Perché negli ultimi anni tutti i comuni italiani,chi più e chi meno,hanno dovuto far fronte a tagli lineari che lo Stato ha imposto,oltre a bilanci condizionati pesantemente dal patto di stabilità che quest'anno è stato superato e che ha fatto respirare di più le ragionerie e le tesorerie comunali.
Quello che è stato detto nel corso degli ultimi anni secondo cui la privatizzazione di beni e servizi erogati dai comuni come ultimo tassello della macchina centrale di Roma sia stato un passaggio obbligatorio è una bugia bella e buona.
Infatti,parlando anche dell'esperienza di Crema,se da un lato la razionalizzazione delle aziende pubbliche e di quelle partecipate sia stato un dovere,dall'altro si poteva scegliere sia la gestione in house che un proseguimento o un inizio di un misto tra pubblico e privato e sia il privato vero e proprio con l'indizione di bandi.
Tenendo conto che le amministrazioni hanno voluto far credere che l'ultima soluzione era stata praticamente l'unica via imposta dallo Stato,come detto fatto non veritiero,in certi casi non vi è stato presente nemmeno un bando di gara(vedi per esempio a Crema con il caso Lgh-A2A ora sotto la lente d'ingrandimento dell'antitrust per questo motivo).
L'ultimo decreto Madia ha fatto si che se un comune avesse deciso di gestire beni e servizi in house,per conto suo e pubblicamente,avrebbe dovuto dimostrare che i privati non sarebbero stati in grado di svolgere lo stesso compito in maniera migliore.
Quindi la frase dell'immagine sopra è molto più che lo specchio della realtà che si sta vivendo in Italia,lo Stato taglia,le amministrazioni sono con l'acqua alla gola e la privatizzazione è servita su un piatto d'argento,questi i links:http://www.senzasoste.it/nazionale/uragano-madia-sui-bilanci-comunali e http://www.senzasoste.it/politica/l-impossibile-economia-pubblica .
Uragano Madia sui bilanci comunali.
Con i nuovi decreti, i Comuni sono braccati e costretti a privatizzare, dovendo giustificare perché non affidano al privato i servizi essenziali.
Tra le ultime settimane del 2015 e le prime del 2016 gli enti locali sono stati investiti dal combinato di nuove norme, derivanti dai decreti attuativi Madia e dalle nuove leggi sul bilancio comunale, che sono destinate ad incidere sulla vita economica dei territori. Dunque, di riflesso, sulla vita sociale. Si tratta quindi di entrare nella logica di questo combinato di norme. Spesso infatti si insiste molto, quando si parla di questi temi, sulla citazione della lettera della legge in sé, invece che sulla logica che la muove. Oppure si prende per buono il marketing delle leggi - che le vuole innovative, eque e socialmente progressiste - o, per analizzarle, si importa acriticamente il linguaggio del mondo delle professioni. Come se un linguaggio tecnico fosse, di per sé, non solo neutro ma anche infallibile. Allo stesso tempo si fa spesso l’errore di pensare una legge come qualcosa in grado di incidere in modo coerente sul piano sul quale legifera, di plasmarlo secondo la propria volontà. Non è così, basta ricordarselo per capire dove portano davvero certe leggi. Analizziamo quindi sinteticamente cosa accade, con il testo unico Madia e le nuove leggi sul bilancio comunale, alle partecipate e alle amministrazioni locali.
