La querelle tutta privata tra Berlusconi padre e padrone di Mediaset-Fininvest nonostante prestanomi occasionali ed opportunistici ed il finanziere Bolloré ha talmente rotto i coglioni al sottoscritto e a una grande quantità di connazionali(per chi ahimè abituato come me a ricevere le prime notizie dal Tg5 al mattino causa l'orario lavorativo)che l'intervento in prima persona del ministro dello sviluppo economico Calenda sia visto a ragione come un'inopportuna difesa verso il colosso del biscione.
Perché in primo luogo Vivendi,il gruppo di Bolloré,aveva già fatto la"scalata"tempi addietro a Telecom senza nessuna intromissione politica,anzi con un silenzio assenso che allora sì aveva scaturito dubbi,e ora si fanno dichiarazioni di"atto ostile"verso un'azienda privata.
Che Mediaset-Fininvest e tutto il il corollario delle aziende aiutate già dallo Stato con decreti emessi dagli esecutivi Berlusconi nel corso del ventennio sia già una vergogna è un atto già assodato,ma che il cavaliere puttaniere si ribelli al sistema libertario proprio del capitalismo di cui grazie anche ai suoi interventi criminali abbia contribuito a farsi le palle d'oro lo trovo proprio orripilante.
Hai voluto il libero mercato e ora ne prendi le conseguenze,che siano ora nel suo culo dopo averlo messo a tutti gli italiani è solo il fatto che la ruota gira,e nonostante questo lui rimarrà nel suo mondo dorato e noi tutti nella merda quotidiana.
Articolo preso da Contropiano(governo-soccorso-mediaset-difesa-del-renzismo ).
Governo in soccorso di Mediaset, in difesa del renzismo.
C'è del marcio in Danimarca, a volte..- Figuriamoci sotto il simbolo del Biscione. Ora che la francese Vivendi, controllata dal finanziere bretone Vincent Bolloré, ha reso noto di aver rastrellato sul mercato il 20% del titolo Mediaset, per la prima volta negli ultimi 30 anni il governo in carica si è alzato (per modo di dire…) in difesa dell'”italianità” di un'azienda. Il precedente di Alitalia – col governo Berlusconi – non fa testo, perché lì la questione dell'”italianità” era solo una pezza retorica per nascondere la privatizzazione agevolata, a carico dello Stato, di un'azienda pubblica a favore di una “cordata di amici”.Suona quasi ironico dunque il fatto che questa “prima volta” si sia verifciato per le sorti di un'azieda privata, mentre quelle pubbliche – spesso ottime, importanti, “strategiche” – sono state date vie come stracci inutili. Il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, è arrivato a dire che "non sembra davvero che quello che potrebbe apparire come un tentativo, del tutto inaspettato, di scalata ostile a uno dei più grandi gruppi media italiani, sia il modo più appropriato di procedere per rafforzare la propria presenza in Italia". Anche perché, ha aggiunto, Mediaset opera in "un campo strategico", quindi "il modo in cui si procede non è irrilevante". Tanto da dover aggiungere che "Mi pare che questo principio sia in Francia ampiamente riconosciuto e assertivamente difeso".
Mediaset settore strategico, dunque… Eppure si tratta “soltanto” di un produttore di contenuti televisivi, diffusi via antenna e con altri sistemi broadcasting ormai abbastanza tradizionali, “maturi”. Mentre soprattutto nel settore video è ormai in movimento una autentica “rivoluzione copernicana”, che si snoda “attraverso il file rouge che collega videostreaming, reti, dimensione internazionale dei player”.
Vivendi è già orientata in quel senso, Mediaset molto meno. Vivendi ha le reti (Telecom!, una delle eccezionali privatizzazioni per un piatto di lenticchie, in quel caso a firma Massimo D'alema), Mediaset no. Logico che l'evoluzione tecnologica e degli stili di fruizione spiga verso la concentrazione tra produzione (Mediaset) e reti di diffusione (Vivendi e pochissimi altri, mentre Netflix, Amazon, Apple controllano già i due terzi del mercato globale).
Quindi, che senso ha che un governo “rispetto del mercato” si sbilanci a difesa di un'azienda operante in un settore tutt'altro tutt'altro che “strategico”? Questa definizione calza a pennello per le telecomunicazioni (date via nel modo che ricordiamo), l'acciaio, l'aerospaziale (Fiat Avio fu venduta al fodo di investimento Carlyle senza che nessuno fiatasse), ovviamente il militare (e Finmeccanica, ora Leonardo, veleggia anch'essa verso la privatizzazione pressoché integrale). Perché considerare invece tali le soap o i talk show, l'entertainment dozzinale e cinepanettonesco?
