Mente se nel primo articolo si parla soprattutto del recupero dell'area fisica della fiera che è durata sei mesi e che ha avuto più di ventun milioni di biglietti venduti,il secondo offre spunti più sulla politica e sul sociale che sul futuro di aree come quella del parco agricolo sud di Milano.
E'un dato di fatto che lo slogan principe dell'Expo "nutrire il pianeta" abbia cozzato materialmente e concettualmente con elementi e sponsor che hanno contribuito a far andare avanti il carrozzone della kermesse,e che questa nella memoria enei ricordi di chi vi sia recato sia stato l'Expo delle code,ma per una questione di estrema fiducia diamo ancora qualche mese per capire se veramente possa essere servito a qualcosa di concreto per evitare problemi globali legati all'approvvigionamento di cibo.
Questo evento la cui costruzione materiale minima è terminata la mattina stessa e alcuni padiglioni terminati mesi dopo l'inaugurazione ufficiale,è stato comunque un luogo dove i prezzi di tutto quello messo in vendita,da gadgets alla ristorazione,sono lievitati all'inverosimile obbligando singoli visitatori ma soprattutto famiglie ad un vero e proprio salasso.
Per non parlare degli arresti avvenuti prima durante e penso e temo anche dopo i sei mesi di Expo,il trattamento riservato ai volontari e alle persone (mal)pagate che hanno prestato opera a Milano e al fatto che ora questo modello sarà esportato a Roma per il giubileo;con tutti i suoi protagonisti di primo piano.
Concludo dicendo che nonostante la vicinanza a Milano non ho visitato Expo e che per le considerazioni fatte sopra mi sono affidato ai resoconti di amici e conoscenti oltre agli organi d'informazione sia quelli tradizionali che quelli,soprattutto,on line.
Vedere anche qualcosa scritto prima dell'inaugurazione può essere utile:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2015/04/le-multinazionali-della-malnutrizione.html .
EXPO E’ FINITO…IN TUTTI I SENSI! Considerazioni su Expo e su un percorso verso la Sovranità Alimentare come autentico e necessario “dopo Expo”
di Vincenzo Vasciaveo
…Ma com’è andato EXPO?
La grande kermesse è ormai finalmente alle spalle e il Commissario Unico, i potentati dell’agrobusiness e i governanti ai vari livelli istituzionali ci stanno inondando di dichiarazioni ultrapositive sul suo andamento e sui suoi effetti indotti.
Peccato che i parametri utilizzati per le proliferanti ridondanti valutazioni poco o nulla abbiano a che fare con le finalità che il “grande evento” avrebbe dovuto prefiggersi: come fare a Nutrire il Pianeta in epoca di fame e di malnutrizione( tutt’altro che sconfitte), e quali strategie e percorsi immediati e concreti adottare di conseguenza, globalmente e localmente. Varrebbero invece i dati sull’affluenza (tutti da esaminare in termini di entrate economiche a consuntivo) con le sue le code (trasformando le disfunzioni organizzative -volute?- in testimonianza di successo), l’estetica delle “mostre” sull’alimentazione nei diversi Paesi ospitati (trasformando il “come nutrire” in “di cosa attualmente si nutre” il pianeta), le caratteristiche dei padiglioni (in gran parte utilizzati per promuovere turismo neanche troppo responsabile), le ricadute economiche sul territorio e sul Paese (con valutazioni a dir poco contrastanti tra gli operatori economici). Gli scarsi contenuti che hanno avuto a che vedere coll’obiettivo, a partire dalla Carta di Milano, evitano accuratamente di evidenziare le cause vere dei problemi alimentari e della fame (salvo pochissime quanto lodevoli eccezioni, per lo più oscurate mediaticamente). Le motivazioni e le vie d’uscita del problema si sono focalizzate quasi esclusivamente sullo spreco alimentare, come se le eccedenze nel Nord del mondo non fossero causate dalla sovrapproduzione e quindi dal modello agricolo proposto dall’agrobusiness basato sull’agricoltura industriale e dal cibo in quanto merce e come se la sottoalimentazione al sud del mondo non fosse causata dalle difficoltà di accesso al cibo (non dalla quantità prodotta, di per sé più che sufficiente a sfamare il pianeta), dal land grabbing, dalla speculazione finanziaria. In altri termini Expo’ si è ben guardato dall’accedere al concetto e alla pratica di Sovranità Alimentare che, come sostenuto ormai da metà anni ’90 dal Movimento contadino mondiale Via Campesina, è l’unica necessità/soluzione per Nutrire il Pianeta: il diritto dei popoli a definire le proprie politiche agricole e alimentari e a produrre il proprio cibo sul proprio territorio, basandosi sull’agroecologia e sulla biodiversità. Quindi non è ideologico asserire che Expo’ è stato un vero e proprio FLOP, visto che quando (poco) ha proposto contenuti, non ha fatto altro che sostanzialmente ribadire il modello agroalimentare vigente, causa vera della sottonutrizione e della malnutrizione globali.
