lunedì 28 agosto 2017

GUERRA TRA I POVERI SUL LAVORO FESTIVO


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Ogni tanto sui social,per strada e al lavoro si parla anche a sproposito del lavoro domenicale e dei vari tipi di lavoratori che esercitano la loro professione anche durante i giorni festivi.
Nei due articoli presi da Contropiano(le-domeniche-dei-commessi )e da Senza Soste(festa-selvaggia )due esempi di come sia stata creata ad arte questa guerra tra poveri e le differenti categorie lavorative con stipendi e reperibilità,con differenze geografiche e con le richieste che tutti hanno il diritto di poter fare ed avere.
Del dire che al giorno d'oggi è già tanto avere un lavoro e che lavorare la domenica è un privilegio visto che c'è chi un'occupazione non l'ha(una delle più grandi cagate che si possano sentire)a sentirsi dire che infermieri,divise varie e altri lo fanno sempre(con adeguate retribuzioni),è ovvio che ci siano dei casi nei quali la turnazione dev'essere 24 ore al giorno e per tutto l'anno.
Ma andare al centro commerciale sempre è comunque è un vizio che gli italiani hanno preso e che non vogliono smettere di abusarne.

Le domeniche dei commessi: altro che medici, infermieri, poliziotti…

di  Francesco Iacovone
Mentre i commessi dei centri commerciali, dei supermercati di prossimità e dei negozi del centro delle nostre città si ribellano al lavoro domenicale e festivo, i benpensanti rispondono in coro: “E i medici? Gli infermieri? I poliziotti? I vigili del fuoco? I ristoratori?

Beh, questo piccolo ma significativo episodio accadutomi in vacanza mi ha fatto riflettere, a lungo. E mi ha convinto a rispondere a Lorsignori:


Il supermercato è bello, di quelli un po’ chic. I commessi hanno divise eleganti e l’architettura è avveniristica. Fuori fa caldo, entro e prendo una bibita fresca. Alla cassa non c’è nessuno. Qualche secondo e una giovane ragazza corre verso di me, sorridente e con uno straccio in mano: “Mi scusi tanto, facevo le pulizie. Se non approfitto ora poi la gente sale dal mare ed è l’inferno”. Io di rimando sorrido, le chiedo qual è il suo turno mentre mi batte la spesa e lei, sempre con quel bel sorriso campano al centro di un viso paffuto e solare: “Ho appena attaccato e stacco a mezzanotte”. A mezzanotte? Dalle 14.00 a mezzanotte? Con quel sorriso di ordinanza dovrai resistere fino a mezzanotte? E domani? Domani si ricomincia, senza regole né pietà. Senza domeniche né festivi. Insomma, vite appese a contratti stagionali e precari. Vita senza orari ma guai a fare tardi. Ogni giorno, ogni turno, ogni pausa (quando c’è)…

Eccole le condizioni di chi si guadagna da vivere come addetto del commercio. Condizioni che non sono affatto paragonabili a chi svolge le professioni ripetute come un mantra da chi vorrebbe rendere normale ciò che normale non è. Da chi vorrebbe porre sullo stesso piano mestieri tanto diversi.

Il tentativo è quello di equiparare un servizio pubblico essenziale con la vendita di beni e servizi spesso superflui. Appare abbastanza scontato che un medico ed un infermiere salvano vite e lo debbono fare tutti i giorni della settimana. Anche le forze di polizia devono garantire la nostra sicurezza tutti i giorni della settimana e gli incendi di certo non vanno in vacanza.

Ma vediamo quali sono le differenze sostanziali che ci rendono chiaro il perché di un paragone che non regge, affatto. Intanto le retribuzioni: il medico ospedaliero, una volta che è stata conseguita la specializzazione, riceve un salario variabile tra i 1900 e i 2900 euro su base mensile. A fare la differenza all’interno di questa ampia forbice contribuiscono l’anzianità, gli straordinari, la reperibilità e i turni festivi. Il primario, che è il grado più alto che si può raggiungere all’interno di un reparto, può arrivare a guadagnare anche 4.500 euro netti al mese. Ma il medico di base (quello che riposa domeniche e festivi) è quello che guadagna di più: anche 5.000 euro al mese. Non parliamo poi degli specialisti privati e dei chirurghi, che guadagnano cifre da capogiro.