In fondo i governi che hanno ostentato lo stesso orientamento “pro mercato” non hanno mai mosso un dito per difendere imprese italiane forse anche più importanti per la gestione del paese. La “colonizzazione” dell'economia italiana da parte di aziende straniere, infatti, non colpisce solo grandi società come Mediaset o, prima, Telecom, Bnl, ecc. Con la liberalizzazione dei servizi avviata dal governo Renzi, con il decreto Madia e il supporto di Delrio, le aziende municipalizzate sono già terreno di caccia di società estere, tedesche e francesi in particolare. E' il caso del trasporto locale dove si vanno delineando gli appetiti del gruppo “Arriva”, società inglese ma al 100% controllata dalla tedesca Deutsche Autobahn. Già adesso le aziende di trasporto locali controllate o partecipate da Arriva sono numerose: Sal (Lecco), Sab (Bergamo), Sia e Saia (Brescia), Asf (Como), Saf (Udine). TT (Trieste), Sadem (Torino), Rtl (Imperia), Km (Cremona). Le prossime tappe sono Milano e Verona, per il trasporto locale su gomma, e Piemonte e Val d'Aosta per quello ferroviario. Secondo l'amministratore delegato di Arriva, Rudhart, l'Italia è il secondo mercato europeo per il trasporto pubblico. Citando come esempi positivi la liberalizzazione dei trasporti locali in Olanda e Danimarca, Rudhart esplicita che l'apertura dei mercati nei servizi pubblici ha prodotto risultati positivi e “risparmi di costi per lo Stato sotto forma di minori contributi pubblici alle società di trasporto”. Adesso Arriva vuole “giocare un ruolo da protagonista nel percorso di liberalizzazione in atto”
Dunque ai governi italiani tutta questa grazia di dio “strategica” non è mai interessata minimamente. Solo per Mediaset scatta l'allarme.
Qui, inevitabilmente, si scivola nella collosa melma italica. Non si può non vedere che Berlusconi ha schierato Forza Italia a supporto discreto ma decisivo del governicchio Gentiloni, trattando per una legge elettorale tale da consentire un governo di coalizione tra Pd e berluscones dopo le prossime elezioni, in funzione antigrillina. Ma senza dichiarare prima l'alleanza. Potrà essere un proporzionale con forte soglia di sbarramento o qualche altra formula. Ma è evidente che l'establishment “europeista” uscito massacrato dall'esito referendario può sperare di sopravvivere alle prossime votazioni solo se la destra darà una mano piuttosto consistente.
Dal punto di vista del controllo societario, infatti, gli analisti di borsa ritengono piuttosto improbabile il successo di una “scalata ostile” al Biscione. Questione di numeri, non di opinioni. La famiglia Berlusconi controlla ad oggi il 38,26% delle azioni, la stesa Mediaset detiene il 3,8% di azioni proprie (il che porta ad oltre il 41% la quota controllata direttamente), e in più ha fatto approvare dal cda una delibera che autorizza il consiglio di amministrazione ad acquistare, entro 18 mesi, anche negoziando opzioni o derivati sul titolo Mediaset, fino al 10% del capitale. In pratica, un pacchetto azionario privo del diritto di voto, ma che abbassa la platea dei votanti al 90% degli azionisti. Basta dunque l'alleanza con uno qualsiasi dei fondi che detengono consistenti quote di minoranza (Mackenzie e Fidelity, che hanno messo insieme tra l’8 e il 9%), per respingere l'”assalto” francese.
Le previsioni danno come risultato più probabile “l'apertura di un tavolo con due sedie e 40 avvocati” per arrivare, nel medio periodo, a un accordo soddisfacente tra due corsari occasionalmente arrivati alle mani dopo la vicenda della (mancata) cessione di Premium.
Mediaset, insomma, resterà “italiana” senza troppo sforzo (qualche milione, Silviuccio, lo dovrà comunque impegnare…), senza patemi d'animo.
Perché dunque il governo si mostra così angosciato? Provate a chiederlo a Renzi e Poletti, che già hanno “smarronato” facendo risaltare il proprio terrore per il voto referendario sul Jobs Act (la Cgil ha raccolto 3,3 milioni di firme), e quindi – per non farlo celebrare in primavera, "a botta calda" dopo il 4 dicembre – staccheranno la spina a Gentiloni non appena avranno tra le mani una nuova legge elettorale adatta a sancire il matrimonio indicibile tra Pd e Caimano.
Mediaset settore strategico, dunque… Eppure si tratta “soltanto” di un produttore di contenuti televisivi, diffusi via antenna e con altri sistemi broadcasting ormai abbastanza tradizionali, “maturi”. Mentre soprattutto nel settore video è ormai in movimento una autentica “rivoluzione copernicana”, che si snoda “attraverso il file rouge che collega videostreaming, reti, dimensione internazionale dei player”.
Vivendi è già orientata in quel senso, Mediaset molto meno. Vivendi ha le reti (Telecom!, una delle eccezionali privatizzazioni per un piatto di lenticchie, in quel caso a firma Massimo D'alema), Mediaset no. Logico che l'evoluzione tecnologica e degli stili di fruizione spiga verso la concentrazione tra produzione (Mediaset) e reti di diffusione (Vivendi e pochissimi altri, mentre Netflix, Amazon, Apple controllano già i due terzi del mercato globale).
