giovedì 31 marzo 2016

IL TIRAMOLLA EMOZIONALE TRA WASHINGTON E ANKARA

L'articolo preso da Senza Soste(http://www.senzasoste.it/internazionale/obama-gela-erdogan-il-sultano-infuriato-con-usa-e-ue )descrive un incrinarsi nei rapporti diplomatici tra Usa e Turchia che sono sfociati nella decisione del Presidente Obama di non ricevere ufficialmente Erdogan ma di farlo fare al suo vice Biden.
La stampa filogovernativa turca,ovvero l'unica ammessa nel sultanato,commenta negativamente quella che può essere una decisione peggiorativa dei contratti già in essere tra le due nazioni,con ripercussioni negative nello scacchiere mediorientale.
Perché il regime Erdogan,collaborazionista nemmeno troppo sotto traccia delle milizie Daesh,si preoccupa di più delle critiche e del dissenso interno ma soprattutto esterno in chiave europea che di possibili attentati o ritorsioni del califfato Isis.
E la pioggia di milioni di Euro offerti dall'Ue nell'affare e nella tratta dei nuovi schiavi,i profughi ed i migranti,da sola e senza il riconoscimento ufficiale dell'ingresso a far parte della comunità europea non può servire molto alle mire espansionistiche e di maggior ricchezza del governo turco che è sempre costantemente allertato anche dai combattenti curdi.
 
Obama gela Erdogan, il ‘sultano’ infuriato con Usa e Ue.
tratto da http://contropiano.org/

