no, del contagio. E quindi per entrarci. 

Di fatto, e come sempre, si cerca di andare avanti addebitando gli insuccessi inevitabili di una strategia demenziale ad una minoranza altrettanto demenziale che rifiuta il vaccino in nome delle teorie più strane, oltre che per paura. 

I “no vax” sono da questo punto di vista utilissimi, e nessuno si cura di far notare che con l’obbligatorietà vaccinale verrebbe a crollare anche questo diversivo del governo.

Si è tentati di descrivere questo esecutivo come un branco di sciamannati qualsiasi, ma sappiamo bene che questa sciatteria e confusione sono il risultato di scelte sciagurate fatte nel corso degli ultimi due anni. E che ora vengono non solo confermate, ma addirittura aggravate.

Frutto maturo, insomma, di una strategia suicida: “convivere con il virus”.

Abbiamo spesso contrapposto a questa emerita cazzata la strategia molto diversa adottata dalla Cina, ma anche da altri paesi, non necessariamente socialisti (o diversamente socialisti): isolare i focolai al primo manifestarsi, testare tutta la popolazione in quella determinata area, individuazione e tracciamento dei contagiati, isolamento reale – non “fiduciario” – fino a guarigione. Poi, una volta prodotti i vaccini, anche vaccinazione di massa.

All’inizio si poteva fare anche qui, e con i primi focolai era anche stato fatto (Codogno, Vò Euganeo, ecc). Ma immediatamente si alzarono i vampiri di Confindustria, preoccupati di perdere qualche briciola di profitto per qualche mese; impedirono perciò  la dichiarazione di “zona rossa” per Bergamo e la Val Seriana, condannando a morte un numero ancora imprecisato di persone in quella zona e permettendo così al virus di dilagare in tutta Italia.

Non che gli altri paesi occidentali abbiano fatto qualcosa di diverso. Ognuno ha proseguito con il suo personale “io speriamo che me la cavo”, rassegnandosi ad adottare misure di contenimento solo quando gli ospedali arrivavano al limite dell’esplosione.

Oggi le strategie iniziali non sono più possibili. Il virus è ovunque, e muta continuamente. Anche il fatto che la “variante omicron” sia dipinta come “più contagiosa, ma meno letale” – pur in assenza, per il momento, di studi che lo confermino con qualche precisione – viene utilizzato per “allentare” ancora di più le misure di sicurezza.

A conti fatti, per quanto spannometrici (in assenza, ripetiamo, di studi definitivi), se il numero dei contagi si moltiplica per cinque – come detto da autorevoli virologi, per quanto “morbidi” con i rispettivi governi – anche quei “pochi morti in percentuale” che questa variante provoca sono da moltiplicare per cinque. 

Insomma, alla fine, in numeri assoluti – che sono quelli che contano – ospedalizzati e morti saranno più o meno gli stessi: una marea.

Persino l‘Organizzazione mondiale della sanità, che certo non brilla per rigore scientifico, ha dichiarato che la riduzione del periodo di quarantena decisa in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, è “un compromesso” tra il controllo dei contagi e la necessità di far andare avanti le economie. 

Se il virus fosse un nemico “ragionevole”, sarebbe anche una scelta logica. Purtroppo non ragiona; si replica all’infinito, finché può. Bisogna combatterlo, non “conviverci”. Altrimenti non ne usciremo mai.

Questo è quel che accade dove “la politica” – con o senza “i migliori” – è un cameriere al servizio delle imprese private, in cui dunque sono le loro esigenze immediate a determinare scelte altrettanto di breve respiro, che producono catene di problemi che si aggrovigliano nel tempo e diventano irrisolvibili con criteri “normali”.

Inutile far notare che dove è invece la politica – e la ricerca scientifica – a dettare l’agenda e le strategia, non stranamente l’economia va molto meglio, nonostante la pandemia, i lockdown e le eccezionali misure di prevenzione adottate anche in casi numericamente minimi.

Un esempio di questi giorni. A Xi’an, a dicembre, sono stati registrati 330 casi di contagio. Per questo i 13 milioni di abitanti della città sono stati messi in lockdown, chiusi in casa, con un esercito di volontari che porta loro da mangiare e un esercito di medici-infermieri che fa il tampone a tutti. 

Con questo metodo, adottato ormai da due anni, si isolano rapidamente i pochi casi, si curano a seconda della gravità in ospedale o a casa, e in meno di un mese quella città torna in genere alla piena – e vera – normalità.

Un metodo che funziona dal punto di vista della salute pubblica (solo 5.000 morti in due anni, in una popolazione di 1,4 miliardi di persone). 