Un infermiere, invece, con turni e straordinari, che molto spesso sono obbligatori, guadagna intorno ai 1.600 euro mensili. E un poliziotto, aggiungendo straordinari, turni di notte o indennità per i servizi di ordine pubblico svolti fuori sede, raggiunge i 1600 euro circa. In ultimo, i vigili del fuoco sono quelli che guadagnano meno, intorno ai 1.300 euro mensili. Sia ben chiaro, a mio avviso gli stipendi di questi dipendenti pubblici sono bassi, soprattutto in relazione a quello che fanno e ai rischi che corrono, ma non sono paragonabili a quello della cassiera che ho menzionato prima.

Per non parlare degli orari: mentre per i commessi regna il far west e le pressioni e le illegalità sono all’ordine del giorno, le altre categorie hanno delle garanzie che consentono la pianificazione della vita sociale e familiare. Inoltre, troppo spesso, un lavoratore del commercio percepisce uno stipendio part time per un lavoro full time o addirittura lavora in nero.

E veniamo alla ristorazione, che incentra i propri guadagni proprio sulle domeniche e sui festivi. Appare evidente che chi approccia a quel mestiere ne è consapevole e compie una scelta chiara. I lavoratori del commercio no! Si sono ritrovati tra capo e collo il Decreto del Governo Monti che, dall’oggi al domani, ha violato il contratto stipulato in partenza, imponendo in corsa l’obbligo al lavoro domenicale, con buona pace finanche dei sindacati firmatari di quel contratto.

Insomma, la guerra tra poveri non serve a nessuno. Se un esercito di commessi protesta ha le sue buone ragioni, che non sono da contrapporre alle giuste ragioni di altre categorie di lavoratori. La realtà, quella vera, è che ci stanno impoverendo tutti. E per darci l’illusione del consumo, vorrebbero rinchiuderci tutti all’interno di un centro commerciale.

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Festa selvaggia: le aperture nei festivi e i 24h in Italia ed in Europa

Le consuete polemiche sulle aperture festive di centri commerciali ed ipermercati portano con sé la fotografia di un settore dove impera la competizione selvaggia dal 2012 (decreti Monti) ma dove gli effetti su ricavi, lavoro e fornitori delle aperture 24h e 7/7 non sono affatto positivi. Dagli altri paesi europei fino alla nostra città il quadro appare chiaro e necessita di un cambiamento

Con l’arrivo della primavera e delle festività di Pasqua, Pasquetta, 25 aprile e 1 maggio si riapre ogni anno il dibattito sulle aperture festive di supermercati e ipermercati. Ma col passare degli anni, al di là di polemiche ed interessi divergenti fra quei soggetti chiamati imprese, lavoratori e consumatori, esistono dati e analisi che mettono dei paletti fissi su cui costruire un ragionamento? Sì. C’è un primo dato oggettivo: la grande distribuzione organizzata (Gdo), da quando il settore è stato liberalizzato, non sta aumentando la produttività tanto che il 2016 si è chiuso con un calo dello 0,6% in termini di consumi. Lo ha detto Marco Moretti, presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, sul Sole24Ore dello scorso 13 aprile dove ha fatto anche un quadro quantitativo del settore Centri Commerciali: 360mila dipendenti diretti, 35mila negozi, 51 miliardi di fatturato e 1,8 miliardi di visitatori ogni anno.