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è in viaggio per gli Stati Uniti per la seconda visita della sua presidenza, in un momento in cui le relazioni tra i due tradizionali alleati della Nato sono in forte crisi a causa delle crescenti divergenze sulla lotta allo Stato Islamico – che Ankara sostiene e Washington, seppur timidamente, combatte dopo averne tollerato lo sviluppo e la crescita – e soprattutto a causa della pretesa da parte della nuova potenza regionale di obbligare la Casa Bianca a seguire la propria agenda politica e i propri interessi nell’area.
Da tempo gli Stati Uniti chiedono al regime turco di impegnarsi contro le milizie islamiste attive in Siria e di diminuire la pressione nei confronti dei curdi siriani, sostenuti dalla scorsa estate da Washington nel tentativo di poter contare su una forza di terra all’interno di una coalizione internazionale contro Daesh che fino all’intervento russo aveva messo a segno ben pochi risultati, e quasi tutti ascrivibili alla resistenza delle Ypg curde. Da parte sua Erdogan, lungi dal cessare il sostegno ai jihadisti sia per rafforzare il suo potere all’interno del paese sia per aumentare la destabilizzazione del paese confinante, insiste con Washington per avere il via libera all’invasione della Siria allo scopo di creare una ‘zona cuscinetto’; gli Stati Uniti hanno dovuto penare non poco prima che Ankara mettesse a disposizione dei caccia Usa le sue basi nel sud della Turchia e comunque il contributo delle forze armate turche alla lotta contro Daesh è rimasto nullo.
Erdogan, presidente dall’agosto del 2014 dopo un decennio da premier, ha detto prima di partire stamattina che avrà un incontro con il presidente Usa Barack Obama, ma la Casa Bianca lo ha gelato precisando che ad incontrarlo sarà il vicepresidente Joe Biden. Un portavoce dell’amministrazione Usa si è limitato a dire che nel corso del vertice sul nucleare in programma giovedì e venerdì, Erdogan e Obama “avranno l’opportunità di parlare” anche se non è in programma alcun incontro ufficiale.
Il capo dello Stato turco è negli Usa per il vertice, ma anche per inaugurare una grande moschea nel Maryland, uno degli ennesimi tentativi da parte del regime neo-ottomano di esportare il suo modello religioso e culturale conservatore ed egemonico. Secondo il quotidiano turco Hurriyet il presidente voleva inaugurare la moschea del Maryland, presentata come l’unica negli Usa con due minareti, insieme al presidente Obama, ma anche in quel caso il leader statunitense ha deciso di declinare l’invito. Per cercare di aggirare il governo, nel corso della sua permanenza negli Stati Uniti, Erdogan ha in programma una cena con alcuni imprenditori locali e, forte della rinnovata collaborazione tra Ankara e Tel Aviv, un incontro con i leader della potente comunità ebraica statunitense.
Ad incrinare ulteriormente i già degradati rapporti tra Stati Uniti e Turchia negli ultimi giorni ci sono state le preoccupazioni pubblicamente espresse da Washington sul mancato rispetto da parte del regime turco della libertà di espressione. Le prese di posizione dell’ambasciata statunitense ad Ankara a favore dei giornalisti e degli accademici finiti sotto processo perché critici nei confronti del governo hanno irritato non poco l’establishment erdoganiano.
Inoltre l’arresto a sorpresa la scorsa settimana negli Usa dell’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab, coinvolto nel 2013 in un grave scandalo che ha colpito l’entourage di Erdogan, è stato accolto con soddisfazione dai nemici di Erdogan, in particolare da Fethullah Gulen, l’ex padrino e mentore del ‘sultano’ residente negli Stati Uniti e da alcuni anni suo acerrimo rivale – seppur da posizioni liberali e islamiste conservatrici – sul quale pende un mandato di cattura spiccato in patria. In un durissimo attacco alla politica Usa in Turchia, il quotidiano filogovernativo Sabah ha scritto che l’amministrazione Obama rischia di compromettere interamente i rapporti bilaterali tra i due paesi. Obama rischia di “entrare nella storia come il presidente fallimentare che ha causato la fine dei rapporti con la Turchia” ha scritto il commentatore Serdar Karagoz.
Recentemente, il Pentagono e il dipartimento di Stato hanno ordinato alle famiglie del personale del Dipartimento della Difesa statunitense di abbandonare il sud della Turchia ‘per motivi di sicurezza’. La misura interessa circa 650 persone tra familiari di soldati e del personale diplomatico presenti finora nelle zone sudorientali e sudoccidentali del paese, in pratica quelle interessate dalla repressione contro la guerriglia e i movimenti popolari curdi ma anche le zone dove più forte è il radicamento e l’infiltrazione di gruppi e cellule dello Stato Islamico o di movimenti turchi collegati a Daesh. Come se non bastasse, il Dipartimento di Stato ha invitato i turisti statunitensi a evitare di viaggiare in Turchia sempre per ‘motivi di sicurezza’, un duro colpo ad un settore turistico già in caduta libera.
D’altronde di giorno in giorno si fanno più insistenti le voci di un nuovo attacco dei jihadisti sul suolo turco dopo l’attentato di Istanbul che ha fatto strage di turisti – due israeliani, due israelo/americani ed un iraniano – lo scorso 19 marzo.
Secondo gli allarmi diffusi finora, l’Isis starebbe preparando un attacco imminente contro una scuola o un asilo nido ebraico in Turchia; secondo le voci l’obiettivo dell’attentato potrebbe essere la sinagoga di Istanbul nell’antico quartiere di Beyoglu, che ospita anche un centro giovanile e una scuola. A rivelare i piani di un attacco definito ‘imminente’ sarebbero stati sei membri dello Stato Islamico arrestati nella città di Gaziantep, a poche decine di chilometri dal confine con la Siria e da tempo base logistica in suolo turco dei jihadisti. Nel mirino degli attentati dell’Isis ci sarebbero state le celebrazioni del Newroz curdo – quasi tutte vietate dal regime turco – e poi il derby di calcio tra Galatasaray e Fenerbahce, match per questo sospeso e posticipato dalle autorità.
Ma, come sempre, il regime turco non sembra particolarmente preoccupato della possibilità di un nuovo attacco terroristica jihadista, quanto piuttosto dalle critiche e dal dissenso. Nei giorni scorsi il presidente in persona ha proferito in televisione un durissimo atto d’accusa contro i diplomatici stranieri che hanno osato presenziare venerdì ad un’udienza del processo a carico di due giornalisti – Dan Dundar ed Erdem Gul, rispettivamente direttore e caporedattore del quotidiano Cumhuriyet – accusati di reati gravissimi per i quali la corte ha chiesto l’ergastolo più altri 30 anni di reclusione perché accusati di aver diffuso notizie false e segreti di stato – corredati però da foto e filmati – a proposito del sequestro di alcuni camion di proprietà dei servizi segreti turchi pieni di armi dirette ai jihadisti in Siria. Dopo tre mesi di reclusione in condizione di quasi totale isolamento, i due giornalisti sono stati scarcerati per ordine della Corte Costituzionale turca ma poi le autorità hanno imposto che il processo nei loro confronti si svolga ‘a porte chiuse’.
Dopo l’irruento j’accuse presidenziale il governo ha formalmente protestato nei confronti dei paesi i cui rappresentanti diplomatici si erano affacciati al processo, accusati dalle autorità di Ankara di “ingerenza”. «Questa non è la vostra nazione, questa è la Turchia», ha tuonato Erdogan. «Chi siete? Che cosa ci fate lì?» ha detto Erdogan rivolto ai diplomatici impiccioni in un infuocato intervento televisivo da Istanbul, in cui ha accusato i rappresentanti di alcuni governi di aver voluto realizzare una «dimostrazione di forza», sfidando la sua autorità e mettendo in discussione la versione ufficiale dei fatti diffusa dal governo. Tra i paesi messi all’indice come parte di una macchinazione internazionale contro la Turchia ci sono l’Italia, la Germania e la Gran Bretagna, oltre agli Stati Uniti.
Inoltre, alcuni giorni fa, il presidente turco ha convocato l’ambasciatore della Germania ad Ankara per esprimere le sue rimostranze a proposito di un programma andato in onda sulla televisione tedesca: due minuti di satira trasmessi dall’emittente pubblica NDR durante i quali una canzoncina prendeva in giro Erdogan, raffigurato nel lussuoso ed enorme palazzo presidenziale che si è fatto costruire, e nel quale si diceva che “Un giornalista che scrive qualcosa che non piace a Erdogan finisce subito in galera”.
30 marzo 2016