Ma che funziona anche dal punto di vista dell’economia: la crescita cinese ha rallentato nel 2020, anno peggiore per Pechino, ma non è in nessun momento diventata recessione (due trimestri consecutivi negativi). E la ripresa è stata molto forte, molto più anche di quella “miracolosa” fatta segnare – ma solo per quest’anno – dall’Italia (+6,8%).

Ma che strano… Se la popolazione è in salute si produce di più e meglio….

Qualcuno lo spieghi a Confindustria e Draghi. E a tutti i neoliberisti che appestano questo mondo…

venerdì 17 dicembre 2021

LA NATO CONTRO LA CINA E LA RUSSIA

 


L'incontro bilaterale tenutosi negli corsi giorni tra Russia e Cina,rappresentati dai due presidenti Putin e Xi Jinping,ha mostrato agli Usa ed al mondo occidentale atlantista in generale che i due Stati non stanno certo a guardare all'arroganza ed alla presunzione sfociate giornalmente in pure minacce soprattutto dagli Stati Uniti,e che la loro alleanza è sempre più stretta e su vari campi.
Le sanzioni promesse se non un vero e proprio intervento militare contro le due potenze alternative all'influenza della Nato per via di Ucraina e Taiwan,solamente per citare i due ultimi pretesti,non piacciono molto ai due leader che stanchi delle continue vessazioni intensificano la loro collaborazione economica,logistica e sociale,lasciando trapelare il fatto che se ci fossero ingerenze militari dirette sarebbero pronti a rispondere.
L'articolo di Contropiano(vertice-putin-xi-jinping )analizza le strategie proposte e decise nel vertice che penso abbia impressionato le potenze occidentali,che da anni con manovre militari ed alleanze(vedi l'ultima nata Aukus tra Australia,Gran Bretagna e Stati Uniti per cercare di intimorire la Cina),anche se all'interno della stesa Russia e Cina i dubbi e le incertezze esistono e si è cercato di renderle meno pressanti.

Vertice Putin-Xi Jinping. Russia e Cina delineano il loro campo strategico.

di  Alessandro Avvisato   

I leader di Cina e Russia, nel vertice bilaterale di ieri si sono pubblicamente impegnati a rafforzare i loro legami nel contesto di relazioni sempre più tese con il blocco euroatlantico.

Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping si sono incontrati mentre entrambi i paesi sono coinvolti nel peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti e i loro alleati. La Russia è accusata di pianificare un attacco totale alla vicina Ucraina, cosa che Mosca ha sempre negato. Si è anche speculato sul fatto che la Cina potrebbe ordinare un’operazione militare per prendere Taiwan, che Pechino insiste a ritenere suo territorio sovrano, nonostante sia stato fuori dal suo controllo negli ultimi sette decenni.

Xi Jin Ping ha descritto Putin come il suo “migliore amico” e uno dei più stretti alleati della Cina sulla scena mondiale, riaffermando che i due paesi sono uniti di fronte alle sanzioni e alla pressione politica occidentale.  Tuttavia, fa notare Russia Today, nonostante la crescente cooperazione militare ed economica, un certo numero di analisti ha sottolineato che le due potenze sono molto meno integrate di blocchi come la NATO.

“La Cina e la Russia devono alzare la voce sulla governance globale e fornire soluzioni pratiche e praticabili per le sfide globali come la lotta contro la pandemia e il cambiamento climatico” ha affermato Xi Jinping osservando che entrambe le parti dovrebbero salvaguardare fermamente l’equità e la giustizia internazionali. “Dovremmo opporci fermamente agli atti egemonici e alla mentalità della Guerra Fredda con il pretesto di ‘multilateralismo e regole'”, ha ribadito Putin.

Putin ha affermato che la Russia è disposta a continuare a rafforzare la cooperazione con la Cina nei settori del commercio, del petrolio e del gas, della finanza, dell’aviazione e dell’industria aerospaziale. collegare l’Unione economica eurasiatica con la Belt and Road Iniziative proposta dalla Cina e rafforzare la cooperazione per combattere la devastante pandemia.

Secondo il ministro degli esteri cinese  i due paesi “sono sempre stati i pilastri della pace e della stabilità nel mondo” e “più il mondo è instabile e turbolento, più la cooperazione tra Cina e Russia sarà decisiva”.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto ai giornalisti ha descritto come ora “molto teso”  lo scenario europeo, scenario  che richiede “una discussione tra alleati, tra Mosca e Pechino”. La Russia ha accusato gli Stati occidentali di destabilizzare la regione verso i suoi confini, mentre i politici americani hanno sostenuto che Mosca rappresenta una minaccia esistenziale per l’Europa orientale.

