mercoledì 23 maggio 2018
LA "TRAGICA FATALITA' " DELL'INFORTUNIO MORTALE
In un periodo dove i notiziari parlano soprattutto della politica italiana che sta per vedere nascere un nuovo esecutivo,non dobbiamo credere che le morti sul lavoro siano miracolosamente cessate,è solo che rimangono ai margini delle cronache che per riempire gli spazi utilizzano fatti di cronaca nera che fanno più parlare e spettegolare.
L'articolo preso da Infoaut(precariato-sociale )parla di come le cifre esposte si possano commentare da sole,con infortuni mortali che colpiscono le fasce più elevate di chi lavora e dovrebbe essere prossimo alla pensione o che dovrebbe esserlo già,di come si mascherino con l'aumento dei giorni di malattia gli infortuni meno gravi che per timore di licenziamenti non vanno catalogati nella giusta casistica.
I lavoratori stranieri poi da sempre,se non lavorano in nero e non per colpa loro ma per gli affari di imprenditori ed artigiani senza scrupoli,anche se regolari e con contratti legali,tendono a non denunciare lo stato lavorativo di sfruttamento e gli infortuni che ne derivano.
Con l'andazzo di una pensione sempre più in là col tempo dovremmo aspettarci sempre più morti ed infortuni visto che le condizioni fisiche e psichiche dei lavoratori diminuiscono col passare dell'età non avendo più né la capacità fisica né i riflessi di quando si era giovani o comunque idonei per le mansioni loro proposte.
Morire di lavoro, i numeri e le cause di una strage.
Padova, ore 7.50 di domenica 13 aprile 2018, a causa del cedimento strutturale del gancio di un carroponte un enorme siviera (contenitore) crolla a terra, con il suo carico di acciaio fuso.
Quattro operai: Marian Bratu e Sergio Todita delle Acciaierie e due lavoratori della ditta in appalto Hayama Tech, Simone Vivian e Davide Natale, vengono investiti in pieno dalla colata, 3 di loro lottano ora tra la vita e la morte, mentre il quarto è ricoverato all' ospedale S.Antonio con ustioni sul 70% del corpo.
1350 morti nel 2017, 255 da gennaio 2018 sono i numeri dei decessi sui luoghi di lavoro nel nostro paese, nonostante il gran ciarlare di “industria 4.0” o “gig economy” di produzione si continua a crepare e i diritti dei lavoratori sono diventati argomenti obsoleti, sono un ostacolo per le imprese, le società, le multinazionali.
Prima di tutto è fondamentale ribadire che, sebbene le cronache parlino di “tragiche fatalità”, le responsabilità di questa catena, ininterrotta, di morti sono politiche e padronali. Politiche perché a determinare il peggioramento delle condizioni di lavoro, è, in primis, la ricattabilità favorita dall'abolizione dell' Articolo 18 che ha dato piena libertà di licenziamento alle aziende obbligando i lavoratori ad accettare condizioni al limite della sopportazione fisica, come nel caso delle Acciaierie Venete, dove la produzione avviene a ciclo continuo 7 giorni su 7, 24 ore su 24.
Padronali perché dovute anche alla scarsissima applicazione delle norme antinfortunistiche, all’assenza di consapevolezza dei rischi dei lavoratori, a causa di una mancata attività di prevenzione da parte dei “datori di lavoro”, della superficialità degli addetti ai controlli (o alla loro completa inesistenza), senza contare le ritorsioni padronali contro chi denuncia la scarsa sicurezza in fabbrica, come avvenuto alla fonderia SACAL, di Carisio (Vercelli), dove un lavoratore è stato licenziato a causa della sua attività sindacale in relazione ad alcune dichiarazioni rilasciate alla stampa proprio sul versante della prevenzione infortunistica a seguito di un grave incidente avvenuto all’interno della azienda.
A tutto questo si deve aggiungere l'aumento dell'età pensionabile. Salute malferma, acciacchi, male alle gambe e alle braccia, riflessi poco pronti in un'età avanzata, sono alla base dei 104 incidenti mortali avvenuti nel 2017 nel settore edile dove si conta il maggior numero di lavoratori in età avanzata (dai 55 a oltre i 64 anni) , come riportato dai dati dell' INAIL per il 2017. Va ricordato infatti che tanti di coloro che, con la crisi, hanno perduto il lavoro e non sono riusciti a trovarne un altro, rimanendo senza stipendio o pensione, sono costretti ora a svolgere anche le mansioni più pericolose.