Panorama
Con gli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, molte essenziali funzioni pubbliche di servizio e di assistenza sono passate dallo stato centrale agli enti locali regionali e territoriali. Lo sviluppo di un sistema di tassazione locale, nello stesso periodo, è stato funzionale proprio a questo passaggio. Come è naturale in questi casi attorno alla crescita, mai organica o coerente, di queste funzioni, si è sviluppata un’economia (di servizi, di fornitori, di consulenze, di vere e proprie esternalizzazioni, di offerta di prodotti finanziari). Funzionalità e disfunzionalità di questi processi erano regolate da una precisa dinamica: quella di una economia locale governata da fondi pubblici e da quelli privati che gli ruotavano attorno. Servizi comunali, rete di istituzioni locali, aziende partecipate, rappresentavano la struttura politico-amministrativa di questo genere di economia. Il modello è entrato in crisi per due fattori: il primo, all’inizio strisciante poi dirompente, è quello della finanziarizzazione dell’economia. Per cui la guida dell’economia, deve passare dalla finanza pubblica a quella privata. Finanza che si crea un ruolo proprio nel declino degli interventi pubblici. Per cui gli enti locali diventano sempre più un’opportunità di privatizzazione e sempre meno questione di servizi da erogare. Il secondo è dovuto alla crisi del 2008 che impone ancora oggi, a livello continentale, di usare i fondi pubblici per stabilizzare le banche togliendo risorse alle istituzioni. E, nel 2011, direttamente nella lettera dei banchieri centrali al governo italiano, sono proprio gli enti locali ad essere indicati come i soggetti da privatizzare. Non è un caso che esca, in quel periodo, il patto di stabilità come definito dalla legge 118/2011, quello che blocca investimenti e spese dei Comuni. Lo scorso anno il sindaco (Pd) di Lido di Camaiore, dalle colonne del Tirreno indicava il corpo di leggi e norme del patto di stabilità come un qualcosa che impediva la funzione fondamentale assegnata ai Comuni dalla Costituzione: indirizzare lo sviluppo dell’economia locale. Senza risorse, in effetti, impossibile dargli torto.
L’economia di gruppo del pubblico e del privato: la logica delle trasformazioni
I decreti Madia, che riguardano la riforma dell’amministrazione nel suo complesso, e le nuove disposizioni sul bilancio (la legge 125 del 2015 ma anche le disposizioni contenute nella legge di stabilità e nel milleproroghe) non sono materia che va intesa come pura misura contabile. Ma come misure che intervengono su una logica che si è consolidata negli anni: espellere l’intervento pubblico nell’economia locale, anche attraverso l’economia generata dall’erogazione dei servizi, quindi contrarre i bilanci. Generando quello che lo stesso Fmi chiamerebbe moltiplicatore fiscale negativo: ovvero una diminuzione del Pil locale maggiore delle risorse economiche “liberate” dai tagli. Ma a quale tipo di economia guardano i decreti Madia e e le nuove norme sul bilancio? All’economia di gruppo del pubblico e del privato. Per l’economia di gruppo, già guardando allo storico testo Economia dei gruppi e bilancio consolidato (Marchi-Zavani, Giappichelli, 1998) si capisce la logica che si vuol favorire: l’implementazione del bilancio consolidato, già sperimentale negli anni scorsi, di una amministrazione comunale come gruppo (Comune più partecipate, per capirsi). In modo da tagliare risorse, personale, investimenti nella sinergia delle componenti di tale gruppo. E più si taglia (innumerevoli sono le storie di tagli negli accorpamenti da economia di gruppo), più si deprime l’economia locale. Favorendo però un altro tipo di economia di gruppo: quella privata. Il testo unico Madia sui servizi pubblici, approvato il 26 febbraio, è infatti meno “privatizzante” della bozza entrata nel Consiglio dei Ministri il 20 gennaio ma introduce un principio molto importante. Quello che vuole che il Comune che intenda affidare servizi in house o ad azienda speciale, debba giustificare il mancato ricorso al privato. In poche parole siamo al rovesciamento, e al peggioramento della già privatizzante logica della sussidiarietà: là dove si voleva che il privato intervenisse dove il pubblico non disponeva di risorse, oggi il pubblico deve dimostrare di fare il privato meglio del privato. Altrimenti il servizio deve essere affidato al privato. E il privato in grado di fornire servizi a prezzi concorrenziali è quello pienamente inserito nell’economia dei gruppi: si pensi alle multiutility. Si capisce quindi cosa avviene promuovendo un’economia dei gruppi sui territori: si deprime doppiamente l’economia territoriale, con il pubblico che fa gruppo per risparmiare, con il privato che entra nell’economia delle partecipate con la logica, tipica dell’economia dei gruppi privati, dell’economia di scala che può permettersi il massimo ribasso.