….Ma quale “dopo Expo”?…Ma com’è andato EXPO?
La grande kermesse è ormai finalmente alle spalle e il Commissario Unico, i potentati dell’agrobusiness e i governanti ai vari livelli istituzionali ci stanno inondando di dichiarazioni ultrapositive sul suo andamento e sui suoi effetti indotti.
Peccato che i parametri utilizzati per le proliferanti ridondanti valutazioni poco o nulla abbiano a che fare con le finalità che il “grande evento” avrebbe dovuto prefiggersi: come fare a Nutrire il Pianeta in epoca di fame e di malnutrizione( tutt’altro che sconfitte), e quali strategie e percorsi immediati e concreti adottare di conseguenza, globalmente e localmente. Varrebbero invece i dati sull’affluenza (tutti da esaminare in termini di entrate economiche a consuntivo) con le sue le code (trasformando le disfunzioni organizzative -volute?- in testimonianza di successo), l’estetica delle “mostre” sull’alimentazione nei diversi Paesi ospitati (trasformando il “come nutrire” in “di cosa attualmente si nutre” il pianeta), le caratteristiche dei padiglioni (in gran parte utilizzati per promuovere turismo neanche troppo responsabile), le ricadute economiche sul territorio e sul Paese (con valutazioni a dir poco contrastanti tra gli operatori economici). Gli scarsi contenuti che hanno avuto a che vedere coll’obiettivo, a partire dalla Carta di Milano, evitano accuratamente di evidenziare le cause vere dei problemi alimentari e della fame (salvo pochissime quanto lodevoli eccezioni, per lo più oscurate mediaticamente). Le motivazioni e le vie d’uscita del problema si sono focalizzate quasi esclusivamente sullo spreco alimentare, come se le eccedenze nel Nord del mondo non fossero causate dalla sovrapproduzione e quindi dal modello agricolo proposto dall’agrobusiness basato sull’agricoltura industriale e dal cibo in quanto merce e come se la sottoalimentazione al sud del mondo non fosse causata dalle difficoltà di accesso al cibo (non dalla quantità prodotta, di per sé più che sufficiente a sfamare il pianeta), dal land grabbing, dalla speculazione finanziaria. In altri termini Expo’ si è ben guardato dall’accedere al concetto e alla pratica di Sovranità Alimentare che, come sostenuto ormai da metà anni ’90 dal Movimento contadino mondiale Via Campesina, è l’unica necessità/soluzione per Nutrire il Pianeta: il diritto dei popoli a definire le proprie politiche agricole e alimentari e a produrre il proprio cibo sul proprio territorio, basandosi sull’agroecologia e sulla biodiversità. Quindi non è ideologico asserire che Expo’ è stato un vero e proprio FLOP, visto che quando (poco) ha proposto contenuti, non ha fatto altro che sostanzialmente ribadire il modello agroalimentare vigente, causa vera della sottonutrizione e della malnutrizione globali.
Così come per l’evento, anche per il “dopo” si parla d’altro, e non poteva essere altrimenti, viste le premesse. Cosa fare del sito? Come recuperare il sovrainvestimento finanziario? Dove mettere le strutture?