mercoledì 30 marzo 2016

I MARCHETTARI TELEVISIVI CHE ANALIZZANO LE STRAGI

Già appena dopo poche ore le stragi di Bruxelles alcuni pseudo...e nell'ordine opinionisti,giornalisti,politici e marchettari vari delle televisioni avevano parlato di un parallelismo tra i metodi dell'Isis e quelli delle Brigate Rosse dimostrando solo di avere il cervello intoppato di merda.
Pure il premier non eletto aveva fatto lo stesso ragionamento anche sui metodi di contrasto al terrorismo dell'Isis addirittura tirando dentro la mafia e a questo punto aggiungerei anche Brunga e Gargamella intanto che ci siamo,in una miscellanea di idiotismo allo stato puro.
Gli articoli presi rispettivamente da Contropiano(http://contropiano.org/interventi/2016/03/23/bruxelles-le-brigate-rosse-077028 )e Militant blog (http://www.militant-blog.org/?p=13038 )parlano dello stesso tema sottolineando che questo paragone non sta né in cielo né in terra per direi migliaia di fatti che vanno dall'ideologia,dalla propaganda,dai protagonisti al periodo storico.
L'unico ad aver avuto un barlume d'intelligenza,ma ne sarebbe bastata una quantità da ameba di media cultura,è stato uno dei maggiori oppositori proprio delle Brigate Rosse,il magistrato Gian Carlo Caselli che ha detto:"il terrorismo brigatista era diverso,selettivo,non colpiva nel mucchio...nel nostro Paese la macelleria che colpiva nel mucchio era di matrice fascista,quella delle stragi,da Piazza Fontana alla stazione di Bologna.I responsabili erano pochi e ben protetti dagli apparati”.
Dopo le perle di saggezza,le sciacallate alla Salvini e l'immondezzaio mediatico che si è propagato e che ancora si alimenterà alla prossima carneficina(ovviamente occidentale perché le altre chissenefrega)lasciano il tempo che trovano e si accavallano nella mediocrità del pensiero comune italiano.

