Ultimo post appello nel giorno della votazione referendaria sull’abrogazione dell’articolo 6 comma 17 del «Codice dell’ambiente»,che riguarda l'estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia nautiche dalla costa italiana,pari a poco più di 22 km.
Nei giorni scorsi si è fatto un discorso informativo su ciò che si va a votare e che cosa accade nel caso vincano i sì o i no,naturalmente esortando le persone ad esercitare il proprio diritto di voto visto che viviamo ancora in un paese che si ritiene democratico.
C'è tempo fino alle 23 di stasera e bisogna recarsi presso la sede elettorale dove si è iscritti presentando un documento d'identità e la tessera elettorale,buon voto a tutti,votando sì naturalmente!
Articoli presi da Infoaut(http://www.infoaut.org/index.php/blog/approfondimenti/item/16851-dalla-sicilia-verso-il-referendum-notriv )e Il fatto Quotidiano(http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/16/inchiesta-petrolio-indagato-vice-di-confindustria-a-lo-bello-contestata-associazione-a-delinquere/2644348/ )dove si fa il punto sullo scandalo petrolgate che ha visto iscritto nel registro degli indagati Ivan Lo Bello vicepresidente di Confindustria,altro motivo ulteriore per recarsi alle urne e votare sì.
Inserisco pure questo del Corriere della Sera che è più diciamo istituzionale(http://www.corriere.it/cronache/16_aprile_16/referendum-trivelle-dove-quando-come-si-vota-domenica-17-aprile-4a365ccc-03ca-11e6-b48d-5f404ca1fec7.shtml ).
Dalla Sicilia verso il referendum NoTriv.
Il 17 aprile 2016 si terrà in Italia il referendum abrogativo delle nuove
norme governative sulle concessioni esplorative petrolifere per le trivellazioni
nei nostri mari. Ad essere sottoposto a referendum sarà la norma, inclusa in un
emendamento alla Legge di Stabilità 2016, che cancella i limiti temporali alle
stesse concessioni per i giacimenti posti entro le 12 miglia marittime: dal
limite di 40-45 anni si passerebbe, appunto, al limite “naturale” dei
giacimenti, cioè all'esaurimento degli stessi. Si voterà dunque per l'eventuale
abrogazione proprio di questa norma. Un’eventuale vittoria del “Si”
comporterebbe, dunque, il ripristino del limite temporale precedente con la
conseguenza che, alla scadenza prevista mediamente tra i 5 e i 10 anni per le
attuali trivellazioni, queste non potranno essere prorogate.
Attualmente, su tutto il territorio italiano, sono 66 i giacimenti di
petrolio o gas attivi; di questi solo 21 sono installati entro le 12 miglia e
quindi legati alle sorti del referendum. Molti di questi, inoltre, sono
direttamente o indirettamente controllati da Eni. Ovviamente non stiamo qui
considerando le trivellazioni su terraferma molto presenti in regioni quali
Basilicata e Sicilia.
Se certamente – e appare palese – la campagna referendaria assume un
carattere strutturalmente “ideologico” (non in grado, cioè, di mettere
complessivamente in discussione l'intera economia estrattiva) non si può però
non notare come questa assuma comunque oggi un significato particolare e
specifico in un contesto politico, quello italiano, che potrebbe vacillare
attorno a diverse contraddizioni che questo 17 aprile sta aprendo.
In discussione c’è, infatti, molto più che la singola vertenza territoriale;
o la solitaria difesa di un singolo territorio; o la sola, seppur importante,
questione ambientale: posta in gioca diventa la più generale dipendenza del
sistema politico-economico italiano dal paradigma economico estrattivo, cioè dai
profitti (diretti e indiretti) generati dall’economia del petrolio; che, però,
nel frattempo, cambia in relazioni alle situazioni geopolitiche internazionali
costringendoci così ad una serie di ragionamenti politici e sociali urgenti.
Partiamo da un’ovvietà: al governo di Matteo Renzi questo referendum non piace
affatto. Probabilmente ne hanno, tra le fila del Pd, proprio paura. Questo
perché a rischio ci sono sia importanti introiti sia la credibilità di un
sistema politico che si è fatto garante, per il grande capitale, della
indiscutibilità del paradigma “sviluppista” fatto di “grandi opere” ad alta
intensità di profitto e condito dalle retoriche sulle “occasioni di crescita per
tutto il paese”. Nonostante questo venga scalfito di tanto in tanto dallo
scoppio di casi come quello recente di “Tempa rossa” in Basilicata: tangenti,
smaltimento di rifiuti tossici, emissioni ben oltre il limite tutto sotto
l’occhio favorevole del ministro Guidi, del ministro Boschi, dello stesso Renzi.