Il funzionario russo ha aggiunto che i due capi di stato percepiscono  una “retorica molto aggressiva sia della NATO che degli USA”. A  ottobre, le navi da guerra russe e cinesi hanno unito le forze per la prima volta per organizzare una missione di pattugliamento nell’Oceano Pacifico. Le esercitazioni sono arrivate poco dopo la rivelazione del patto militare sostenuto da Washington con la Gran Bretagna e l’Australia, noto come ‘AUKUS’, che è stato ampiamente pubblicizzato come progettato per contrastare l’influenza della Cina nella regione.

Cui Heng, un esperto del Centro di studi russi della East China Normal University di Shanghai, ha dichiarato mercoledì al Global Times che “La Cina svilupperà i suoi legami con la Russia in modo pragmatico, soprattutto perché sia ​​Cina che Russia hanno legami difficili con gli Stati Uniti e alcuni altri paesi occidentali”.

Sia la Russia che la Cina stanno cercando sempre più di allontanarsi dall’uso del dollaro USA come valuta principale del commercio internazionale, usando le loro denominazioni per sostenere il crescente volume di scambi tra i due paesi. In questo modo, secondo il ministro degli Esteri russo Lavrov,  i due paesi potrebbero mettersi al riparo dal rischio di sanzioni e rivalità politiche “passando a regolamenti in valute nazionali e in valute mondiali, alternative al dollaro”, aggiungendo che “dobbiamo allontanarci dall’uso di sistemi di pagamento internazionali controllati dall’Occidente”.

Ma l’abbraccio strategico tra Russia e Cina, con motivazioni piuttosto diverse, suscita ancora qualche perplessità, sia in Russia che in Cina.

Secondo Russia Today alcuni analisti sostengono che Mosca rischia di essere “nanizzata” dalle dimensioni dell’economia di Pechino, mentre altri insistono che la crescente influenza della Cina in Asia centrale, anche nelle ex repubbliche sovietiche come il Kazakistan e l’Uzbekistan, potrebbe entrare in collisione con la sfera di interessi della Russia.  Andrey Denisov, ambasciatore russo in Cina, ha scritto a giugno che “credo che un’alleanza formale, specialmente militare-politica, non sia lo schema più ottimale per le relazioni tra due potenze come Russia e Cina”, ma ha anche insistito sul fatto che le due nazioni possono avere relazioni produttive senza intrecciarsi profondamente per combattere un nemico comune.

mercoledì 15 dicembre 2021

TUTTI A PARLARE DELLE DISUGUAGLIANZE

Sulla bocca dei politici,e solo su quella,la parola disuguaglianza troneggia negli ultimi periodi,partendo dai vari esponenti politici di tutte le solfe arrivando al premier Draghi e al Presidente Mattarella,e nessuno escluso parla di questo termine in maniera positiva.
Ma da qui ad agire per allentare la forbice tra i ricchi ed i poveri,tra i potenti e chi non ha nulla,non si è visto ancora niente,nella lunghissima ed eterna campagna elettorale che comprende in queste settimane anche la carica del nuovo Presidente della Repubblica.
L'articolo di Contropiano(la-disuguaglianza-e-una-scelta-politica con relativi schemi)parla dapprima delle disuguaglianze a livello mondiale con il nord e sud del globo che hanno differenze molto forti,e nel proseguo del contributo relativo all'Italia tali divergenze sono allo stesso modo elevate con il potere patrimoniale racchiuso nelle mani di pochi.
L'accozzaglia parlamentare,minoranza compresa,guai a parlare di redistribuzione della ricchezza e di tassazione patrimoniale,anzi si vedono manfrine inaccettabili tra i vari politicanti che si annusano e si leccano come mai capitato prima:vedere i democristiani(più che democratici)lisciarsi il pelo con i fascisti è vomitevole e irriguardoso verso la recente storia italiana.
La logica del profitto,del vogliamoci bene,del portare avanti scelte per il bene comune hanno stancato se non inorridito milioni di italiani che aumenteranno ancor più il numero degli scontenti e dei non votanti alle prossime elezioni vista l'inettitudine e la malafede di chi è stato mandato a decidere le sorti del paese.

La disuguaglianza è una scelta politica.

di  Coniare Rivolta *   

Il 7 dicembre scorso è stato rilasciato il World Inequality Report per il 2022, un rapporto che traccia il quadro della disuguaglianza di reddito e ricchezza a livello internazionale. La situazione che emerge è quella di un mondo caratterizzato da diseguaglianze feroci, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi. 

In altre parole, le disparità di reddito e ricchezza sono forti e persistenti sia tra Nord e Sud del mondo, sia tra individui all’interno di ciascuna economia nazionale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.

