martedì 15 novembre 2016
NOSTALGIA DEL PATTO DI VARSAVIA?
Lo scorso weekend nelle repubbliche moldave e bulgare si sono avute le elezioni presidenziali che hanno suggellato le vittorie al secondo turno(al primo non c'era stata la maggioranza dovuta secondo gli ordinamenti delle due nazioni)e che vedono Igor Dodon e Rumen Radev capi di Stato rispettivamente di Moldavia e Bulgaria.
Entrambi portavoce e rappresentanti dei partiti socialisti hanno in comune la stessa voglia di riavvicinamento con Mosca con tutte le differenze sociali e politiche dovute rispetto a quando nel 1991 trovò fine il Patto di Varsavia,ed anche i due neopresidenti hanno storie diverse con Dodon studioso e politico di vecchio stampo e con Radev proveniente dalla carriera militare.
Proprio quest'ultimo ha espresso fin da subito la volontà di una Bulgaria fuori dalla Nato dopo dodici anni di appartenenza,pronta ad allontanarsi dagli obblighi e dai paletti ristretti e di autorità imposta dall'Ue.
Assieme alla Moldavia si augurano l'abbattimento delle sanzioni contro la Russia e la parola fine ai conflitti ucraini e siriani dove Mosca ha un'influenza e una capacità politica e militare di porre termine a questi sanguinosi conflitti che si stanno protraendo da anni.
Quindi non tutto l'est europeo parlando soprattutto dell'Ungheria e in parte della Polonia non si stanno estremizzando verso la destra nazionalista ma tentano riuscendoci di avviare strategie più in linea ai metodi socialisti.
Articolo preso da Contropiano(moldavia-bulgaria ).
Moldavia e Bulgaria. A est qualcosa di nuovo.
di Fabrizio Poggi
Ad est – non dappertutto, per carità – ci si orienta verso Mosca. I neo presidenti, appena eletti, di Moldavia e Bulgaria sembrano voler andare in quella direzione.
A Kišinev, dove due settimane fa, al primo turno, nessun candidato aveva avuto la maggioranza, il leader del Partito socialista, Igor Dodon, ha ottenuto ora il 52,6% dei voti (manca lo scrutinio dei seggi in USA e Canada, ma non potrà ribaltare il risultato) contro la concorrente, la filo-UE Maia Sandu, leader del partito “Azione e solidarietà”, ferma al 47,3% e che, secondo la moda yankee, minaccia ora “dimostrazioni di massa”, non riconoscendo il risultato. Dodon si è congratulato con Sandu per il “risultato onorevole” e l'ha invitata a un tavolo di discussione, senza destabilizzare il paese. Sembra (non ci sono ancora dati ufficiali) che l'affluenza sia stata di tutto rispetto, anche perché queste erano le prime elezioni dirette del presidente della repubblica dal 1996; dal 2000 infatti, il presidente veniva eletto dal Parlamento. Ci sarebbe stata addirittura carenza di schede, in particolare in vari seggi all'estero: Bologna, Parma, Parigi, Mosca, Bucarest; in Portogallo sarebbe andata perduta l'intera partita di schede.
Dodon, che ha già ricoperto cariche pubbliche in passato, (vice primo ministro nel 2008-2009 e Ministro dell'economia nel 2006-2009) alla vigilia del voto aveva dichiarato che, in caso di vittoria, la sua prima visita all'estero sarebbe stata a Mosca, “per avviare l'elaborazione di un accordo di partenariato strategico” e rinnovare l'export verso la Russia, limitato dopo la firma dell'accordo di associazione e libero commercio con la UE. Dodon si è sempre detto “sicuro della vittoria. Le persone sono stanche dei sette anni della coalizione filo UE, della miseria, della corruzione, dell'illegalità e vogliono vivere in uno Stato proprio e non nel distretto di un altro paese”. Il leader socialista si è espresso anche per la permanenza delle forze di pace russe in Transnistria, fino alla completa soluzione politica della vicenda, attraverso la federalizzazione della Moldavia, cui si oppone Sandu. Secondo la Tass, tutti i candidati avevano impostato la campagna elettorale soprattutto su temi esteri: chi additando la solita "mano del Cremlino", chi, sull'altro versante, il "Comitato regionale di Washington", chi ancora la ventilata unione con la Romania. Se i socialisti hanno additato Maia Sandu quale "burattino degli Stati Uniti" – dove ha studiato e ha lavorato alla Banca Mondiale – diffondendone le immagini con Angela Merkel, Donald Tusk e Jean-Claude Juncker, pare addirittura che l'ex presidente rumeno, Traian Băsescu, abbia ottenuto a spron battuto la cittadinanza moldava per poter votare Maia Sandu, la quale propagandava, insieme a partnership strategica con Washington, stretti contatti con Kiev, anche la futura unione con la Romania.
