Siamo agli sgoccioli dell'attesa referendaria e siamo anche alla frutta da parte dei vari comitati per il Sì che sono composte da persone che già comunque se la passano bene oggi e che con le riforme costituzionali starebbero di certo meglio allargando la forbice tra il ricco sempre più ricco ed il povero sempre più povero.
L'editoriale di Infoaut(infoaut )basterebbe già come sintesi di tutte le motivazioni per votare NO a tutto quello che verrà proposto domani in cabina elettorale,ma è d'obbligo passare più approfonditamente su alcuni punti.
Come già detto parecchio in queste settimane tutte le varie promesse a pensionati,lavoratori,al sud Italia,ai terremotati,ai giovani,alle famiglie,e chi più ne ha più ne metta,fanno anche parte del gioco elettorale e propagandistico,e che comunque alla luce del sole sono impossibili da attuare e da mantenere per il semplice e logico fatto che i soldi non ci sono.
E non sono nemmeno stati preventivati nell'ultima finanziaria.ed è vero che se Renzi è stato messo alle corde per via di queste immense balle,per uscire dall'angolo ha rilanciato vomitando balle ancora più grandi e sempre meno credibili.
Compreso il fatto che chi voterà Si lo farà per abbattere il sistema della casta,che chi abbia un minimo di neuroni in testa sa che sarebbe l'esatto contrario visto l'assoluta certezza che i sistemi del potere politico a braccetto con quelli economici e finanziari avranno il nulla osta totale per poter affossarci in maniera definitiva.
Sarebbe davvero molto importante che vincesse il NO,e che tutti i falsi difensori della democrazia che oggi lanciano gli appelli per andare a votare(cosa che non hanno dimostrato di sapere fare il 17 aprile scorso)vengano sconfitti per evitare di sprofondare in un'oligarchia di poteri politici e finanziari sempre più dittatoriali.
NO al 18 brumaio di Matteo Renzi.
Quando un
contaballe annusa il rischio di essere definitivamente scoperto, ha due strade
di fronte a sé: o si defila quatto quatto, oppure si gioca il tutto per tutto e
le spara ancora più grossa. Ecco lo stato dell’arte del governo del buffone di
Rignano a pochi giorni dal 4 dicembre, sulla via intrapresa non ci sono dubbi.
Dal ponte sullo stretto ai quattrini promessi a destra e a sinistra in
finanziaria, dalla riduzione dei costi della politica alla ricostruzione dei
territori colpiti dal terremoto, dall’aumento dei soldi nella tasca delle
partite Iva (gli stessi che vengono sfilati dall’altra tasca) alla
defiscalizzazione del lavoro al Sud, la lunga marcia renziana verso il
referendum è stata un progressivo crescendo di menzogne, direttamente
proporzionali alla paura di perdere la poltrona tanto faticosamente conquistata.
Fino ad arrivare all’ultima sparata (anche se non escludiamo che, mentre
l’editoriale viene pubblicato, il ducetto non ne abbia già trovate altre ancora
più eclatanti): il sì è contro la casta!
Ogni
commento sarebbe superfluo e perfino un insulto all’intelligenza di chi legge,
se non fosse che sta proprio qui l’architrave retorica del renzismo. A partire
dalla rottamazione (che ovviamente non c’è mai stata, basti pensare che il losco
figuro che ha governato la transizione è stato il rottame Napolitano, per non
parlare dei potenti uomini di industria, banca e finanza che sostengono il
governo PD) la neolingua del piccolo fiorentino è fondata su una costante
invocazione del nuovo contro il vecchio, dell’accelerazione contro chi vuole
tornare indietro. È questa la metaballa, quella che le sorregge tutte:
presentare il sì come il cambiamento, il no come la conservazione. Con questo
inganno, ben più grande della truffaldina formulazione del quesito referendario,
Renzi ha tentato in questi mesi di depersonalizzare il voto, dopo aver tastato
il radicato odio nei confronti della sua persona. In questo modo fraudolento
prova a indurre una parte di coloro che subiscono i costi della crisi a dire sì
a chi la crisi la gestisce e la mette a valore, nell’illusione che qualcosa
cambierà. È un messaggio rivolto in particolare ai giovani, i supposti
destinatari del lessico della rottamazione.
E
tuttavia, l’economia politica della promessa renziana si infrange contro il dato
di fatto che oggi il sì rappresenta concretamente la conservazione dei rapporti
di sfruttamento e di potere esistenti, la conservazione delle caste consolidate,
la conservazione delle politiche che nella crisi rendono i ricchi più ricchi e i
poveri più poveri. Non è un caso che siano proprio i giovani quelli che,
prevedibilmente, si schierano in forma maggioritaria per il no, mentre sono gli
anziani a optare per il sì. Quello di domenica sarà un voto generazionale, non
tanto o solo nel senso anagrafico del termine, quanto piuttosto perché a dire di
no sono oggi quelli che vogliono costruire un futuro che è stato loro
violentemente rubato. Di promesse ne hanno ascoltate troppe e sono state tutte
tradite per poter ancora dire sì ai politici di governo. E sarà un voto di
classe, nel senso che la questione di classe avrà un peso decisivo
nell’orientare buona parte della scelta. Chi vota sì o è abbindolato dal
significante vuoto del cambiamento, oppure è qualcuno che nella crisi sta bene o
quantomeno pensa di potersela sfangare. Per gli altri, il meno peggio con cui il
disperato Renzi e il PD cercano di presentarsi, è già il peggio della propria
condizione di vita.