Ma facciamo attenzione, perché non tutti i morti sul (di) lavoro “fanno notizia”, se infatti osserviamo bene i dati statistici relativi ai casi di infortuni mortali divisi per nazionalità possiamo vedere come fra i lavoratori stranieri i casi di infortunio mortale siano molto più bassi rispetto ai lavoratori italiani. Ciò è dovuto alla condizione di totale invisibilità di questi lavoratori impiegati senza regolarizzazione, in particolar modo nel settore agricolo e quello edile, alla totale mancanza di una copertura assicurativa e alle mancate denunce di infortunio da parte delle aziende che li sfruttano. Gli immigrati sono vittime due volte della mancanza di sicurezza sul lavoro: non solo perché si infortunano il 50% in più degli altri lavoratori, ma anche perché spesso non possono denunciare l'incidente, pena la perdita del posto di lavoro. Se osserviamo i dati fino a ora esposti possiamo notare che gli infortuni mortali avvengono tra le fasce più “tutelate”: lavoratori italiani tra i 40 e i 59 anni.
O i giovani e gli stranieri sono molto più “attenti” oppure, più semplicemente, non sono nelle condizioni di poter denunciare gli infortuni, dato significativo, in questo campo, è quello legato alle ore di permesso per malattia, cresciute dell’11% proprio tra i lavoratori immigrati e quelli italiani al di sotto dei 40 anni Si tratta di un elemento che è la spia di un sistema diffuso per tacitare infortuni e incidenti: il “datore di lavoro” fa un accordo con il suo dipendente infortunato chiedendogli, magari in cambio di qualche soldo in più fuori busta, di non denunciare l’infortunio ma di mettersi in malattia. Così si evitano problemi. E forse si spiegano anche in questo modo le cifre minime tra i lavoratori stranieri, e “under 40” e molti dei decessi “postumi” che avvengono in ospedale o al pronto-soccorso.
Per concludere bisogna aggiungere la completa inutilità dell' INL, l'Ispettorato Nazionale del Lavoro, istituito dal Jobs Act (D.Lgs. n. 141/2015) nato per accentrare le funzioni ispettive, già in parte riformate nel 2004, è ancora oggi in “fase di assestamento” per ciò che riguarda l’operatività dell’attività di vigilanza degli ispettori territoriali. Le mancanze principali del sistema della vigilanza in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro non sono solo dovute a controlli irrisori, affidati a personale numericamente esiguo ma anche a ritardi nell'applicazione della normativa, molto spesso per una convivenza difficile tra le istituzioni affidatarie della materia, oltre a un apparato di contrasto inadeguato all'entità del fenomeno.
Il “Patto Stato Regioni” in merito, ha fissato al 5% la soglia minima delle aziende da ispezionare. Tale obiettivo è stato raggiunto soltanto in 14 regioni, con una percentuale media dell'intero Paese che si attesta al 6,6%. Tale sproporzione diventa ancora più evidente in determinati settori: la percentuale di aziende agricole ispezionate, ad esempio, è di appena lo 0,37%, con la punta massima in Lombardia del 2,67%.
Ma non sono solo i lavoratori e le lavoratrici a pagare caro il prezzo della “ripresa”, a essere sempre più spesso vittime di infortuni, vi sono anche gli studenti che svolgono “l'alternanza scuola lavoro”, ossia lo sfruttamento di manodopera gratuita stabilito dalla “buona scuola”. Il 6 ottobre del 2017 un altro studente è rimasto gravemente ferito dopo essere stato schiacciato da un carrello elevatore in un azienda di motori nautici a La Spezia. Il 9 maggio uno studente di 16 anni è rimasto gravemente menomato perdendo l'uso di una mano durante uno “stage” presso un azienda di produzione di serramenti in alluminio (!) di Udine,.
Una delle questioni più spinose di questa vergogna che si chiama alternanza Scuola-Lavoro riguarda la normativa in caso di infortunio o malattia professionale degli studenti impegnati nelle attività.
Secondo la circolare INAIL N°44 del 21 novembre 2016, il datore di lavoro, che nel caso specifico è il dirigente scolastico, deve assicurare che ciascun lavoratore (e dunque ciascun alunno in alternanza) “riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, con particolare riferimento a: concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza.”. Peccato che molti dirigenti scolastici sottovalutino la problematica relativa alla sicurezza sul lavoro, pensando che l’alternanza si configuri come una semplice attività didattica, come si è avuto modo di vedere nei due casi esposti prima, dove ragazzini inesperti erano alle prese con carrelli elevatori e frese per alluminio ignari (e non per colpa loro) dei rischi che correvano in quanto non avevano fatto i corsi relativi alla sicurezza necessari alla loro mansione. Quello che viene spacciato come “strumento di didattica alternativa” non è altro che mero sfruttamento le cui conseguenze le iniziano a pagare, sulla loro pelle, gli studenti negli stessi identici termini di noi lavoratori.
Le cifre, spaventose, elencate fino a ora ci devono far capire che è fondamentale essere uniti e mobilitarsi per contrastare quella che è una vera e propria guerra fatta contro la nostra classe sociale.
Alla base della ricchezza prodotta, e che finisce tutta nelle tasche dei padroni, vi è il sangue e la vita di migliaia di lavoratori e lavoratrici.
Un operaio metalmeccanico
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