Partiamo da una prima fotografia globale, facendo tuttavia una preliminare distinzione. Con il termine ‘ricchezza’ intendiamo l’ammontare di risorse che, in un determinato momento, un soggetto possiede. 

Con il termine ‘reddito’ intendiamo invece l’ammontare di risorse che, in un preciso intervallo di tempo (generalmente, un anno), giunge nelle mani di un soggetto per effetto del proprio apporto al processo produttivo: un lavoratore, ad esempio, riceverà come reddito il salario derivante dal proprio lavoro; un capitalista riceverà il profitto derivante dalla propria attività d’impresa; il proprietario di un immobile locato percepirà come reddito i canoni di affitto dell’inquilino. 

Certo, seppur stiamo parlando di due concetti differenti, è facile immaginare che le due grandezze si parlino: un basso livello reddito non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la ricchezza di un individuo (perché questi non potrà permettersi di risparmiare risorse in ammontare considerevole), e soprattutto non gli permetterà di godere nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un ammontare più basso di beni e servizi.

Bene, il report in questione analizza la disuguaglianza attraverso le lenti di entrambe le dimensioni appena introdotte: reddito e ricchezza. Se, tornando al rapporto (Figura 1), consideriamo la distribuzione dei redditi e della ricchezza su scala mondiale, scopriamo che la metà più povera dei cittadini del mondo (bottom 50% nella figura, in blu) arriva a raggranellare solo l’8% del reddito totale, e a possedere appena il 2% della ricchezza complessiva. 

Dalla parte opposta, il 10% più ricco (top 10% nella figura, in rosso) è oggi in grado di accaparrarsi il 52% del reddito mondiale, e addirittura possiede il 76% della ricchezza. Dati che fotografano una situazione di fortissima disuguaglianza.

A un livello di analisi più specifico, il documento indica che i livelli di disuguaglianza non sono gli stessi nelle diverse aree del mondo. L’Europa, per esempio, mostra ancora una distribuzione del reddito meno diseguale rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, rispetto alle aree più povere del pianeta, come il Medio Oriente (MENA), il Nord Africa e l’Africa Sub Sahariana.

Nonostante la crisi che stiamo vivendo sulla nostra pelle, la situazione è molto peggiore in altre parti del mondo, e parte di questa tendenza è attribuibile alla sopravvivenza di qualche residuo di stato sociale e di tutela del lavoro che in altre parti del globo non sono mai esistite o sono completamente scomparse..

Tuttavia, la vicenda si fa ancora più interessante una volta che si sposta il focus sul livello nazionale delle disuguaglianze, e soprattutto sulle macrotendenze storiche che hanno caratterizzato la dinamica delle disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia.

Partiamo dal primo punto. Anche in questo campo, il Belpaese primeggia. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, la metà più povera degli italiani riesce a racimolare appena il 20% del reddito prodotto, mentre il 10% più alto ne raccatta un cospicuo 32%. 

Passando alla distribuzione della ricchezza, la metà che sta in basso detiene una quota che non supera il 10%, mentre al top 10% è riconducibile il 48% della ricchezza complessiva. Quasi la metà! Senza contare che il top 1% (l’uno percento più ricco della popolazione) detiene il 18% della ricchezza nazionale.

Come è stato possibile? Questo è l’aspetto più interessante del rapporto, che consente di cogliere in una singola immagine la storia che ci ha condotto verso questa situazione drammatica. 

Nella Figura 3 è riportato l’andamento, in Italia, della quota di reddito riconducibile al 10% più ricco e al 50% più basso della distribuzione nel corso del secolo scorso e fino al 2020. 

Come si può osservare, fino agli anni ’70, l’andamento è decrescente per i redditi più alti e crescente per la metà più bassa della distribuzione, tanto che in questo decennio avviene un sorpasso, comunque non entusiasmante, con la quota riconducibile al 50% più basso dei redditi che supera quella del top 10%. 

Viceversa, dai primi anni ’80 questa tendenza convergente si inverte in maniera permanente e, dopo il controsorpasso, la distanza continua ad aumentare fino ai giorni nostri. In altri termini, fino agli anni ’70 la parte meno agiata della popolazione era riuscita ad accaparrarsi fette sempre più ampie del prodotto sociale, mentre dagli anni ’80 in poi i più ricchi hanno visto sempre più aumentare i loro redditi.

L’andamento della distribuzione della ricchezza va ancora peggio e questo è bene sottolinearlo, anche in considerazione del fatto che l’Italia è uno dei primissimi Paesi al mondo per rapporto tra ricchezza privata e reddito nazionale. 

