L'articolo di Infoaut(infoaut storia-di-classe )ci aiuta a rivivere il ricordo del compagno Dario Bertagna morto suicida nel carcere di Busto Arsizio diciotto anni fa dopo aver passato dietro le sbarre otto dei quindici anni impostigli dallo Stato nonostante prove marginali a suo carico emerse dal processo Tobagi.
Sotto si propongono i fatti che portarono Bertagna ad intraprendere altri metodi di lotta con i Reparti Comunisti d'Attacco in un contesto storico differente dal nostro ma che ha le stesse radici,gli stessi interpreti e le stesse criticità.
Più avanti il comunicato che amici e compagni scrissero in memoria di Dario pochi giorni dopo la sua morte,esprimendo con la sua lotta mai interrotta in carcere parlando con i reclusi il fatto che la sua detenzione sia stata eseguita per motivi prettamente politici.
17 luglio 1988: muore Dario Bertagna.
Il 17 Luglio del 1988 Dario Bertagna, militante dei Reparti Comunisti d’Attacco (gruppo attivo in Lombardia), muore suicida all’età di 38 anni nel carcere di Busto Arsizio.
Nato a Comerio (Varese) nel 1950, Dario Bertagna si trasferisce in provincia di Milano per lavorare come impiegato in una ditta di produzione di vernici; è proprio in fabbrica che inizia il suo percorso politico.
Avvicinatosi inizialmente al sindacato, ben presto comincia a percepire con insofferenza quella che lui chiamava “arrendevolezza del vertice del sindacato” e le logiche della mediazione, arrivando in breve alla rottura e alla scelta di intraprendere altri percorsi di lotta.
Così scrive di lui Giulio Petrilli, suo compagno di cella a San Vittore: “Lui non se ne faceva capace che chi imponeva la produttività, il sacrificio, la logica di lottare, ma portando sempre il profitto all’azienda, erano quelle le persone che a parole si dicevano comuniste. Questa cosa per lui era totalmente inammissibile, da lì maturò la scelta della lotta armata”.
E sono sempre le sue parole a descriverlo come una persona riservata e molto sensibile, a tratti reticente ma che amava intraprendere discussioni interminabili durante l’ora d’aria del carcere.
Dalla fine degli anni ’70 iniziano le indagini e gli arresti nei confronti dei Reparti Comunisti d’Attacco, attivi soprattutto nella lotta al sistema carcerario italiano; fra le 24 persone inquisite c’è anche Dario Bertagna, che viene arrestato a Milano il 23 giugno del 1980 (nello stesso anno il gruppo cessa di esistere).
Malgrado la marginalità delle prove a suo carico, viene condannato a 15 anni di detenzione per partecipazione a banda armata nell’ambito del processo Rossi-Tobagi; inizialmente portato per qualche mese nel carcere penale di Fossano, è poi trasferito a San Vittore alla fine del 1980.
Qui Dario constata da subito la differenza tra i due complessi carcerari: nel secondo raggio di San Vittore si trovano soprattutto detenuti politici, cosicché l’ambiente favorisce da subito la continuazione del suo impegno all’interno del carcere.
Il 2 giugno del 1988 viene trasferito nuovamente, questa volta a Busto Arsizio; è qui che qualche settimana dopo si toglie la vita impiccandosi con un lenzuolo.
Di seguito il volantino distribuito davanti al carcere a pochi giorni dalla sua morte:
I Compagni del movimento e i familiari dei detenuti, Volantino, 23 luglio 1988, Busto Arsizio
“Domenica scorsa, 17 luglio, il compagno Dario Bertagna si è tolto la vita nel carcere di Busto Arsizio, dopo aver scontato 8 anni di galera per reati politici. Malgrado la marginalità delle responsabilità penali, nel processo che ha deciso la messa in collaborazione dei pentiti come Barbone e di altri imputati che hanno scelto la strada della collaborazione e l’abiura, Dario subì una condanna a 15 anni di carcere. E’ questa l’ennesima dimostrazione di come le leggi e le prassi giuridiche nate dall’emergenza abbiano legato l’entità della condanna all’identità politica e al comportamento degli imputati, malgrado le autorità e gli intellettuali più o meno di regime, insieme ai partiti, abbiano ripetuto fino alla noia che “tutto si è sempre svolto nella legalità e nel rispetto delle regole della democrazia.”
Dario non era né pentito né dissociato ed ha sempre lottato, con tutte le sue forze, per salvaguardare la propria dignità umana e la propria identità politica. Per 8 anni ha lottato contro la macchina di distruzione che è il carcere, in condizioni psicofisiche sempre più instabili, come i medici del carcere hanno avuto modo di constatare più volte. La sua morte, come tutte le morti avvenute in carcere, peserà come un macigno anche sui responsabili della disastrosa gestione dell’assistenza sanitaria, su quanti permettono che passino giorni e settimane prima di un ricovero, su chi tra la salute del detenuto e la sicurezza dell’istituzione sceglie sempre quest’ultima.
Oltre a tutto ci preme ricordare che non più di un mese fa il Tribunale di sorveglianza di Torino aveva negato a Dario la semilibertà, nonostante gli 8 anni di galera scontati, le sue precarie condizioni di salute e l’ottenimento di un posto di lavoro in una fabbrica del suo territorio. In carcere non avevano pesato sul suo contro gravi rapporti disciplinari o denunce. (…)
Con il suo ultimo gesto Dario ha gridato ancora una volta il suo rifiuto a piegarsi al patto infame che impone la svendita della propria dignità in cambio della scarcerazione.
Noi siamo oggi davanti al carcere di Busto Arsizio e poi in piazza per ricordare alla gente che l’angolo di barbarie costruito negli anni dell’emergenza e nel quale sono già morti troppi detenuti non deve continuare la sua opera di distruzione.”
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