Bruxelles e le Brigate Rosse?

di Ascanio Celestini

Con le bombe di Bruxelles è arrivato anche il momento delle Brigate Rosse.
Sono passate alcune ore dagli attentati in Belgio e si comincia a parlare di loro. La lotta armata in Italia è un capitolo che molti hanno voluto chiudere in una scatola appiccicandoci sopra la parola “anni di piombo” per derubricarne la storia con una frase tanto condivisibile quanto inutile: condanna del terrorismo e solidarietà con le vittime. Inutile non nel senso, ma nell’uso che se ne fa per non parlare di quel che è realmente accaduto soprattutto alle vittime, tutte.
E allora ecco che la vulgata sulla lotta armata in Italia serve a mescolare le carte anche tra i fatti di Bruxelles. Maroni se la prende con Saviano quando dice “che l’unica risposta al terrorismo e’ accogliere” e la commenta con “Gia’, magari anche farci saltare in aria da soli, cosi non li disturbiamo” e aggiunge che “serve un intervento urgente e di emergenza democratica, come si fece contro il terrorismo delle brigate rosse”.
Hanif Kureishi, intervistato da Repubblica, sostiene che i jihadisti gli “ricordano le Brigate Rosse e l’ideologia dei rivoluzionari bolscevichi”.
La Stampa chiede lumi al “luminare dell’università di Louvain Felice Dassetto” che anche lui si ricorda degli anni ’70 perché la “gente è soprattutto spaesata, come nell’Italia delle Brigate Rosse”.
Achille Serra, una vita per la polizia, ma poi anche per la politica visto che è passato da Forza Italia al PD e poi all’UDC, dichiara che “non dobbiamo farci vincere dalla paura e rintanarci dentro le case. Non lo facemmo durante il periodo delle brigate rosse e non dobbiamo farlo adesso”, e dunque anche lui con un occhio guarda alla guerra santa e con l’altro alle BR.
Flavia Perina, giornalista che nasce nell’ambiente della militanza di destra, parla direttamente di Renato Curcio, tralasciando il fatto che le stragi le facevano proprio quelli di destra (non lei, ma nemmeno i comunisti). Il tempo passa e la polvere aiuta a confondere il rosso col nero.
Il più lucido e interessante è Gian Carlo Caselli. Forse l’unico con un minimo di memoria.
Anche lui si riferisce agli anni nei quali è stato un protagonista dalla parte delle istituzioni. Davanti ai morti del Belgio ricorda la sua esperienza, ma con qualche fondamentale differenza. “Il terrorismo brigatista era diverso, selettivo, non colpiva nel mucchio” ci ricorda. “Nel nostro Paese la macelleria che colpiva nel mucchio era di matrice fascista, quella delle stragi, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna. I responsabili erano pochi e ben protetti dagli apparati”.
Ed ecco il primo intervento interessante. Parlare di terrorismo significa alzare un gran polverone per non mostrare nulla e nascondere quel che accade davvero. Le differenze ci sono e non puoi non vederle. Se gli 85 morti di Bologna sono vittime del terrorismo come Aldo Moro siamo accecati dalla polvere che mescolerà anche le persone uccise a Bruxelles e Parigi.
Ma c’è un’altra frase interessante in quella breve intervista per il Fatto Quotidiano. “Il solo contatto che vedo con la storia italiana è il favore di cui le Br del primo periodo hanno goduto”. E questo mi fa pensare all’arresto di Salah Abdeslam. Ci dicono che un centinaio di persone hanno manifestato contro la polizia. Ci danno tante spiegazioni. Ma se davvero dobbiamo inseguire questo fantasma delle BR in quest’altra storia, cerchiamo di ricordarci quel “favore di cui le Br del primo periodo hanno goduto”. Nel bene e nel male. Ragioniamoci prima di andare a bombardare qualche sito strategico in giro per il mondo.
Un’altro pensiero invece dovremmo sprecarlo per l’età di queste persone armate. Salah Abdeslam ha 26 anni. È nato quando molti di noi erano adulti e vedevano cadere il muro di Berlino, Walter Alasia ce ne aveva 20 compiuti da poco quando è saltato da una finestra mostrando in un lampo ai genitori che ancora faceva politica. Anche per lui fare politica significava sparare.
22 ce ne aveva Goffredo Mameli, quello dell’Inno, quando morì per l’infezione alla gamba in cancrena alla fine della breve vita della Repubblica Romana fatta a pezzi dalla Francia che esportava la sua Democrazia a favore del Papa in esilio.
Quasi trenta ce ne aveva Emanuele Artom ed era uno dei più anziani del suo gruppo tanto che si preoccupava per i più giovani che in un ventennio di fascismo avevano letto solo i libri che concedeva la dittatura. C’è una strada a Torino che lo ricorda, una strada di un quartiere periferico nel quale hanno tirato giù due torri con la dinamite, un eco-mostro come tanti delle nostre banlieue.
Era nato a Torino anche Piero Panciarelli detto “Quartino”. Chiamato così “per quel suo amore per la tavola, dove si rimpinzava come una zampogna”. Ne parla Pino Casamassima in un libro di cinque anni fa. Quartino “non aveva ancora compiuto 25 anni quando i carabinieri di Dalla Chiesa misero fine anche alla sua esistenza. Probabilmente, come si fa a quell’età, contava pure i mezzi anni.
– quanti anni hai?
– ventiquattro e mezzo”.