Nuove leggi sul bilancio nella vita dei Comuni e testo unico Madia
A questo punto diventa comprensibile la logica economica delle nuove regole per il bilancio delle amministrazioni comunali, quello definito dall’ultima legge di stabilità. Non a caso il bilancio 2016-2018 è un bilancio consolidato di gruppo e non della semplice amministrazione comunale. In alcuni Comuni, tra cui Livorno, lo era già, in termini sperimentali, da qualche anno. Ma oggi, a differenza del passato, il bilancio di gruppo non è una fotografia di quello che accade ma un documento che vincola l’intero gruppo al pareggio di bilancio complessivo entro il 2018. Le partecipate quindi devono contribuire all’obiettivo di pareggio di bilancio entro quel periodo. A quel punto possono entare in gioco le leggi Madia: un Comune “inefficiente”, non in grado di fare meglio del privato dovrà alienare alcuni servizi. E così il cerchio si chiude: le nuove leggi di bilancio forzano, quanto possibile, il pareggio di gruppo, il testo unico favorisce le alienazioni dei servizi “inefficienti”. Per i Comuni gli anni difficili saranno dal 2017 in poi visto che, per quest’anno, è previsto l’allentamento del patto di stabilità. Ma già da quest’anno ci sono difficoltà: ci sono già nel 2016 restrizioni alla spesa corrente (stima Legautonomie Toscana), c’è il minor trasferimento di risorse dello Stato centrale, e il limite del 25 per cento alla reintegrazione degli organici pone difficoltà serie di funzionamento agli uffici in servizi sempre più complessi. Senza contare che l’autonomia impositiva dei Comuni viene azzerata. Per cui diviene impossibile prelevare ai più ricchi per redistribuire con una politica di tassazione locale. In questo modo il bilancio di gruppo dei Comuni deve essere per forza restrittivo, come accade nei magazzini dei bus quando l’economia di “gruppo” significa prendere pezzi da un autobus, cannibalizzarlo e fare funzionare i rimanenti. Mentre il privato che ha l’economia di scala a proprio favore, grazie alla finanziarizzazione dell’economia stessa, può intercettare tutti i servizi che ritiene profittevoli. Mentre il Pil locale si deprime. Visto che la contrazione del pubblico sgonfia l’economia locale, mentre il privato che arriva nutre l’economia privata di scala, non quella territoriale. Madia e bilancio sono quindi strumenti tecnici di queste dinamiche. Il resto è per i retori dell’efficienza, della legalità e della “lotta agli sprechi”. Quella che non ammetterà mai la verità: lo spreco, in queste leggi, siamo noi e i servizi ai quali abbiamo diritto.