Non è, ugualmente casuale la strategia messa in campo, negli ultimi mesi dal
primo ministro; egli, dal momento in cui è apparso chiaro che i “numeri” (i
Consigli Regionali) per l’indizione del referendum si sarebbero raggiunti, ha di
recente provato a cambiare le carte in tavola. Dapprima ha accolto una serie di
emendamenti alla Legge di Stabilità utili a far decadere anticipatamente alcuni
potenziali quesiti referendari: viene in questa fase accolta l'assoluta
intoccabilità della legge che imponeva le 12 miglia di distanza dalle coste. Con
questa mossa, il Premier, sperava di far cadere alcune delle argomentazioni dei
vari comitati di opposizione in tanto formatisi su tanti territori del centro e
del sud del paese, garantendo, d’altro canto, gli impegni presi con le grandi
multinazionali del petrolio.
A questo primo tentativo, eccone subito seguirne un altro: alla scelta della
Corte Costituzionale di accettare il referendum su un unico quesito (non più su
sei come inizialmente richiesto) il governo risponde con l’indizione della
sessione referendaria per il 17 aprile, un mese prima della tornata elettorale
sulle amministrative di tantissime città italiane. Nonostante le proteste dei
vari comitati, l’esecutivo ha scelto dunque per un’indizione solitaria dai costi
esorbitanti (circa 300milioni si sarebbero risparmiati accorpando le due
votazioni) affinché una simile convergenza non facilitasse il raggiungimento del
quorum necessario al referendum abrogativo. Puro politicismo. Il referendum è
così indetto per il 17 aprile; si preparano e iniziano a mobilitarsi gli
schieramenti: da una lato i comitati (di cui parleremo dopo), dall’altro gli
interessi capitalistici legati all’economia de petrolio. Proprio all’economia
del petrolio non possiamo evitare di porgere lo sguardo. Siamo in un periodo in
cui il prezzo al barile è il più basso mai visto negli ultimi decenni e solo da
giugno 2014 il prezzo è calato del 65%. Ovviamente come spesso (sempre) accade,
nonostante il periodo di crisi economica costringa le persone a rivedere i
propri piani di spesa a causa della difficoltà ad arrivare a fine mese, per la
grande finanza la questione gira attorno alla necessità di far crescere la
domanda per far tornare i prezzi del petrolio al vecchio splendore. Siamo,
dunque, all’ennesimo paradosso capitalista. Continuare ad imporre un modello di
sviluppo nocivo, devastante e, soprattutto, sempre più anacronistico a cosa
dovrebbe servire? Resteremo comunque grandi importatori visto che non possiamo
dipendere solo da queste estrazioni – la cosiddetta “bilancia dei pagamenti”
vede, infatti, le estrazioni attive in Italia coprire non più dell'1% del
fabbisogno nazionale rendendoci già adesso un paese d'importazione che non
considera nemmeno la possibilità di sostituire questa irrisoria percentuale con
le rinnovabili - e quindi potrebbe sembrare un semplice permesso ai grandi del
petrolio che, con il Governo fanno affari, di accaparrarsi quello che resta
sotto i nostri fondali. Il governo Italiano praticamente lo regala, alle aziende
che lo estraggono, chiedendo solo il 7% del valore del petrolio estratto ma solo
dopo l’estrazione di 50.000 tonnellate di petrolio. Un affare. Anche perché
quando è nata la necessita di intensificare il piano di estrazioni in mare di
petrolio il prezzo di questo era ancora molto alto e faceva e fa ancora adesso
gola a molti.
Il nostro punto di vista è, ovviamente, condizionato dall'aver visto, sul
nostro territorio, la Sicilia, una enorme concentrazione di nocività dovute
proprio a questo modello di sviluppo. L'isola conta infatti ben 5 giacimenti in
terra e ben 7 trivellazioni attualmente attive molto vicino alle coste. In
Sicilia si produce più del 15% dell'intera produzione nazionale; le
multinazionali guadagnano annualmente dalla produzione di oro nero più di
300milioni di euro a fronte del pagamento di royalites per circa 420-500mila
euro l'anno versati alle istituzioni regionali. Inquinamento a prezzo
stracciato, insomma. E se non regge l'argomentazione a favore dell'estrazione
sul piano economico-fiscale, non regge neppure quella legata al tema della
difesa dei posti di lavoro. Pensiamo a Gela: dopo aver limitato grossolanamente
il piano di investimenti per la raffineria presente sul territorio da 50anni,
sta pensando bene di investire in un megaporto nel mediterraneo, strategico per
il commercio di gas, da inserire nella rete di comunicazioni europea e
nazionale. Quale destino, allora, spetta alla raffineria? E’ notizia recente che
è pronto un piano di riconversione in raffineria green. Sotto questo specchietto
per le allodole che utilizza l’Eni per far credere che tutto cambierà il realtà
si nasconde semplicemente una modifica degli impianti necessaria all’azienda per
produrre un “bio carburante” che altrimenti dovrebbe acquistare da altri. Sempre
che le dichiarazioni abbiano risvolti pratici, simili retoriche sono comunque
costantemente accompagnate (ormai da anni) dalle continue minacce di
ridimensionamento della mano d'opera utilizzata in loco.