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L'insensato parallelismo tra Jihadisti e Brigate Rosse.Di nuovo.

Già dopo gli attentati a Parigi di novembre avevamo scritto una riflessione sull’uso strumentale dell’accusa ai jihadisti di essere come le Brigate rosse: un parallelismo disgustoso quanto frequente, come testimonia l’immagine trovata su internet che apre questo contributo, sulla quale ogni commento sarebbe superfluo. Un parallelismo bislacco, privo di senso, senza alcun valore non solo politico, ma anche storiografico. Insomma, quello che a Roma si chiama «buttare in caciara», un modo da un lato per chiamare alla sacra unione nazionale contro il nemico e dall’altro per bollare come «nemica» e «criminale» qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale del sistema in cui viviamo.
Dopo gli attentati di martedì a Bruxelles, politici e giornalisti italiani non hanno perso tempo per riproporre l’assurdo parallelismo. Così prima di tutti Renzi, che nella conferenza stampa ufficiale ha inizialmente elogiato le forze dell’ordine italiane che avrebbero una vasta esperienza nella lotta alle emergenze – «dalla mafia, al terrorismo, al brigatismo», come se fossero la stessa cosa – e poi si è rivolto (in un crescendo che andava dal nazismo sconfitto dai nonni alla sua generazione, a coloro che hanno studiato giurisprudenza dopo gli omicidi di alcuni magistrati per mano mafiosa) alla generazione dei suoi genitori, che «hanno avuto la prova del terrorismo e del brigatismo: durante le loro lezioni all’università si sparava». Eccolo, il paragone con i cosiddetti «anni di piombo», probabilmente con l’omicidio di Vittorio Bachelet: i jihadisti colpiscono i luoghi della vita di tutti i giorni, dice Renzi, e aggiunge tra le righe che lo stesso facevano le Brigate rosse.  Ovviamente, qualsiasi persona dotata di senno e di memoria sa che non fu così, che le Brigate rosse non colpivano i luoghi e le persone che li attraversavano, ma delle personalità che secondo loro incarnavano lo Stato o, comunque, un nemico di classe – degli obiettivi scelti e specifici dunque, non colpiti a caso – e anzi si preoccupavano sempre di non coinvolgere neanche per sbaglio i passanti (ad esempio, bucando le ruote del transit del fioraio ambulante di via Fani per non rischiare di coinvolgerlo nel rapimento di Moro). Non era terrorismo, quello brigtista, ma lotta armata, guerriglia urbana. Però, come dicevamo, al di là del giudizio che si possa dare sulle azioni brigatiste, ci vogliono senno, memoria e – soprattutto – buona fede e onestà intellettuale, per cogliere la differenza con il terrorismo odierno. Quattro doti di cui Renzi è evidentemente privo.
Renzi, però, non è stato certo l’unico. Ecco, quindi, che neanche Roberto Maroni ha potuto fare a meno di dire la sua: «Siamo tornati agli anni di piombo: serve un intervento urgente e di emergenza democratica, come si fece contro il terrorismo delle brigate rosse». Giusto, aggiungiamo noi, finalmente un po’ di onestà: perché chiaramente invece allo Stato di sconfiggere il terrorismo vero – quello che metteva le bombe sui treni e nelle piazze – gliene è sempre importato molto poco, l’emergenza era contro la lotta armata delle Brigate rosse. Abbiamo poi avuto il noto ex prefetto Achille Serra, che ha invitato a non essere spaventati: «Non dobbiamo farci vincere dalla paura e rintanarci dentro le case. Non lo facemmo durante il periodo delle brigate rosse e non dobbiamo farlo adesso». Perché, secondo Serra, un comune cittadino avrebbe dovuto avere paura delle Brigate rosse resta, francamente, un mistero: era del terrorismo fascista che, semmai, si aveva paura, perché era quello che colpiva i civili. Se certo non possiamo aspettarci un minimo di conoscenza storica da Maroni, almeno da un uomo dello Stato allora in servizio questo sembrerebbe il minimo. Ma, appunto, oltre alla memoria serve anche un po’ di buona fede.