Quindi, che senso ha che un governo “rispetto del mercato” si sbilanci a difesa di un'azienda operante in un settore tutt'altro tutt'altro che “strategico”? Questa definizione calza a pennello per le telecomunicazioni (date via nel modo che ricordiamo), l'acciaio, l'aerospaziale (Fiat Avio fu venduta al fodo di investimento Carlyle senza che nessuno fiatasse), ovviamente il militare (e Finmeccanica, ora Leonardo, veleggia anch'essa verso la privatizzazione pressoché integrale). Perché considerare invece tali le soap o i talk show, l'entertainment dozzinale e cinepanettonesco?
In fondo i governi che hanno ostentato lo stesso orientamento “pro mercato” non hanno mai mosso un dito per difendere imprese italiane forse anche più importanti per la gestione del paese. La “colonizzazione” dell'economia italiana da parte di aziende straniere, infatti, non colpisce solo grandi società come Mediaset o, prima, Telecom, Bnl, ecc. Con la liberalizzazione dei servizi avviata dal governo Renzi, con il decreto Madia e il supporto di Delrio, le aziende municipalizzate sono già terreno di caccia di società estere, tedesche e francesi in particolare. E' il caso del trasporto locale dove si vanno delineando gli appetiti del gruppo “Arriva”, società inglese ma al 100% controllata dalla tedesca Deutsche Autobahn. Già adesso le aziende di trasporto locali controllate o partecipate da Arriva sono numerose: Sal (Lecco), Sab (Bergamo), Sia e Saia (Brescia), Asf (Como), Saf (Udine). TT (Trieste), Sadem (Torino), Rtl (Imperia), Km (Cremona). Le prossime tappe sono Milano e Verona, per il trasporto locale su gomma, e Piemonte e Val d'Aosta per quello ferroviario. Secondo l'amministratore delegato di Arriva, Rudhart, l'Italia è il secondo mercato europeo per il trasporto pubblico. Citando come esempi positivi la liberalizzazione dei trasporti locali in Olanda e Danimarca, Rudhart esplicita che l'apertura dei mercati nei servizi pubblici ha prodotto risultati positivi e “risparmi di costi per lo Stato sotto forma di minori contributi pubblici alle società di trasporto”. Adesso Arriva vuole “giocare un ruolo da protagonista nel percorso di liberalizzazione in atto”
Dunque ai governi italiani tutta questa grazia di dio “strategica” non è mai interessata minimamente. Solo per Mediaset scatta l'allarme.
Qui, inevitabilmente, si scivola nella collosa melma italica. Non si può non vedere che Berlusconi ha schierato Forza Italia a supporto discreto ma decisivo del governicchio Gentiloni, trattando per una legge elettorale tale da consentire un governo di coalizione tra Pd e berluscones dopo le prossime elezioni, in funzione antigrillina. Ma senza dichiarare prima l'alleanza. Potrà essere un proporzionale con forte soglia di sbarramento o qualche altra formula. Ma è evidente che l'establishment “europeista” uscito massacrato dall'esito referendario può sperare di sopravvivere alle prossime votazioni solo se la destra darà una mano piuttosto consistente.
Dal punto di vista del controllo societario, infatti, gli analisti di borsa ritengono piuttosto improbabile il successo di una “scalata ostile” al Biscione. Questione di numeri, non di opinioni. La famiglia Berlusconi controlla ad oggi il 38,26% delle azioni, la stesa Mediaset detiene il 3,8% di azioni proprie (il che porta ad oltre il 41% la quota controllata direttamente), e in più ha fatto approvare dal cda una delibera che autorizza il consiglio di amministrazione ad acquistare, entro 18 mesi, anche negoziando opzioni o derivati sul titolo Mediaset, fino al 10% del capitale. In pratica, un pacchetto azionario privo del diritto di voto, ma che abbassa la platea dei votanti al 90% degli azionisti. Basta dunque l'alleanza con uno qualsiasi dei fondi che detengono consistenti quote di minoranza (Mackenzie e Fidelity, che hanno messo insieme tra l’8 e il 9%), per respingere l'”assalto” francese.
Le previsioni danno come risultato più probabile “l'apertura di un tavolo con due sedie e 40 avvocati” per arrivare, nel medio periodo, a un accordo soddisfacente tra due corsari occasionalmente arrivati alle mani dopo la vicenda della (mancata) cessione di Premium.
Mediaset, insomma, resterà “italiana” senza troppo sforzo (qualche milione, Silviuccio, lo dovrà comunque impegnare…), senza patemi d'animo.
Perché dunque il governo si mostra così angosciato? Provate a chiederlo a Renzi e Poletti, che già hanno “smarronato” facendo risaltare il proprio terrore per il voto referendario sul Jobs Act (la Cgil ha raccolto 3,3 milioni di firme), e quindi – per non farlo celebrare in primavera, "a botta calda" dopo il 4 dicembre – staccheranno la spina a Gentiloni non appena avranno tra le mani una nuova legge elettorale adatta a sancire il matrimonio indicibile tra Pd e Caimano.
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