La notizia rimbalzata prepotentemente dell'attentato di un kamikaze Isis a Istanbul che ha mietuto dieci vittime in visita alla città turca,fa da contraltare mediatico al silenzio che invece è stato dedicato all'assassinio di tre attiviste politiche e sociali curde avvenute nei giorni scorsi.
Si tratta di una rappresentante del Partito Democratico delle Regioni,Sevê Demir,della copresidente del Consiglio del Popolo Pakize Nayır e della militante dell'organizzazione delle Donne Libere Fatma Uya.
Ovvio l'interesse di Erdogan a tacere sui misfatti del suo esecutivo e dell'esercito che sanno compiendo un genocidio in Kurdistan e del proprio manipolo di uomini che stanno compiendo omicidi mirati di giornalisti,politici e simpatizzanti del popolo curdo.
Gli articoli di Senza Soste e di Contropiano entrambi a firma di Enrico Campofreda(http://contropiano.org/internazionale/item/34693-turchia-il-trionfo-della-morte )parlano dell'ormai conclamato doppiogiochismo turco che si traveste da difensore e paladino del mondo occidentale ma che nell'anima foraggia e sostiene il movimento Daesh.
Turchia, assassinate tre dirigenti curde.
Enrico Campofreda - tratto da http://www.contropiano.org
C’è modo e modo di assassinare a sangue freddo. I boia sauditi lo fanno con la spada, i compari-antagonisti che provano a superarne fondamentalismo e cinica ferocia usano coltellacci, poi c’è chi spara indiscriminatamente sui civili. L’ha fatto ancora l’Isis a Parigi, lo fa lo Stato turco da due mesi accanito contro le popolazioni kurde del sudest del Paese. Lo fa e se ne vanta per bocca del presidente Erdoğan, orgoglioso dei tremila e cento kurdi assassinati, che lui definisce terroristi, siano militanti del Pkk o semplici cittadini, compresi tredicenni o donne ultra ottuagenarie.
La furia repressiva del presidente alleato, di cui s’occupa e che preoccupa la Casa Bianca, imbarazzata di fronte ai recenti farneticanti paralleli con Hitler, ha stroncato le vite di altre tre attiviste: Sevê Demir, Pakize Nayır, Fatma Uya, impegnate in vari ruoli.
Sevê aveva conosciuto le carceri di regime dov’era stata rinchiusa dal 2009 per cinque anni. Era quindi diventata rappresentante del Partito Democratico delle Regioni nell’area di Mardin e Şırnak. Pakize era copresidente del Consiglio del Popolo a Silopi, Fatma militava nell’organizzazione delle Donne Libere. Bastava questo per considerarle pericolose terroriste, secondo la crescente paranoia razzista che il presidente turco teorizza ormai apertamente.
Così in uno dei centri assediati da un mese assieme a Cizre e Sur - Silopi - la polizia ha compiuto il 4 e 5 gennaio nuovi raid e arrestato 57 persone, fra cui alcuni odiati giornalisti. Nei conflitti a fuoco unilaterali, visto che sparavano solo agenti e cecchini dell’esercito turco, le tre donne sono state colpite mortalmente assieme a un giovane. Tutto ciò non è casuale visto che l’establishment turco ha sdoganato l’esecuzione a sangue freddo e garantisce l’assoluta copertura ai propri apparati della forza che colpiscono nel mucchio i cittadini della comunità kurda e praticano una meticolosa eliminazione di attivisti più o meno noti.
La logica e l’effetto sono quelli d’una pulizia etnica perpetrata nel silenzio assoluto delle leadership internazionali. Le autopsie compiute sui cadaveri delle tre donne e su quello del giovane uomo hanno rilevato danni abnormi tanto da ipotizzare un vero e proprio tiro al bersaglio. Le salme risultano crivellate di pallottole, undici quelle che hanno stroncato la Demir con armi di diverso calibro che scavavano fori da 5x3 cm e da 2x1. Il referto medico, purtroppo macabro, parla di scatole craniche aperte in due; ciò lascia il dubbio sul tipo di armi usate e può far pensare a esecuzioni praticate con micro cariche esplosive. L’uomo ucciso è massacrato di colpi tanto che il riconoscimento non è stato ancora possibile. Crescono l’orrore e la rabbia nella comunità interna e i kurdi presenti in altre nazioni; manifestazioni e proteste ci sono finora state in Germania, Francia, Austria e Sizzera.