Altre idiozie sono poi uscite dalla bocca di quelli che chiedono a tutti i musulmani di dissociarsi dagli attentati, ponendo fine a quell’area di contiguità la cui venuta meno avrebbe determinato il crollo delle Brigate rosse. Insomma, una condanna a posteriori di gran parte della classe operaia italiana. Così, ad esempio, Il sole 24 ore, su cui si è scritto che «una cosa che stride soprattutto agli occhi di noi italiani, che il fenomeno del terrorismo lo abbiamo fronteggiato e alla fine sconfitto per quasi due decenni a partire dall’inizio degli anni Settanta. Nel terrorismo brigatista i fiancheggiatori giocarono un ruolo di primo piano, che consentì a lungo alle cellule del “partito armato” di sfuggire alla caccia degli investigatori. Se ne ebbe conferma quando le BR rapirono e tennero in ostaggio per 55 giorni, nel centro di Roma, il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, poi fatto ritrovare cadavere in via Caetani. La lotta contro i fiancheggiatori dei brigatisti rappresentò uno degli assi decisivi della strategia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa volta a debellare il fenomeno terroristico». L’azione repressiva di Dalla Chiesa – quella in realtà fatta di tortura e degli omicidi di via Fracchia – presa come esempio da seguire. È la lotta al terrorismo che ce lo chiede: a noi non ci resta che stringerci intorno al governo, all’Ue, alla Nato e accettare ogni «misura di sicurezza» che questa battaglia renderà necessaria. E quindi ecco il nostro prefetto Gabrielli, pronto a chiedere un aumento dei contingenti militari a Roma e ad affermare immancabilmente che «il terrorismo dell’Isis riporta agli anni di piombo». Infine Flavia Perina, un’adolescenza trascorsa nel Fronte della Gioventù e poi nell’Msi, una maturità in Allenza nazionale, poi nel Pdl, poi in Fratelli d’Italia. Infine, in Se non ora quando (…). Insomma, anche Perina non ha potuto fare a meno di dire la sua, affermando che «il terrorismo nasce in Europa e si batte come negli anni di piombo», e giù con i paragoni con le Br e le citazioni di Renato Curcio.
Alte vette di vaneggiamento sono state poi raggiunte su La7 durante la trasmissione Otto e mezzo dal giornalista (?) di Libero Davide Giacalone (vedi), ex repubblicano fedelissimo di Spadolini (fu Capo della Segreteria del Presidente del Consiglio dei ministri tra il 1981 e il 1982, con Spadolini a capo del governo) coinvolto in Tangentopoli. Affermando che in Italia abbiamo vissuto tante degenerazioni «ideologiche» e «fanatiche» di principi corretti, e parlando del problema della connivenza con il terrorismo tra i musulmani, Giacalone ha affermato che «essere comunisti è una cosa, fare i terroristi delle Brigate rosse è un’altra. Detto questo, quando è fiorente il terrorismo delle Brigate rosse si chiede ai comunisti italiani di manifestare una differenza e segnare una rottura, non lo si chiede ai democristiani». Giacalone ha poi criticato ogni interpretazione sociologica dell’arruolamento nella jihad dei musulmani europei, contro Massimo Cacciari che – seppur senza considerare il sociale un piano di lotta per l’emancipazione – invece parlava della disoccupazione e dei bassi salari nelle banlieues come fattori che favoriscono il fondamentalismo e la scelta jihadista: «Quello con cui abbiamo a che fare non è il disagio sociale, è un’ideologia denominata fondamentalismo islamico che va schiacciata. Quando abbiamo avuto il problema delle Brigate rosse non ci siamo posti il problema del disagio sociale e nelle fabbriche, c’erano dei terroristi che andavano arrestati e condannati, semmai anche ammazzati. Abbiamo fatto un insieme di queste cose e ci è andata bene. Le Brigate rosse non erano frutto del disagio delle fabbriche, ma di un’ideologia malata di gente fuori di testa, dei falliti nella vita che hanno tentato con le armi in mano di farsi una posizione».  Ideologia malata (il comunismo, la rivoluzione), falliti che si vogliono fare una posizione nella società (?) da ammazzare (e se lo dice lui, che negli anni ’80 delle torture aveva una posizione di prestigio nel governo…), da schiacciare. Chapeau. Finalmente un giornalista dalle capacità interpretative della realtà molto avanzate, non c’è che dire. Un’interpretazione tutta psicologica e basata sull’invidia sociale: chissà che il nostro Giacalone non abbia letto Zizek.