Come da copione, non mancano le minacce dell'ennesima “rivoluzione arancione”, come quella che, nel 2009, sotto le bandiere di UE e Romania, aveva portato all'incendio del Parlamento e della residenza presidenziale, dopo la vittoria elettorale del Partito comunista. Ovviamente, Bruxelles era dalla parte degli arancioni: gli esiti di sette anni di coalizione filo UE si sono visti anche nelle dimostrazioni di un anno fa contro l'oligarchia al potere, nel rifiuto della politica governativa da parte dell'80% della popolazione e nella caduta dal 70% al 37% dei favorevoli all'integrazione con Bruxelles. Inoltre, la vittoria di Donald Trump sembra aver giocato un ruolo non secondario pure a Kišinev: “Per gli Stati Uniti diventerà meno importante il colore geopolitico della leadership moldava", ha detto in un'intervista a NewsMaker l'ex vice Ministro degli esteri moldavo Andrei Popov, secondo cui Washington rinuncerà a tutta una serie di progetti moldavi, avviati dalla cerchia della Clinton.
Anche in Bulgaria, al secondo turno presidenziale ha prevalso il candidato della coalizione facente capo al Partito socialista, il generale dell'aviazione Rumen Radev, che ha superato almeno di un 4-5% (il risultato non è definitivo) l'avversaria Tsetska Tsačeva, della coalizione filogovernativa GERB – "Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria". Al primo turno, domenica 6 novembre, nessun candidato aveva raggiunto il 30% necessario all'elezione: Radev si era fermato al 25,4% e Tsačeva al 21,9%. Ora il neoeletto presidente si è detto contrario alla permanenza della Bulgaria nella Nato (di cui il paese è membro dal 2004) e nella UE e si è espresso per relazioni più strette con la Russia. Il Primo ministro, il falco Bojko Borisov, che aveva promesso di dimettersi in caso di vittoria di Radev, pur sperando nella vittoria della Tsačeva, sembra aver mantenuto la parola, aprendo una crisi che non sembra di facile soluzione.
Di contrapposto all'aperta politica antirussa e filoatlantica dell'ex Presidente Rosen Plevneliev e di Bojko Borisov, Radev ha dichiarato che l'auspicato “approfondimento del dialogo con la Russia, consentirà di ridurre contrapposizione e tensioni, portando alla normalizzazione della situazione in Siria e Ucraina". Riguardo alle sanzioni antirusse, ha sottolineato che questa “è materia di responsabilità del governo. Ma, come Presidente, mi impegno al dialogo, per cercare una soluzione con i colleghi della UE”. Sul piano interno, ha detto che, “nonostante le minacce di apocalisse”, gli elettori hanno “votato per il cambiamento e la democrazia, vincendo apatia e paura".
Un soggetto che invece non cambia politica verso la Russia è l'Unione Europea. L'Alto rappresentante UE per gli affari esteri, Federica Mogherini, ha dichiarato che Bruxelles non intende mutare la propria posizione nei confronti della Russia, anche se la Casa Bianca, dopo l'arrivo di Donald Trump, perseguirà un riavvicinamento con il Cremlino. La UE, ha sentenziato la Mogherini, “ha una posizione di principio sulla questione dell'annessione della Crimea e sulla situazione in Ucraina, e non la cambierà, indipendentemente da eventuali mutamenti di posizione da parte di altri paesi, USA compresi”.
Ipse dixit et salvavit eos; ovviamente, dalla “aggressione russa!
Fabrizio Poggi
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