Tale indice è esploso dal 250% del 1970 al 650% del 2010 (oggi siamo intorno al 700%) e sta ad indicare che la distribuzione della ricchezza è particolarmente importante per valutare la distribuzione complessiva e dunque le disuguaglianze nel nostro Paese.

Come si spiega questo andamento? Quali politiche si sono consolidate e rafforzate in particolare a partire dagli anni ’80? Il documento esaminato afferma che la disuguaglianza – e la sua crescita – è una precisa scelta politica e non è inevitabile. 

Non a caso, in Italia (e in molti altri Paesi a dire il vero) prende il via da quegli anni un preciso percorso di deregolamentazione del mercato del lavoro e di libera circolazione su scala mondiale di merci e capitali, un copioso processo di finanziarizzazione, un progressivo smantellamento dello stato sociale e una sostanziale riduzione dei diritti dei lavoratori. 

Tali strumenti hanno rappresentato un formidabile dispositivo per le classi dominanti per invertire la tendenza di convergenza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, instaurando una nuova fase caratterizzata dalla crescente precarizzazione del lavoro e dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali. 

Si tratta di deliberate scelte politiche che hanno contribuito a ridurre la quota del prodotto che va al lavoro, ossia la porzione di reddito che i salariati riescono a portare a casa nel conflitto distributivo, e, in tal modo, ad aumentare anche le disuguaglianze di reddito e di ricchezza: esiste infatti una precisa correlazione tra la quota di reddito che va ai percettori di profitto e quella che va alle fasce più agiate della popolazione (in altri termini, non lo scopriamo oggi che i capitalisti sono di norma più benestanti dei lavoratori). 

Risultato: alla riduzione della quota salari si è accompagnata la parallela crescita della quota profitti, che è stata il motore vero e proprio dell’esplosione delle disuguaglianze a livello internazionale. Questo ragionamento vale specialmente per l’Italia, unico paese tra quelli dell’OCSE, dove dal 1990 al 2020 dove si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali.

Davanti a questo quadro a tinte fosche, che fare? Politiche di redistribuzione (come, ad esempio, aumentare la tassazione su redditi alti e grandi ricchezze per finanziare la fornitura di servizi pubblici ai meno benestanti) sono senz’altro necessarie, ma potrebbero rivelarsi non sufficienti alla luce delle mostruose disuguaglianze esistenti. 

Occorre, pertanto, intervenire sulla la distribuzione primaria dei redditi, ossia garantire ai lavoratori un salario reale più elevato. Solo in questo modo verrebbero sostanzialmente intaccati gli enormi margini di profitto e le rendite che hanno contribuito, negli ultimi 40 anni, a polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi. 

Per concludere, il miglioramento delle condizioni di vita per le classi subalterne passa in primo luogo per un aumento dei salari, e, in secondo luogo per forme di redistribuzione ex-post (da sole però non sufficienti), ma soprattutto, specie in un’ottica di lungo periodo, per una trasformazione del sistema economico nella direzione di una pianificazione e di una trasformazione in senso collettivo della proprietà. 

L’esatto contrario di quanto sta accadendo sotto la gestione Draghi, alfiere di un Governo di impronta liberista che mira a privatizzare quel poco che resta dei servizi pubblici, a tagliare la spesa sociale e a promuovere una riforma fiscale i cui frutti più prelibati saranno raccolti dalle classi medio-alte.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

lunedì 6 dicembre 2021

DA MONTI A DRAGHI CON IL COLLE SULLO SFONDO

La discussione sempre più serrata sulla successione di Mattarella in seno alla Presidenza della Repubblica italiana vede il nome di Draghi,attuale premier,come possibile nuovo inquilino del Quirinale con una platea di possibili elettori sempre più ampia.
E vista la principale alternativa,Berlusconi,dopo che lalista degli altri possibili presidenti viene depennata giorno dopo giorno(ieri Prodi),Draghi appare al Pd un male minore,certo sempre un uomo di destra al potere che con un successivo governo potrebbe determinare un probabile cambiamento nel ruolo delle proprie funzioni.
Una virata verso una Repubblica presidenziale con un Presidente con ampi poteri in mano è sempre più sulla bocca di tutti,caldeggiata fortemente dalle destre che da decenni sentono più crescente la voglia di un uomo forte e potente al comando di una nazione,uno che se scelto male può fare solo danni.
E non è nemmeno questione di idee e decisioni,la sola immagine di un leader con in mano tanto potere fa paura qualunque nome possa saltare fuori,è una questione di decenza in uno Stato che storicamente è andato in malora quando un uomo solo ha deciso per tutti.
Nell'articolo di Contropiano(la-troika-vuole-il-quirinale )si parla di questo e di altre storie della politica recente,nel susseguirsi catastrofico dei premier da Monti a Draghi,non che quelli in mezzo che se pur votati siano stati dei fenomeni,in una crisi prolungata di cui non si riesce a vedere nemmeno lontanamente la fine.
Da capire anche i cavilli che e se porteranno alla carica di Presidente Draghi riguardo la successione al governo con marchette politiche disgustose e cambi di poltrone cui siamo abituati e che ne vedremo di ancora peggio.