Pubblicato sul numero 114 (aprile 2016) dell'edizione cartacea di Senza Soste
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L’impossibile economia pubblica
Il paradosso ideologico dell’articolo 81 della Costituzione di fronte al nuovo ciclo di privatizzazioni
tratto da http://www.militant-blog.org
L’approvazione del nuovo articolo 81 della Costituzione, avvenuta con il consenso di tutto l’arco parlamentare nel maggio 2012, è all’origine del nuovo paradossale ciclo di privatizzazioni dei restanti lembi di economia pubblica italiana. Nel giro di pochi mesi sono state privatizzate Poste e Ferrovie (quest’ultime ancora in corso di privatizzazione), gli ultimi due colossi economici ancora di proprietà statale, senza che nessuno abbia avuto da ridire e anzi con il benestare di tutte le forze politiche. Le stesse che da anni spingono per la definitiva privatizzazione di tutta l’economia “municipalizzata”, quella cioè legata ai servizi pubblici comunali. E questo per l’ormai dichiarato motivo per cui se tra ceti politici c’è una lotta allo spodestamento del gruppo concorrente, socialmente tutti i “rappresentanti” politici in parlamento condividono lo stesso modello economico, il liberismo, nelle sue vesti corporative (centrodestra) o transnazionali (centrosinistra). Se però nel precedente ciclo di privatizzazioni, tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila (sempre inequivocabilmente a trazione centrosinistra, tanto per non confondere i protagonisti in campo), le giustificazioni erano sostanzialmente di due tipi: da una parte “fare cassa” con la vendita di determinati beni pubblici; dall’altra migliorare l’efficienza delle imprese sottratte al controllo statale, oggi è intervenuta una nuova e più sottile opera di convincimento: la privatizzazione è la soluzione al problema degli investimenti produttivi, investimenti impossibilitati allo Stato per via del “debito pubblico” o dei “vincoli europei” (qui, quo e qua per rendersi conto di cosa parliamo, ma ancora qui). Ci troviamo di fronte però ad un paradosso zenoniano, stranamente poco rilevato da chi vorrebbe opporsi al governo Renzi. Secondo tutti gli analisti economici, l’unico modo per far ripartire la domanda e dunque l’occupazione è quello di far ripartire gli investimenti. Questi però sono vietati costituzionalmente, visto che l’articolo 81 impone allo Stato (ad ogni livello amministrativo, dal governo alle regioni ai comuni) il pareggio di bilancio quindi vieta deficit economici. L’investimento è però, per definizione, una spesa anticipata, investita – per l’appunto – dunque è una forma di deficit economico. Se però questo è vietato legalmente, l’unica possibilità d’investimento non può che provenire dal settore privato. Tale paradosso è riproposto a giustificazione di ogni processo privatizzante. Ad esempio, la giunta Marino (quello di sinistra, il menopeggio, paladino dei sinceri antifascisti e oggi dei nostalgici del Pds) ne ha fatto un punto dirimente della propria vicenda politica capitolina. Il sillogismo è (apparentemente) lineare: i servizi di Ama e Atac vanno migliorati, per migliorarli bisogna investire molto denaro, il Comune di Roma non può investire perché non può fare deficit, dunque l’unica soluzione è vendere (Esposito in alcune riunioni aveva parlato addirittura di regalare) ai privati. Non fa una piega. E’ chiaro che se si ragiona solo a valle del ragionamento (i servizi – o più in generale l’economia – pubblica va migliorata nel quadro condiviso imposto dall’articolo 81), l’unica soluzione diventa quella di svendere il più possibile tutte le aziende pubbliche ai privati. Anzi, sempre partendo dalla fine, appare sensata anche la provocazione di Esposito: se l’unico modo per migliorare il servizio è l’investimento privato, meglio regalare le aziende che farle pagare, almeno si liberano risorse per ulteriori investimenti. Evidentemente il discorso va preso a monte, all’origine del cambio di paradigma politico che ha derubricato il senso della nostra Costituzione, perché altrimenti il paradosso di Esposito rischia di apparire condivisibile, e infatti così appare per vasti strati di opinione pubblica ormai convinti che l’unica soluzione per riattivare gli investimenti sia la privatizzazione generale dell’economia.