Diventa pressochè impossibile discutere e progettare di politiche alimentari, locali, nazionali e globali, nel senso necessario: nutrire il pianeta.
Quindi il vero “dopo Expo”, relativizzando tutto il resto, dovrebbe essere incentrato su come costruiamo Sovranità alimentare, a Milano e nel mondo.
L’obiettivo della sovranità alimentare a livello globale deve necessariamente fare perno sul suo perseguimento a livello locale.
Questo non solo per una questione di coerenza complessiva, ma per definizione.
La Sovranità Alimentare, infatti, è praticabile solo se, progressivamente, diventa patrimonio dei popoli ed è attuata dappertutto localmente, limitando (non eliminando) di conseguenza l’import/export (vedi Vandana Shiva con Navdanya), per realizzare innanzitutto la sicurezza alimentare dei popoli stessi.
A Milano abbiamo una risorsa grandiosa su cui fare perno: il Parco Agricolo Sud, che non risulta Expo abbia prioritariamente considerato come caposaldo di una strategia “glocale” di politica agroalimentare!
Invece è su questo piano che occorrerebbe agire localmente, con una visione globale, promuovendo filiere agroalimentari dalla produzione al consumo, capaci di costruire concretamente nel Parco Sud (il più grande parco agricolo d’Europa) una agrobiodiversità, che deve necessariamente stare alla base di qualsiasi percorso di sovranità alimentare, e improntate alla sostenibilità sia ambientale che economica.
La Sovranità Alimentare in una nuova relazione tra città e Parco Sud
Per poter parlare di “nutrire Milano” in un processo tendenzialmente “sovrano” occorre trasformare il modello colturale prevalente attuale della campagna milanese (monocolture e allevamenti intensivi in gran parte di tre produzioni: riso, mais e latte) in diversificazione delle coltivazioni (agrobiodiversità), modificando il modello stesso in direzione della sostenibilità (ambientale ed economica) e basato sull’agricoltura contadina e sull’agroecologia. In sostanza va considerato un ulteriore livello per costruire neoagricoltura, che non si limiti, ad esempio, ai mercati contadini, in quanto essi, specie se non sono frutto di una partecipazione dal basso come i Gas (esempio positivo è quello della rete gas di Rho), costituiscono una cosa utile, ma di per sé non sono una soluzione. Non dimentichiamo che i piccoli agricoltori difficilmente riescono a fare anche i commercianti, specialmente se vogliono conservare la loro identità contadina. Occorre darsi strumenti finalizzati a strutturare percorsi di filiera autorganizzata e promossa dal pubblico per fare uscire dalla nicchia e dalla episodicità il movimento del consumo critico e di una neoagricoltura, che non dà, di per sé, certezze ai contadini, ma ha bisogno di organizzazione, di concretezza, di continuità, di consapevolezza sulle prospettive di cambiamento di modello. Per filiera intendiamo, ottimalmente e a regime, una strutturazione della relazione tra i vari attori che compongono il processo, a partire dalla produzione in campo fino al consumo finale. Tale strutturazione è basata su “patti” (preferibilmente scritti in specifici protocolli) , anche sul modello delle Amap francesi (Association pour le Maintien de l’Agriculture Paysanne), delle CSA americane o inglesi (Community supported agriculture), delle comunità agricole tedesche fino a qualche virtuosa esperienza italiana, che impegnano i produttori, i trasformatori , i consumatori organizzati (in Gas o Gap o presenti in forme cooperative) nella produzione e nell’acquisto.