La liberalizzazione del 2012 e l’Europa. Oggi in Italia un negozio può restare aperto quanto e quando vuole, senza limiti legati ai prodotti venduti come avviene invece in altri paesi europei. Questa possibilità è stata introdotta dal decreto “Salva Italia” promosso dal governo di Mario Monti alla fine del 2011 ed entrato in vigore nel 2012, permettendo a negozi e supermercati di restare aperti 24 ore al giorno e tutti i giorni della settimana, domenica compresa, pagando i lavoratori quanto previsto dalla legge per il lavoro notturno e festivo (di solito il 30% in più della paga ordinaria). E nel resto d’Europa? A differenza di ciò che dicono i sostenitori del consumo h24, negli altri paesi europei, seppur la tendenza sia quella a limitare il meno possibile le aperture nei festivi (come da Raccomandazione del giugno 2014 del Consiglio dell’Unione Europea che chiede l’apertura del mercato e la rimozione dei vincoli), ci sono norme più stringenti. Intanto vediamo la normativa Ue: l’unico vincolo, contenuto nella direttiva europea sull’orario di lavoro (2003/88/EC), è quello di concedere al dipendente un giorno di riposo dopo sei di impiego, che però non necessariamente deve cadere in un festivo. In Germania sono i Land che decidono il numero di giorni di apertura nei festivi. Ci sono però deroghe in cui è possibile l’apertura illimitata specialmente in zone turistiche e nella zona di Berlino vicino a stazioni e centri. In Francia non è permessa l’apertura nei festivi ma ci sono molte deroghe per aree metropolitane e posti turistici. Sicuramente però l’apertura nei festivi non può essere sistematica ed automatica, infatti Ikea nel 2008 ha preso quasi mezzo milione di euro di multa dal governo. In Gran Bretagna dal 1994 è consentita l’apertura domenicale ai negozi di più di 280 metri quadrati mentre per i festivi come Pasqua e Natale i vincoli sono più serrati anche se sottoposti a possibili deroghe. In Spagna invece vige il limite di una domenica al mese, eccetto a dicembre, ma come negli altri paesi ci sono molte deroghe a seconda delle località. Insomma in Europa la tendenza è simile alla nostra ma la normativa più stringente e lascia in mano all’autorità pubblica il potere regolatorio. Intanto giace da 3 anni in Parlamento una legge promossa dai 5 Stelle che propone la limitazione all’apertura di 6 festivi su 12 ogni anno.

Il dibattito politico. Fatto questo quadro normativo possiamo passare al dibattito più propriamente politico ed economico. Dai dati che emergono una cosa è certa: l’apertura indiscriminata non aiuta né i consumi né il lavoro. Fino ad oggi ha promosso una competizione selvaggia mirata soprattutto all’eliminazione dell’avversario che però non ha aumentato i fatturati ma sottoposto a ulteriore pressione sia il management che i lavoratori, scontentando tutti. Senza considerare che la competizione sfrenata sta avendo effetti ancora più devastanti sui fornitori, a partire dai produttori agricoli ma allargandosi anche all’industria alimentare ormai in balìa delle strategie commerciali della grande distribuzione. Visto che i consumi interni non crescono per la crisi economica e per le  politiche di austerità, non rimane che grattare il fondo del barile del proprio competitore per sopravvivere rimanendo aperto più a lungo. Ma si tratta di una visione disperata che nella liberalizzazione selvaggia lascia feriti sul campo. Basterebbe mettere regole uguali per tutti in modo tale da razionalizzare la competizione evitando comportamenti irrazionali. L’ultimo esempio è stato Carrefour che  ha provato con le aperture notturne a frenare l’emorragia delle perdite ma alla fine ha dichiarato 500 esuberi pochi mesi fa. Prova del fatto che non sono le ore di apertura a fare la differenza nella competizione. Esiste poi una questione politica e culturale. Nonostante la loro vocazione dogmatica verso il liberismo, i partiti cattolici e la Chiesa chiedono per le domeniche e le festività, specialmente quelle religiose, limitazioni per poter santificare le feste e dedicarsi alla famiglia. A livello sindacale ed a sinistra invece si punta il dito sul diritto di avere giorni festivi liberi fissi per poter organizzare la propria esistenza e non renderla totalmente dipendente dal lavoro. Poi c’è un problema culturale, vale a dire il fatto che per molte organizzazioni politiche e imprenditoriali il fenomeno del consumo h24 è inarrestabile e va assecondato a tutti i costi. C’è chi addirittura come Scalfarotto, ex partecipante alle primarie del Pd, che chiama in causa il fatto che la famiglia “non tradizionale” abbia bisogno di fare acquisti nei festivi. Tuttavia il consumo h24, utile o compulsivo che sia, è stato indotto e sostenuto dal modello culturale dominante ma anche dall’abitudine a trovare aperto tutto a qualunque ora. Una tendenza che il decreto Monti ha sostenuto ed alimentato. Ma il dibattito si dovrebbe spostare su un altro tipo di analisi da supportare con numeri. Se è ormai appurato che sul piano dei consumi/ricavi la liberalizzazione selvaggia non ha dato nessun beneficio al settore della Grande Distribuzione, come si pone il futuro del settore nei confronti della vendita online? Quali strumenti di regolazione possono garantire entrambi i settori senza lasciare tutto alla guerra, alla competizione sfrenata e ai conseguenti morti (dal punto di vista lavorativo) da lasciare sul campo? Questo sarebbe già un argomento più interessante da supportare con dati e analisi di prospettiva. Intanto non sarebbe male rivedere a livello europeo tutta la normativa fiscale per far pagare le tasse ai giganti della vendita online e farla finita con paesi come l’Irlanda che fanno politiche fiscali aggressive verso gli altri paesi UE.