La chicca, però, è quella contenuta in un’intervista dell’immancabile Repubblica allo scrittore e drammaturgo Hanif Kureishi, nato a Londra da padre pakistano (di quella borghesia nazionale pakistana così vicina ai colonizzatori britannici…) e madre inglese. Kureishi, non si capisce bene da quale pulpito, non si limita ad accomunare il jihadismo alle Brigate rosse, ma a tutta la storia del comunismo del ‘900: «I jihadisti mi ricordano le Brigate Rosse e l’ideologia dei rivoluzionari bolscevichi», ci dice. Insomma, il più importante episodio di emancipazione del proletariato, la madre di ogni conquista sociale del XX secolo, è assimilata al jihadismo, l’odierno male assoluto. A essere messo sotto accusa, sul giornale che rappresenta la voce del Partito della nazione (e, ormai, anche quella del padronato), è l’idea rivoluzionaria in sé:
L’ideologia rivoluzionaria marxista, leninista, bolscevica, era animata da una simile visione puritana. Lenin e Mao erano utopisti convinti di poter creare una società migliore, superiore all’Occidente. I loro seguaci si sentivano dei nobili idealisti, anche quando spargevano sangue con le bombe o con i mitra. L’estremismo di sinistra degli anni ’70, dalle Brigate Rosse in Italia ai tanti gruppuscoli più o meno violenti che esistevano nel resto d’Europa, Inghilterra compresa, deriva da quello stesso complesso di superiorità, da quella medesima intransigenza e ansia di purezza. Lo so bene perché tanti amici della mia gioventù, qui a Londra, erano fatti così, anche se magari non andavano in giro a sparare.
Insomma, una posizione forse ancora più reazionaria di quella espressa da Giacalone su La7. Si potrebbe dire tanto sugli attentati di Bruxelles. Magari Kureishi, facendo riferimento alla sua origine pakistana, avrebbe potuto parlare proprio del Pakistan, il paese dove è nato il qaedismo, il paese che, come affermato dal sempre ottimo Alberto Negri sul Sole 24 ore,
con l’approvazione degli Usa e i finanziamenti dei sauditi aveva sostenuto dal 1979 la guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e causato la sua sconfitta. Un ufficiale dei servizi pakistani, sostenitore di Bin Laden, mi mostrò appena dopo l’11 settembre un pezzo del Muro di Berlino con una dedica della Cia: “È per questo che lei ha combattuto”. Nacque così negli anni ’80 un legame tra Washington e il mondo sunnita più integralista quasi indissolubile.
E invece no. Il quotidiano ufficioso del Partito della nazione e del governo approfitta degli attentati di Bruxelles per diffondere un po’ di anticomunismo: sembrerebbe strano visto che – per dire – quando l’Afghanistan era vicino all’Urss le donne non indossavano il burqa, il paese era laico e il fondamentalismo religioso non esisteva; poi agli Stati Uniti questa cosa non piaceva, il fondamentalismo religioso l’hanno finanziato e stimolato e il resto della storia è cosa nota. Una storia che – scoperchiato il vaso di Pandora – non poteva certo terminare con una stretta di mano e il riconoscimento dato nella lotta contro il comunismo. Quello che ci vuole dire Repubblica è, però, fin troppo chiaro. Del resto, in guerra, il fronte interno – e la sua unità, la sua compattezza, la sua fedeltà – non è meno importante di quello esterno. Nell’Europa del 2016 non si deve neanche prendere in considerazione l’idea di creare una società migliore di quella in cui viviamo. Non dobbiamo essere guidati da nobili ideali, da una prospettiva rivoluzionaria, da una volontà di cambiamento. Dobbiamo solo stringerci ai nostri governi e accettare ogni limitazione alla nostra libertà in nome della sicurezza collettiva. Dobbiamo accettare le loro spiegazioni banalizzanti e riduttive, la criminalizzazione dell’Islam in quanto tale (del resto, nel giorno degli attentati non è stato l’incompreso hastag #stopislam il treding topic più diffuso in tutti i paesi europei su twitter?), le spiegazioni psicologiche e psichiatriche, culturaliste, etniche e razziali (l’invidia, la frustrazione, l’arcaicità dell’Islam, la barbarità degli arabi, le pulsioni sessuali incontrollabili degli orientali e la loro sublimazione terroristica, ecc. ecc.). Dobbiamo rifiutare ogni spiegazione materiale, economica, sociale o politica. Altrimenti? Altrimenti, che uno sia islamico o marxista, che voglia imporre il califfato islamico oppure giungere alla liberazione delle classi oppresse, finirà (anzi, ci è già finito) ugualmente nel campo del nemico. Quello in cui chi ne fa parte – per dirla come Giacalone – deve essere arrestato, condannato o, perché no, ammazzato.