C’è modo e modo di assassinare a sangue freddo. I boia sauditi lo fanno con la spada, i compari-antagonisti che provano a superarne fondamentalismo e cinica ferocia usano coltellacci, poi c’è chi spara indiscriminatamente sui civili. L’ha fatto ancora l’Isis a Parigi, lo fa lo Stato turco da due mesi accanito contro le popolazioni kurde del sudest del Paese. Lo fa e se ne vanta per bocca del presidente Erdoğan, orgoglioso dei tremila e cento kurdi assassinati, che lui definisce terroristi, siano militanti del Pkk o semplici cittadini, compresi tredicenni o donne ultra ottuagenarie.
La furia repressiva del presidente alleato, di cui s’occupa e che preoccupa la Casa Bianca, imbarazzata di fronte ai recenti farneticanti paralleli con Hitler, ha stroncato le vite di altre tre attiviste: Sevê Demir, Pakize Nayır, Fatma Uya, impegnate in vari ruoli.
Sevê aveva conosciuto le carceri di regime dov’era stata rinchiusa dal 2009 per cinque anni. Era quindi diventata rappresentante del Partito Democratico delle Regioni nell’area di Mardin e Şırnak. Pakize era copresidente del Consiglio del Popolo a Silopi, Fatma militava nell’organizzazione delle Donne Libere. Bastava questo per considerarle pericolose terroriste, secondo la crescente paranoia razzista che il presidente turco teorizza ormai apertamente.
Così in uno dei centri assediati da un mese assieme a Cizre e Sur - Silopi - la polizia ha compiuto il 4 e 5 gennaio nuovi raid e arrestato 57 persone, fra cui alcuni odiati giornalisti. Nei conflitti a fuoco unilaterali, visto che sparavano solo agenti e cecchini dell’esercito turco, le tre donne sono state colpite mortalmente assieme a un giovane. Tutto ciò non è casuale visto che l’establishment turco ha sdoganato l’esecuzione a sangue freddo e garantisce l’assoluta copertura ai propri apparati della forza che colpiscono nel mucchio i cittadini della comunità kurda e praticano una meticolosa eliminazione di attivisti più o meno noti.
La logica e l’effetto sono quelli d’una pulizia etnica perpetrata nel silenzio assoluto delle leadership internazionali. Le autopsie compiute sui cadaveri delle tre donne e su quello del giovane uomo hanno rilevato danni abnormi tanto da ipotizzare un vero e proprio tiro al bersaglio. Le salme risultano crivellate di pallottole, undici quelle che hanno stroncato la Demir con armi di diverso calibro che scavavano fori da 5x3 cm e da 2x1. Il referto medico, purtroppo macabro, parla di scatole craniche aperte in due; ciò lascia il dubbio sul tipo di armi usate e può far pensare a esecuzioni praticate con micro cariche esplosive. L’uomo ucciso è massacrato di colpi tanto che il riconoscimento non è stato ancora possibile. Crescono l’orrore e la rabbia nella comunità interna e i kurdi presenti in altre nazioni; manifestazioni e proteste ci sono finora state in Germania, Francia, Austria e Sizzera.
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Turchia, il trionfo della morte.