In questo modo si realizzano:
– certezze per il contadino basate sulla pianificazione in campo con drastica diminuzione o eliminazione pressochè totale degli sprechi
– certezze per il consumatore sul prodotto che ha ordinato, in qualità e quantità
– relazioni non solo commerciali (economia delle relazioni) basate su conoscenza diretta e fiducia
– costruzione di percorsi cooperativi tra produttori e tra produttori e consumatori, che vanno tendenzialmente a sostituire le connotazioni competitive del mercato tradizionale
– prezzi tendenzialmente codeterminati nel tavolo di filiera e per la filiera, sfuggendo al meccanismo della domanda e dell’offerta e della speculazione finanziaria
– governo dei costi eliminando la separatezza e la concorrenza tra attori di filiera tipiche del mercato
(oggi, fatto 100 il prezzo finale, 17 rimane alla produzione, 23 alla trasformazione, il 60 alla Grande Distribuzione – logistica, intermediazione e vendita), con ciò realizzando più reddito per la produzione e prezzi accessibili (sostenibilità economica)
– garanzia di modelli colturali e produzioni ecosostenibili (certificazione biologica di parte terza o sistemi di garanzia partecipata)
– sperimentazioni capaci di verificare le colture più adatte al territorio, lavorando alla reintroduzione di produzioni rese residuali dalla rivoluzione verde degli anni ’60
– partecipazione diretta dei cittadini, attraverso i Gas almeno, ai processi decisionali sulle produzioni alimentari e relativi modelli colturali
– a seconda dei settori produttivi si realizzano poi anche obiettivi più generali, quali la progressiva emancipazione dei contadini dalle industrie sementiere dell’agrobusiness
Ma, se accanto alla espansione quali/quantitativa di filiere agroalimentari ecosostenibili (che è in atto in forme autorganizzate nell’esperienza ormai quinquennale del Distretto di Economia solidale rurale del Parco Sud – DESR), si affiancassero da un lato la domanda pubblica diretta (ristorazione scuole, ospedali, ecc) e dall’altro la promozione di mercati di filiera (anche con funzione di logistica per il consumo organizzato), indirizzando in tal senso la necessaria riqualificazione dei mercati comunali, sicuramente le trasformazioni dei modelli colturali, ma anche economici, sarebbero alla portata, specie se vi comprendiamo le possibili azioni sul prezzo finale determinate anche dalla maggiore scala, purchè anch’essa sostenibile. Va anche perseguita la acquisizione di spazi agricoli demaniali da assegnare in comodato d’uso a giovani agricoltori per realizzare occupazione e sostegno ai disoccupati attraverso pratiche mutualistiche che li vedano destinatari di produzione agricola biologica del territorio a prezzi accessibili.
La necessaria trasformazione anche gestionale del Parco Sud
Ma per fare tutto ciò è necessario rivisitare radicalmente la gestione attuale del Parco Sud.
Il Prof. Francesco Vescovi, del Politecnico di Milano, autore di un’interessante ricerca/saggio pubblicata nel libro “Proposte per il Parco Agricolo Sud Milano – Criticità e risorse dell’agricoltura periurbana” sottolinea giustamente “ la mancanza di un’impostazione strategica e di una visione propositiva dell’organismo gestore, che….si limita quasi unicamente a perseguire una politica di difesa basata sull’applicazione dei vincoli di legge contenuti nel Piano territoriale di Coordinamento”. E propone che “Il Parco Sud dovrebbe….modificare parzialmente la propria natura e ampliare il proprio mandato: da semplice organismo di controllo normativo e di gestione dovrebbe trasformarsi in agenzia di promozione economica dell’agricoltura locale e di valorizzazione del territorio….”.
Essendo ancora in predicato l’attribuzione della sua gestione tra la Regione e, come invece auspicabile, la Città Metropolitana, va da sé che poi diventerà terreno di confronto ( e/o di conflitto) con l’interlocutore istituzionale la percorribilità di questa strada, unica capace di contrastare chi preme per la trasformazione progressiva dell’attuale destinazione agricola o per il devastante consumo di suolo anche attraverso inutili, dannose e costose opere infrastrutturali, come è stato per la TEEM e come adesso si vorrebbe per la Vigevano Malpensa. Tutto ciò in ottica di costruzione di percorsi di Sovranità alimentare attraverso la pratica locale dell’obiettivo globale e, quindi, di “un altro dopo Expo” in cui certo considerare il destino del sito o dei padiglioni e magari anche di ritorni economico-finanziari, purchè lo si faccia coerentemente con questa impostazione strategica.
Vincenzo Vasciaveo – Distretto rurale di Economia Solidale del Parco Agricolo Sud Milano
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Chi se la canta, chi se la suona e chi se la lotta. Expo non è finito.