Prendiamo
per esempio il decisivo tema delle banche, che nell’ultimo anno – innanzitutto
grazie alla lotta dei risparmiatori truffati dal decreto salvabanche – si è
rivelato spina nel fianco non rimarginabile per la tenuta del governo Renzi e,
in prospettiva, di qualsiasi governo. Nel caso della sua banca di famiglia,
Monte dei Paschi, il PD è arrivato al ricatto diretto: se vince il no ci sarà il
bail-in, di fatto o formale, ovvero l’azzeramento dei risparmi di migliaia di
famiglie. Non solo: i potentati finanziari internazionali – compattamente
schierati a favore di Renzi, ça va sans dire – annunciano il crollo di otto banche se il
4 dicembre il sì esce sconfitto. Si tratta ovviamente di un allarme creato ad
hoc, per tenere una pistola puntata alla testa di chi andrà a votare, come se si
trattasse di un oggettivo fatto tecnico e non invece il frutto di decisioni
politiche (è proprio di questi giorni la notizia del proscioglimento per i
vertici di Banca Etruria, a dimostrazione di un sistema che assolve se stesso).
Il potere tuttavia in questo modo, mentre racconta una balla, dice una verità:
sì, la crisi e il fallimento delle banche sono una questione strutturale; no,
non dipende affatto dal voto al referendum, ci sarà comunque. E allora il
problema non è sperare nella carità dei banchieri e dei politici che li
rappresentano, ma iniziare a fargliela pagare. Perché se si salvano loro
falliamo noi, dunque l’unico modo per salvarci è fare fallire loro.
Sono
questi i contenuti e in parte anche i soggetti scesi in piazza il 27 novembre.
Che dire di quelle realtà del movimento romano che hanno boicottato, apertamente
o dietro le quinte, la manifestazione? Prima hanno tentato la congiura del
silenzio, unendosi così agli organi di informazione; poi hanno cercato uno
squallido uso strumentale dell’importante giornata di “Non una di meno” in
alternativa o addirittura contrapposizione a “C’è chi dice no”; infine, di
fronte alla malaparata, hanno sperato nella pioggia, e anche questa gli è andata
male. Il patetico boicottaggio, per giunta fallito, mostra con chiarezza almeno
due dati. Il primo è l’autocompiaciuta marginalità politica in cui si rotola e
grufola un numero cospicuo di realtà di movimento, a Roma e altrove. Il secondo
è che le retoriche renziane sembrano qui far presa in un doppio senso. Da un
lato, per paura dell’“accozzaglia” e dell’ignoto si preferisce stare nel noto
della purezza identitaria dei propri simili. Vi è qui un complesso di
subalternità, una nietzscheana morale dello schiavo, per cui ti tieni
rancorosamente alla larga da qualsiasi processo ambiguo perché ti ritieni troppo
debole per potervi imprimere una direzione autonoma. Dall’altro, vi è il più
tradizionale opportunismo di chi preferisce non avere come nemico troppo
esplicito il PD, perché con la fine della cosiddetta sinistra radicale un domani
stipendi, concessioni e briciole si andranno a elemosinare direttamente da
quelle parti. Nei dintorni di Sel e dei Peciola olimpionici hanno già capito
l’antifona e si stanno muovendo di conseguenza.
“Viva
Napoleone, viva il salsiccione”, cantavano le pance dei sottoproletari corrotti
nel 1848. Qualcosa di analogo si inizia a udire già in sottoboschi non troppo
lontani da noi. Sennonché la farsa da tempo immemore ha ormai lasciato il posto
alle mediocri macchiette. Allora, affermare il NO, fare una scommessa dentro un
caotico contesto in cui siamo tutt’altro che egemoni, significa oggi rompere non
solo con il nemico, ma anche con noi stessi, con la nostra inerziale
autoriproduzione, con il nostro adagiarci nel già noto. Questa sfida va giocata
fino in fondo, progettualmente: il 27 è stato un buon inizio, e comunque solo un
inizio. La sera del 4 dicembre dobbiamo essere pronti in ogni città ad affermare
l’illegittimità del PD e mandarlo a casa, mettendo la lingua elettorale al
servizio della spada del conflitto. La sfida non sta nell’esibire quello che già
abbiamo, ma iniziare ad arrivare là dove finora non ci siamo stati e dove si
giocano battaglie decisive. Sapendo che quando ci si muove in un contesto di
massa contro un nemico principale, ci troveremo momentaneamente vicino alla
puzza dei nemici di domani, o anche di quelli che oggi sono secondari. Non vince
chi è più puro, vince chi organizza meglio le forze; non conta l’identità della
tattica, ma la determinazione della strategia.
Far
fallire il 18 brumaio dell’omuncolo di Rignano non dipende certo solo da noi,
può però dipendere anche da noi. Non stiamo parlando del maledetto giugno 1848,
se vogliamo continuare a giocare con le suggestioni del passato, stiamo parlando
della possibilità tutta a venire di un 1905. E tuttavia, da lì ai ’17, si sa,
per chi ha coraggio i salti talvolta sono più veloci di quello che la storia
lasci pensare.
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