La Troika vuole il Quirinale.

di  Dante Barontini   

Una crisi costituzionale è il momento in cui le molte differenze – o aperte contraddizioni – tra la “costituzione reale” e quella “formale” di un Paese non sono più mediabili dal normale gioco politico.

In primo luogo perché poteri neanche previsti dall’impianto costituzionale originario sono diventati così forti e pervasivi da non tollerare più il vecchio abito “formale”, e premono senza più molti limiti per farsene cucire addosso uno nuovo, adatto alle proprie esigenze.

In secondo (e di conseguenza) perché i partiti politici non esistono di fatto più, liquefatti – nella propria funzione e ruolo – proprio da quei poteri che hanno scavato gallerie destabilizzanti nel vecchio edificio costituzionale, a forza di “ritocchi” che ne hanno compromesso la struttura.

Molti ricordano la “riforma del Titolo V” – responsabilità assoluta del Pd, o come si chiamava allora quella banda criminale – che ha “regionalizzato” molte competenze dello Stato centrale, a cominciare dalla sanità pubblica. 

L’effetto promesso era una “maggiore vicinanza agli interessi dei cittadini”, il risultato concreto è stato l’opposto (con intere aree del territorio ormai prive di strutture ambulatoriali, ospedaliere, di medicina territoriale).

Un deserto voluto, in cui ha potuto svilupparsi la privatizzazione della sanità e della stessa “politica”, ridotta a complicità con interessi aziendali espliciti o anche innominabili.

Ma neanche quella riforma è stata fatale per la “Costituzione nata dalla resistenza”, per quanto privasse tutti noi di un diritto certo esigibile in egual misura in qualsiasi angolo del territorio nazionale.

Fatali sono state invece due altre “riforme” passate con l’approvazione pressoché unanime di tutte le bande presenti in Parlamento (464 sì, 0 no e 11 astenuti alla Camera, 255 sì, 0 no e 14 astenuti al Senato, in prima lettura).

Quella dell’articolo 81, che ora prevede: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte».

Si tratta dell’obbligo al pareggio di bilancio, che implica l’impossibilità di spendere in deficit per far fronte a situazioni di crisi e dunque vincola ogni possibile scelta politica – con qualsiasi maggioranza di governo – a rispettare un equilibrio ideale che nella realtà non esiste mai.

Ma ancor più decisiva e “distorcente” è la nuova versione dell’art. 119: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.”

L’”autonomia” di ogni istituzione della Repubblica italiana, ad ogni livello, è quindi subordinata per Costituzione alle decisioni “superiori” della UE. Una subordinazione che fissa – come si vede con le 528 “condizionalità” del recovery Fund – non soltanto i limiti di bilancio entro cui si possono prendere decisioni diverse, ma anche le priorità nelle decisioni di spesa e di entrate fiscali.

Con queste due norme “costituzionalizzate” l’autonomia del Paese è stata di fatto annullata. Possiamo mettere insieme una squadra per vincere i campionati europei in qualsiasi sport, ma non si può più scegliere quale destino, quali obiettivi, quali priorità sociali vogliamo soddisfare.

Sono vincoli politici imposti per via economica e con la forza dei trattati internazionali (non sottoponibili a referendum!), che inchiodano per sempre le scelte di qualsiasi governo futuro (anche “socialista”, in astratto) al ricettario classico del neoliberismo senza .sfreni adottato come marchio di fabbrica nella UE.

Ma se la politica è vincolata, è chiaro che la presenza di partiti tra loro diversi è un lusso che non ci si può più permettere. Ognuno dovrà e potrà promettere in campagna elettorale solo quello che effettivamente può fare (nulla o quasi, sulle questioni economiche essenziali, decise preventivamente dalla UE) o qualcosa di abbastanza shoccante sulle questioni che costano poco (diritti civili sì o no, trattamento dei migranti, sia regolari che non, politiche securitarie… robetta così, insomma). 

Poi, certo, si può promettere la luna in qualsiasi campo. Ma dopo dieci anni – tanti ne sono passati da quest’ultima riforma costituzionale, fatta su ordinazione durate il governo di Mario Monti – è chiaro anche per un terrapiattista che si tratta solo di chiacchiere.