L’impatto sui territori. A Livorno in materia di grande distribuzione stiamo vivendo tutte le contraddizioni di questa fase del settore, accentuati anche dagli errori fatti dalle Amministrazioni comunali in termini urbanistici e strategici. Stiamo vivendo infatti la crisi di Unicoop Tirreno dovuta a fattori di scarsa competitività strutturale ed errori strategici con la fallita espansione verso il sud. Ma a Livorno Unicoop mostra anche le problematiche della grande distribuzione in termini di ricavi e consumi. Nonostante il quasi monopolio a Livorno, Unicoop negli ultimi anni ha aperto altri due supermercati, Levante e Porta a Mare, dove però ha ricollocato gli esuberi degli altri negozi. Sintomo che anche al crescere del numero di negozi i consumi rimangono i soliti. Aumenta solo la competizione e la corsa ai prezzi che spreme ancora di più lavoratori e produttori ma non crea ricchezza e nemmeno risolve i problemi occupazionali. A intasare ulteriormente il settore l’anno prossimo arriverà Esselunga, il grande marchio che in questi anni ha gli indici migliori di efficienza e aumento dei fatturati in Italia. Usiamo il verbo “intasare” perché Esselunga non porterà nessuna nuova ricchezza in città ma andrà a prendersi la propria fetta a scapito di altri. Tutto legittimo, ci mancherebbe, così come le operazioni di marketing rispetto alle sponsorizzazioni che hanno già annunciato. Purtroppo però Esselunga, come detto, andrà a saturare un mercato già saturo anche per colpa di un’operazione, come quella Fremura-Nuovo Centro-Coop, voluta dalla vecchia amministrazione Pd e che “costrinse” gli attori in gioco a scegliere ancora Coop per coprire forse l’ultima fetta di mercato di distribuzione alimentare in città. In questo modo, in un regime di semimonopolio, Esselunga (che aveva anche offerto di più per approdare a Nuovo Centro) è partita all’attacco per poter aprire il proprio punto vendita in un’altra zona trovando terreno fertile con la nuova amministrazione 5 Stelle. Morale della favola: a causa di scelte passate forzate e sbagliate, Livorno si ritroverà con un ennesimo superstore, addirittura dentro la città, che causerà un effetto domino. Anche con tutte le migliori intenzioni del mondo, che non stiamo qui né ad analizzare né a legittimare o delegittimare, l’impatto sul territorio sarà negativo anche se qualcuno pensa che sia inevitabile per la situazione che si era venuta a creare con Coop. Rimane il fatto che forse solo i prezzi e quindi i clienti dei vari supermercati cittadini ne potranno beneficiare, ma la città in termini di ricchezza e lavoro scoprirà ben presto che tutti i segni più si compenseranno con i segni meno. Non abbiamo mai letto da nessuna parte o visto territori rilanciarsi con i supermercati, soprattutto perché fanno parte di un sistema chiuso di circolazione di ricchezza. Saremmo felici di essere smentiti.

tratto dal cartaceo di Senza Soste n.126 (maggio 2017)

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