Dicono che Expo sia finito. Senza contestazioni, a quanto pare. Tutta colpa di quei “riot che asfaltano il movimento”, commenta beffardo il «Corriere della sera», arrivando a citare «il manifesto» per riproporre un’analisi della giornata del primo maggio e persino immaginando di avere dalla sua chi la pensa così insieme alla Questura, che si è presa sei mesi di tempo per schedare, etichettare, analizzare e dio solo sa cos’altro. Ora si procederà agli arresti, informa il giornale padronale per eccellenza, ovviamente senza vergognarsi di mostrare il piacere che prova nel pensare all’eventualità di nuove persone in carcere.
I “buoni”, suggerisce l’articolo, scritto da qualcuno che dimostra di conoscerli bene, o persino di essere uno di loro, sarebbero stati talmente intimoriti dai “cattivi” da non riuscire più neppure ad avanzare una qualche critica, civile naturalmente, ad Expo, come invece le regole del gioco democratico vorrebbero. Un po’ come quando di tanto in tanto arrivano le elezioni e ci viene data l’opportunità di scegliere tra una Moratti e un Pisapia, e che non si venga a dire che alle nostre latitudini la mancanza di pluralismo rappresenti un problema!
Un Renzi, per esempio, è talmente convinto di un simile assunto che a passare per il vaglio elettorale non ci pensa neppure: perché perdere tempo se poi, come a Milano, gli unici che dimostrano di avere qualcosa da dire sono incompatibili come le vetrine che rompono e gli interessi di classe che incarnano?
Si prenda piuttosto esempio da Expo. E che i suoi uomini più efficienti, a partire dal prefetto Tronca, vadano a mettere ordine a Roma, dove, licenziato l’inutile sindaco Marino, al rispetto delle famose regole democratiche ci pensa il governo stesso, preferendo a qualunque forma di progettualità politica un controllo territoriale esercitato direttamente dalla polizia.
Certo, quella di Expo è stata una storia strana. Dal punto di vista della contestazione, infatti, non si è mai visto un problema che smette di esistere a causa della gestione di una singola giornata. Anche perché, se fosse così, non esisterebbe il problema, ma soltanto le persone che lo agitano, mentre pare che le questioni sociali funzionino nel modo esattamente opposto: è la loro esistenza a provocare agitazione, non il contrario. E qualcosa, nell’osservazione della realtà, sembra suggerire che il tema delle grandi opere e dei grandi eventi, simulacro della rapina perpetrata dagli sfruttatori ai danni degli sfruttati, esista eccome. Con buona pace di chi se la canta e se la suona, insomma, c’è anche chi se la lotta. E infatti, insieme a Tronca, quante centinaia di milioni hanno già mandato a Roma per consentire ai soliti noti di continuare a fare baldoria con l’imminente Giubileo?
Nello stesso lasso di tempo, invece, quante case popolari sono state assegnate? Quali garanzie per una scuola aperta a tutti e per una sanità efficiente e gratuita ottenute? E quali conquiste di diritti, dallo ius soli al reddito di cittadinanza (universale e incondizionato), sono state nel frattempo ascritte all’odierna civiltà del neoliberismo globale incarnato da Renzi e dalle sue giunte, arancioni o militari che siano?
Il silenzio di fronte a queste domande è imbarazzante come l’assenza dei “buoni” sullo scenario delle battaglie combattute ogni giorno in tutta Italia per la casa, il lavoro, la scuola, la sanità (altro che “assenza di contestazioni”, come scrive il «Corriere della sera»)… mentre chi di tutto questo è privo le vetrine in frantumi del primo maggio le ha ascoltate eccome. E ha sorriso. Mica è corso a piangere in Questura. L’istituzione repressiva per eccellenza, d’altro canto, era troppo indaffarata. Ora deve persino accollarsi di tirare avanti la baracca del Giubileo. E allora, senza neppure considerare la sorte delle tonnellate di metri cubi di cemento in procinto di essere abbandonate o regalate a qualche speculatore a Milano, si può dire che i nomi siano cambiati, ma come si fa a pensare che Expo sia finito?
da paroleamanoarmati
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