Ma una classe politica che non ha più la possibilità di decidere nulla sulle questioni strategiche  – politiche economiche e industriali, alleanze militari o diplomatiche, ecc – inevitabilmente decade al livello dell’amministrazione di condominio. Con le “qualità”, la “lungimiranza”, l’”autonomia decisionale” e persino lo stile linguistico di un’assemblea di condominio.

E’ a questo punto che arriva l’investitura di Mario Draghi come monarca pro tempore del vicereame d’Italia. E’ stato un componente fondamentale della Troika che ha distrutto la Grecia con un “esperimento” che doveva valere come monito per tutti i 27 paesi della Ue. A lui non c’è necessità di spiegare pazientemente cosa va fatto e cosa va distrutto….

L’arco temporale da assicurare sono i sei anni di durata del Recovery Fund (con le misure racchiuse nel Pnrr), con impegni che richiedono grande “stabilità” nella governance, altrimenti la “rivoluzione reazionaria neoliberista” prevista da quelle norme fissate in Trattati verrebbe messa a rischio.

Casualmente, questo arco temporale coincide quasi completamente con il nuovo settennato della Presidenza della Repubblica. Ed è meglio, molto meglio, per i poteri multinazionali ed “europeisti”, che il loro esponente Mario Draghi continui a guidare “la transizione” da quello scranno.

Non si può infatti rischiarlo in una normale competizione elettorale (nel 2023, a fine legislatura), perché la società spaventata e incazzosa potrebbe facilmente rovesciare anche su di lui il livore per un impoverimento crescente di cui non si vede il fondo né la fine. Potrebbe insomma fare la fine di Mario Monti, alle elezioni del 2013.

Dal Quirinale, invece, potrebbe continuare a formare governi – con chiunque e/o tutti dentro – per assicurare la continuità di una politica subordinata alle decisioni europee, ovvero del capitale multinazionale qui basato.

L’istituto della Presidenza ha del resto perso, nel corso degli anni, molte delle sue caratteristiche “notarili”, di puro rispetto formale delle decisioni politiche del Parlamento. Le antiche “esternazioni” di Francesco Cossiga furono probabilmente la prima manifestazione di questo mutamento di ruolo che è venuto consolidandosi negli anni. Ma sono nulla rispetto a quello che hanno poi fatto i suoi successori (Ciampi, Scalfaro, Napolitano, Mattarella), che hanno deciso quali governi potevano esser composti e quali invece stoppati, quali sostenuti e quali logorati.

Mario Draghi avrebbe insomma una lunga serie di precedenti cui appoggiarsi per mascherare quella che in ogni caso è una forzatura costituzionale verso il presidenzialismo di fatto.

Con due differenze importanti. 

Draghi al Quirinale significa mettere in pratica un trasferimento palese di poteri e prerogative dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica. Rinviando alla prossima legislatura il compito di “formalizzare” questa trasformazione del Presidente in “super-capo del governo”, con una specifica “riforma costituzionale”.

I “precedenti” di protagonismo presidenziale sono stati in fondo tutti “necessitati” dall’impossibilità politica – in determinati momenti – di trovare soluzioni efficaci per tenere insieme interessi sociali in parte di dimensioni “nazionali” e vincoli europei.

L’insediamento di Re Draghi dovrà invece segnare una svolta decisa in direzione della prevalenza dell’”Europa”, come da art. 119.

Per far questo, però, bisognerà fare un’altra piccola serie di forzature costituzionali, alcune delle quali raccolte in un articolo dell’ultra-draghiana Repubblica, che vi riproponiamo. Ma, come detto all’inizio, se tra Costituzione Reale e Costituzione Formale si viene a creare una discrasia violenta, è sempre il potere della realtà a prevalere, scrivendo un “nuovo testamento” che gli stia a pennello.

E’ un golpe dei Palazzi, naturalmente. Una Restaurazione, contro ogni possibile – e necessaria – Rivoluzione. Che mette fuorilegge non tanto Keynes, quanto la Resistenza.

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Quirinale, se Draghi va al colle chi incarica il successore?

L’ipotesi doppia reggenza.

Tommaso Ciriaco – La Repubblica

Allo studio degli uffici tecnici dei vertici istituzionali i complicati incastri in caso di elezione del premier come presidente della Repubblica

ROMA – È una specie di rebus costituzionale. E ruota attorno ad un gigantesco dilemma: che succede se il Parlamento sceglie Mario Draghi come Presidente della Repubblica, creando l’inedita condizione di un premier che deve dimettersi nelle mani del Capo dello Stato a cui deve succedere? E che, nello stesso tempo, ha tra le sue principali prerogative quella di gestire la partita del suo successore a Palazzo Chigi? Un rompicapo difficile anche solo a pronunciarsi. Non a caso, nelle ultime settimane anche gli uffici tecnici dei vertici istituzionali si sono consultati, in modo informale e ufficioso. Scambiandosi opinioni, in linea puramente teorica. E scandagliando le possibili tappe di un percorso ordinato.