Casi del genere favoriscono però una presa di coscienza sociale sul fatto che
la tendenza, delle grandi lobby del petrolio e del gas, “uso-distruggo”, vada
fermata prima che sia troppo tardi. Sono troppi gli impianti sparsi per tutto il
territorio nazionale che rischiano di diventare monumenti alla distruzione. Con
lo SbloccaItalia e una serie di nuove concessioni – tipo quelle alla “Tempa
rossa”e alla Total del fidanzato del ministro Guidi - forse ci si è resi conto
che si stava per toccare il fondo o che il fondo stava già per essere trivellato
a colpi di indecenza e totale noncuranza della vita delle persone e della reale
crescita del paese. A completare il quadro ecco l'uscita (molto recente) di
un'inchiesta dell'ISPRA (Istituto superiore per la Protezione e la ricerca
ambientale) che racconta dell'immissione di ben cinquecentomila metri cubi di
acque contaminate da rifiuti (prodotti proprio dall'attività estrattiva)
all'interno di un pozzo a largo di Pozzallo dopo le trivellazioni effettuate da
Edison. I comitati nati in numerose regioni italiane, con l’obiettivo di
convincere la popolazione ad andare a votare si al referendum, sono espressione
del rifiuto verso tutto questo. Nati soprattutto nei territori in cui la lotta
alle trivelle non nasce oggi, ma è già da tempo un percorso di critica e
opposizione all’imposizione con la forza di un modello di sviluppo nocivo.
Banchetti informativi, iniziative, cortei, assemblee, hanno già segnato il passo
delle comunità che portano avanti un processo di controinformazione,
sensibilizzazione, discussione dibattito. Rispetto a questo scenario non
possiamo non prestare particolare attenzione alla Sicilia, che sarà tra le
regioni più interessate e minacciate dai piani di lobby del petrolio e governi.
E soprattutto perché in risposta a questo è già partita la mobilitazione e nati
comitati, collettivi che lavorano per abbattere il velo del silenzio mainstream
sulla questione. Siciliani che hanno attraversato e vissuto i momenti di
mobilitazione che hanno espresso con forza il rifiuto nei confronti delle
trivelle, del modello “Sicilia pattumiera d’Italia” e delle politiche di
asservimento a piani economici e guerrafondai che con la forza stanno cercano di
imporci. La lotta contro la costruzione dell’inceneritore della Valle del Mela,
contro le basi militari americane e il MUOS, contro i paventati licenziamenti al
petrolchimico (Eni) di Gela, il corteo proprio contro le trivelle a Licata, sono
un esempio. E’ quanto mai evidente, dunque, che il sentimento del “si” contro le
trivelle va oltre la scadenza elettorale in sè, ma diventa progettualità
politica di un movimento che sente distanti e sorde le istituzioni, e rivendica
la necessità di decidere della propria vita e del destino del proprio territorio
senza demandare ad altri o a coloro che degli interessi e dei bisogni reali
delle persone non ne hanno mai fatto programma politico.
Sappiamo perfettamente che l’affluenza alle urne sarà drogata in quelle
regioni in cui il problema delle trivellazioni non è sentito perché non si
presenta fattivamente. Sappiamo che il sabotaggio del referendum da parte dei
media acuirà ancor di più il problema dell’affluenza. Siamo anche consapevoli
che il risultato delle urne non rappresenterà un punto di arrivo perché chi in
questi mesi è sceso in piazza. L’obiettivo dovrà essere quello di avere la
capacità di sedimentare pratiche di opposizione, e la campagna referendaria è lo
strumento che attorno all’identificazione dell’obiettivo deve riuscire a creare
immediatamente la polarizzazione che serve per la costruzione di una
soggettività-contro, che continuerà ad urlare, bloccare e manifestare a
prescindere dal risultato referendario. Questo referendum da la possibilità a
chi oggi lotta contro lo sfruttamento delle risorse e delle vite di far valere,
tramite un strumento “democraticamente” riconosciutoci, la propria posizione.
Una posizione, un punto di vista che, dovrà risuonare nei meandri dei palazzi
istituzionali fino a quando la battaglia NoTriv non sarà vinta. Fino a quando
non diventerà una lotta che riuscirà a mettere a critica in maniera incisiva il
modello di sviluppo che attraverso la maschera del paradigma del lavoro sfrutta
senza ritegno e accumula ricchezze guadagnando sulle nostre disgrazie.