Come rilevato lucidamente da Vladimiro Giacché nel suo ultimo libro, il senso complessivo degli articoli fondamentali della nostra Costituzione, che di fatto hanno impresso una direzione al nostro sviluppo economico, è quello per cui lo Stato si impegna attivamente alla rimozione degli ostacoli di ogni tipo all’eguaglianza dei cittadini. A tal fine ha imposto (non consigliato o raccomandato, ma sancito obbligatoriamente) la persecuzione di precisi diritti individuali e collettivi (i vari diritti inviolabili: salute, istruzione, lavoro, associazione, domicilio e via dicendo). Tali diritti non rispondono a logiche economiche, vanno assicurati a prescindere. Le aziende statali che in qualche modo hanno a che fare con i diritti inviolabili dell’uomo sanciti in Costituzione hanno come obiettivo allora quello di assicurare il determinato servizio, non di produrre profitti. La questione, di per sé ovvia nella Prima repubblica, ha subito un rovesciamento con il graduale processo di “managerializzazione” dei dirigenti pubblici. Di colpo l’obiettivo prioritario delle aziende pubbliche non è stato più quello di assicurare un servizio (d’altronde già pagato dalle tasse), ma realizzare un margine economico, cioè migliorare i conti aziendali cercando di produrre profitti. Questo fatto oggi viene dato per assodato ma così non è, perché mentre un impresa privata non opera(va) nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo, le aziende pubbliche (o alcune di esse), garantiscono proprio quei diritti. Le ferrovie, le autostrade e i trasporti pubblici urbani riguardo al diritto allo spostamento; le Poste per il diritto alla corrispondenza e alla comunicazione; le aziende dell’energia (ad esempio l’Enel), per l’assicurazione dei servizi legati alle utenze di vario tipo, e così dicendo per ogni ramo dell’economia pubblica. In altre parole un servizio va (andava) garantito anche se questo fosse in perdita, perché appunto legato ad un diritto. Se però il paradigma viene ribaltato e al centro viene posto l’equilibrio dei conti e il possibile profitto, gli unici servizi possibili divengono quelli economicamente sostenibili, mentre quelli che non lo sono vengono automaticamente tagliati. In aggiunta, proprio in funzione del “miglioramento dei conti”, si è proceduto nel tempo ad un innalzamento vertiginoso delle tariffe legate ai vari servizi. In questo senso risulta esemplare la risposta data a Susanna Tamaro da Mauro Moretti, ex ad della Ferrovie. Alla scrittrice, lamentandosi della mancanza di collegamenti tra alcune città italiane, veniva risposto che “in Friuli Venezia Giulia non c’è mercato e non investiamo”. In tale frase è racchiusa la rivoluzione copernicana avvenuta nel nostro paese (ma più in generale in tutta Europa), tra diritti inviolabili e risultato economico. Si investe dove c’è mercato, si tralascia il resto. Per cui oggi è più confortevole viaggiare tra Roma e Milano col Freccia Rossa piuttosto che l’interregionale degli anni Ottanta, ma quello che era un diritto (a spostarsi lungo tutto il territorio nazionale), è divenuto un privilegio (i prezzi del servizio escludenti gran parte della popolazione), e soprattutto il prezzo del miglioramento di una tratta viene pagato abolendo le tratte meno redditizie, impedendo fisicamente gli spostamenti a chi risiede lontano dai maggiori centri urbani del paese.
Arrivando ad oggi, la situazione paradossale, come dicevamo, è dunque questa: lo Stato per riattivare la domanda dovrebbe investire ma lo stesso Stato è impedito ad investire da una norma costituzionale votata da tutta la politica nazionale (pure dai malpancisti keynesiani, dai possibilisti, dai leghisti, eccetera). In un quadro del genere, bloccato dal pareggio di bilancio, l’unica politica di investimenti possibile è quella del settore privato, e questo è il motivo alla base dell’assuefazione generale, della rassegnazione, alla privatizzazione inevitabile. Meglio un investimento privato che nessun investimento, è il sillogismo introiettato dall’opinione pubblica, in questo facilitata dal pensiero unico politico-mediatico. E’ un escamotage retorico che sterilizza ogni credibilità di un opposizione alle privatizzazioni, perchè apparentemente entra in contraddizione con una politica di investimenti che è la sola opzione al ritorno all’occupazione. E’ allora uno dei terreni da cui ripartire, dalla radicale riformulazione dell’articolo 81 della Costituzione, e questa dovrebbe essere una delle pregiudiziali attraverso cui testare l’alternativa tra le varie proposte politiche in campo.
6 dicembre 2015
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