In quel trionfo della morte che è diventata la Turchia odierna, dove anche un luogo della Storia come Sultanahmet resta deserto, non solo per l’ennesima strage del Daesh ma per il divieto assoluto partito direttamente dal presidente Erdoğan di far circolare chiunque non vesta una divisa, in un Paese diviso in due: sudditi e terroristi (quest’ultimi distinti in kamikaze reali e bombaroli presunti) tutto diventa difficile. Ancora soltanto tre anni fa cento e uno erano le opportunità che lo Stato Turco si dava, pur dovendo fare i conti con la vanagloria del nuovo Atatürk che ha fatto di tutto per far sognare la patria e intossicarla, insieme al suo partito, alla gente che lo sostiene e ancora lo vota e anche a se stesso. L’attuale spettralità del luogo incantato sul Bosforo, dove Nabil Fadli ha fatto vibrare una cintura esplosiva che pareva un arsenale, è dovuta a ovvie ragioni di sicurezza. Ma la stampa locale rimasta ancora libera, diversamente da 32 colleghi giacenti in prigione, e occupata di fronte a circa ottocento dismissioni dal lavoro spesso forzate, parla di oscuramento delle immagini e soffocamento delle voci. Dopo le prime rapide zoomate su cupole e minareti guardati a vista dagli agenti, nessuna telecamera è stata ammessa in loco.
E’ la smania di blocco e controllo dell’informazione che il rabbioso presidente agita da tempo nelle vicende interne, mentre cerca microfoni e vetrine sul fronte internazionale. Su entrambi i terreni trova ostacoli, in casa per la criminalizzazione praticata verso chiunque s’azzardi a criticare il suo progetto autoritario, mentre gli errori e l’ambiguità di politica estera diventano boomerang, come mostra la pericolosa prossimità verso un jihadismo di confine tollerato e in taluni casi aiutato. Nella baraorda che ormai ne caratterizza le gesta sono seguite mosse non di armi fornite (tutti ricordano lo scoop di Cumhurriyet sulle munizioni fatte transitare verso la Siria nelle casse di medicinali) bensì usate: contro un caccia russo e ultimamente anche contro i miliziani dell’Isis. Un passo che ha irritato l’altro megalomane che infiamma il Medio Oriente, Al Baghdadi, capace di vomitare esplosivo su uno dei maggiori business turchi: il turismo. La via è simile alla tattica della ‘terra bruciata’ praticata nei resort del Mar Rosso, sebbene a Istanbul schizzi esponenzialmente, visti i milioni di turisti che transitano solamente nella Moschea Blu e che da oggi potrebbero disertare quella e le altre bellezze anatoliche. Dopo Parigi e Tunisi questa guerra si combatte ovunque; in Occidente e Oriente, ogni perla del passato può diventare un bersaglio, Palmira insegna.
Non è Erdoğan lo statista capace di sciogliere nodi intricati. Lui ne crea, sempre di più complicati e scorsoi. Se le esplosioni di Diyarbakır (4 morti a giugno), Şuruc (33 vittime a luglio), Ankara (103 martirizzati a ottobre) potevano esalare tanfo di Intelligence, per l’uso funzionale al progetto securitario, settario e anti opposizione messo in atto dal partito islamico, cosa che vale per l’omicidio dell’avvocato attivista Elçi a novembre, l’attentato di ieri segue logiche che il Califfo sperimenta in tutta l’ampia fascia di Maghreb e Mashreq. Lì da due anni conduce attacchi con esplosioni, fucilazioni, decapitazioni, crocefissioni. Ora tocca alla terra del sultano doppiogiochista con velleità di uomo-stato. Nella bolgia Erdoğan c’era già entrato di sua volontà trascinando l’intera nazione in un conflitto fra simili, rompendo la pacificazione in corso con la comunità kurda, sbattendo in faccia a Öcalan gli sforzi per il superamento di contrapposizioni ed esclusioni. Ne è nata la guerra civile in corso dalla scorsa estate, coi tremila e cento kurdi assassinati nelle strade di cui il presidente si vanta. Finora sono costati alla Turchia oltre duecento militari, morti anch’essi e un orizzonte fosco, segnato dall’esecuzione di civili, visto che della tragica lista circa cinquecento sono caduti con un kalashnikov in mano. Gli altri sono uomini, anche vecchi, sono donne e ragazzi. I più recenti a Van, altre dieci vite spezzate nella spirale che accompagna la Turchia oscurata da questo cupio dissolvi cercato e subìto.
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