Rivendicare, chiedere, pretendere autodeterminazione, affinché si possano
scardinate le logiche di potere vigenti, il comando capitalistico e le sue
cinghie di trasmissione, per dare spazio ad una valorizzazione dei territori che
metta al centro chi i territori li vive, per decidere dal basso come deve
cambiare il nostro presente e come sarà il nostro futuro.
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Inchiesta Petrolio, indagato il vice di Confindustria Lo Bello. Guidi? Per i pm era “Inconsapevole strumento del clan”.
Secondo l'accusa, per assicurarsi il controllo di un pontile nel porto di Augusta, sarebbe stata costituita un'associazione per delinquere composta da Gianluca Gemelli, Nicola Colicchi, Paolo Quinto e lo stesso numero due di Confindustria, il quale appreso dell'indagine commenta: "Ho fiducia nei magistrati, mi sentano quanto prima". Ipm parlano anche dell'ex ministro del Mise Federica Guidi.
Il vicepresidente di Confindustria Ivan Lo Bello è indagato dalla Procura di Potenza. La circostanza emerge dagli atti dell’inchiesta su petrolio e appalti che ha portato anche alle dimissioni dell’ex ministro Guidi che i pm definiscono “inconsapevole strumento del clan”. Per assicurarsi il controllo di un pontile nel porto di Augusta, secondo i pm, fu costituita un’associazione per delinquere composta da Gianluca Gemelli, Nicola Colicchi, Paolo Quinto e lo stesso Lo Bello. A Colicchi e Gemelli è attribuito il ruolo di “promotori, ideatori ed organizzatori”; a Quinto e Lo Bello quello di “partecipanti”. Scopo del sodalizio, tra l’altro, fare del porto di Augusta (Siracusa), città natale di Gemelli, uno dei principali poli di stoccaggio di petrolio nel Mediterraneo. Un affare da 20 milioni di euro l’anno.
Scoppiata l’inchiesta Lo Bello aveva cercato di chiamarsi fuori, dicendosi “deluso” e “tradito” dall’amico Gemelli, scaricando di fatto il fidanzato dell’ex ministro Guidi. Sostenne anche che Gemelli non gli parlò mai di un interesse per il pontile nel porto di Augusta. E invece le contestazioni all’associazione partono proprio dal pontile nel porto di Augusta per estendersi anche ad altri progetti di impianti energetici e permessi di ricerca e i “Sistemi di difesa e sicurezza del territorio” da attuare in Campania.
Per gli inquirenti l’organizzazione faceva “leva, soprattutto al fine di ottenere nomine di pubblici amministratori compiacenti o corruttibili, sul contributo di conoscenze ed entrature politico-istituzionali acquisite in anni di militanza politica da Quinto e Colicchi”. Gli inquirenti citano l’esempio di Alberto Cozzo, commissario straordinario del porto di Augusta, che è indagato e che ottenne la riconferma nell’incarico. Quinto è indicato negli atti dell’inchiesta come capo della segreteria della senatrice Anna Finocchiaro (Pd), Colicchi come componente dell’esecutivo nazionale della Compagnia delle Opere e con un ruolo nella Camera di Commercio di Roma.
L’organizzazione viene definita “rudimentale” dagli inquirenti, secondo i quali però “il gruppo di indagati ha mostrato di essere permanentemente impegnato in attività che, seppure connotate da finalità lecite, vengono perseguite attraverso condotte illecite, quali il traffico di influenze illecite e l’abuso d’ufficio”. Riferendosi in particolare al pontile nel porto di Augusta, Quinto, in un’intercettazione del 16 gennaio 2015, dice a Gemelli: “Se noi vogliamo fare una cosa intelligente, ti conviene prendere il pontile così condizioni l’uso di esso”.
“Ho appreso dalle agenzie di stampa di essere indagato dalla magistratura di Potenza” è il commento di Lo Bello. Che conclude: “Ho sempre avuto piena fiducia nell’operato dei magistrati. Chiederò alla procura di Potenza di poter essere sentito quanto prima per chiarire ogni cosa”.
Nelle carte si legge anche che l’ex Ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, era diventata “inconsapevole strumento di quello che lei stessa non aveva mancato di individuare quale vero e proprio ‘clan'” che aveva tra i componenti il suo compagno, Gianluca Gemelli (indagato). La Guidi, che non è indagata ma “parte offesa”, si è dimessa lo scorso 31 marzo dopo gli arresti eseguiti nell’ambito dell’inchiesta sul petrolio in Basilicata.
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