È un affascinante garbuglio che non può che richiamare l’attenzione degli esperti del Quirinale e della Camera dei deputati, il ramo del Parlamento chiamato a gestire l’iter dell’elezione del nuovo Presidente. A conoscenza delle possibili soluzioni tecniche sono ovviamente anche gli uffici di Palazzo Chigi. Qualcosa sembra ormai pacifico. Qualcos’altro resta in sospeso, per il momento.

Tre, in particolare, i quesiti a cui provare a dare risposta. Il primo: fino a oggi il presidente del Consiglio dimissionario è sempre rimasto in carica in attesa del giuramento del successore, stavolta le dimissioni di un premier eletto Capo dello Stato diventerebbero immediatamente esecutive? Se così è – e così sembra essere – sarebbe allora il ministro più anziano a succedere immediatamente al premier dimissionario? E soprattutto: chi gestirebbe le consultazioni per il nuovo esecutivo?

Alcuni punti fermi sembrano emergere. E vanno esplorati, partendo da un possibile percorso. Primo passo: il Parlamento elegge Draghi Presidente della Repubblica. Secondo: l’ex banchiere si reca al Quirinale per formalizzare dimissioni immediate. La sua elezione al Colle, infatti, dovrebbe essere considerata tra i casi di “impedimento temporaneo” di un premier, previsto dall’articolo 8 della legge 400 del 1988. Se così fosse, dovrebbe subentrare il ministro più anziano. Si tratta di Renato Brunetta, che guiderebbe il governo come fosse un “reggente”.

A quel punto, si aprirebbe una fase del tutto nuova per individuare il nuovo capo dell’esecutivo. E siamo al secondo bivio: chi guiderà le consultazioni, Mattarella o Draghi? Il percorso più lineare – ma anche tecnicamente articolato – dice: l’ex banchiere. Per farlo, serve una condizione prevista dall’articolo 91 della Costituzione: che abbia prestato giuramento da Presidente della Repubblica. Questo passaggio non potrà però avvenire, stavolta, contestualmente alla sua elezione, perché prima c’è da completare la transizione con Brunetta.

Se inoltre l’elezione di Draghi avvenisse prima del 3 febbraio 2022 – data di scadenza del settenato di Mattarella – occorrerebbero le dimissioni del Presidente per accelerare l’insediamento del nuovo Capo dello Stato. Dimissioni a cui seguirebbe la convocazione delle Camere e il giuramento in Aula. Anche facendo molto in fretta, ci sarebbe probabilmente la necessità di una seconda “reggenza”, quella al Colle. Magari anche solo di poche ore, affidata alla presidente del Senato Casellati.

Un incastro complicatissimo, come detto. A meno che l’elezione di Draghi al Colle non avvenga dopo il 3 febbraio. L’attuale Presidente, infatti – come ha ricordato il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica – resta in carica anche oltre la scadenza, fino al giuramento del suo successore. Questo scenario dovrebbe evitare almeno il passaggio delle dimissioni anticipate. Non è escluso, tra l’altro, che Roberto Fico decida di convocare le Camere attorno al 26 gennaio, favorendo questo schema. L’alternativa, già circolata, è che si parta molto prima, tra il 18 e il 20 gennaio. In questo caso, è possibile che si proceda con un solo scrutinio al giorno, anche in chiave anti-Covid. Esiste teoricamente anche un’altra possibilità. Non è però priva di problemi, secondo alcune fonti addirittura insormontabili. Parte da una precondizione: l’accordo politico per eleggere Draghi dovrebbe essere accompagnato da un patto altrettanto solido attorno al nuovo premier.

La maggioranza di unità nazionale, insomma, oltre a votare Draghi assumerebbe contestualmente un impegno politico sul nuovo presidente del Consiglio. Se così fosse, Draghi potrebbe salire al Quirinale per dimettersi. E potrebbe essere il Presidente della Repubblica uscente a convocare immediatamente dopo la personalità a cui conferire l’incarico per Palazzo Chigi. In poche ore, giurerebbe con i suoi ministri. Si eviterebbe la reggenza, che sulla carta potrebbe anche durare mesi. Con il governo in sicurezza, inoltre, si potrebbe attendere anche la scadenza naturale del settennato. Questa strada, però, presenta un ostacolo. Sarebbe il Capo dello Stato uscente – e non quello appena eletto – ad assumere la decisione più rilevante fra quelle che gli spettano: la scelta del premier.