martedì 29 marzo 2016

LE DIFFERENZE TRA IL TAK E IL PKK

L'articolo odierno preso da Infoaut(http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/16788-cos’è-il-tak-e-chi-sono-i-suoi-membri? )cerca di spiegare la differenza che corre tra i movimenti curdi di lotta del Pkk e del Tak soffermandosi proprio su quest'ultima organizzazione che è anche la più giovane essendo stata costituita nel 2004.
Un'iniziale differenza ce la dicono subito le traduzioni degli acronimi dove il Pkk(Partîya Karkerén Kurdistan che è il Partito dei lavoratori del Kurdistan)si differenzia dai membri del Tak(Teyrêbazên Azadiya Kurdistan che sono I falchi della libertà del Kurdistan)in quanto sono un vero e proprio partito politico mentre i falchi sono una milizia di liberazione senza avere un progetto politico futuro.
Il suo scopo è quello di vendicare le provocazioni e le vittime del popolo curdo prendendo di mira istituzioni ed economia turche con azioni mirate anche se nel caso degli attacchi di Ankara ci sono state vittime civili.
Il Tak ritiene le azioni del Pkk,fondato nel 1978,di avere una linea troppo morbida contro la Turchia e che in nessun modo riceve ordini oppure è in contatto con il partito dei lavoratori,e via via leggendo l'articolo ci si rende conto di parlare di due entità diverse e contraddistinte anche se l'obiettivo ultimo è la creazione di uno Stato curdo indipendente.

Cos’è il TAK e chi sono i suoi membri?

E’utile esaminare il TAK, un’organizzazione che ha attirato l’attenzione dopo le sue azioni ad Ankara. In realtà non dovrebbero essere i curdi, ma lo Stato a spiegare il TAK, perché l’esistenza dell’organizzazione è il risultato diretto delle politiche statali. Ma diamo uno sguardo alla struttura generale di questa organizzazione.
Secondo le informazioni ricavate dal loro sito web, i Falchi della libertà del Kurdistan (Teyrêbazên Azadiya Kurdistan-TAK) si sono costituiti nel 2004. Nel sito web il TAK afferma che non ha effettuato nessuna azione nel 2004 e nel 2005 e ha iniziato le sue azioni contro le aree metropolitane turche nel 2006.

Il TAK ha effettuato la sua prima azione il 22 maggio 2007. Güven Akkuş (Erdal Andok) ha fatto l’azione nel bazar di Anafartalar, nel distretto Ulus di Ankara. Akkuş era di Maraş, è cresciuto a Istanbul e si è unito all’organizzazione dall’Europa. Il TAK ha dichiarato che l’obiettivo di Akkuş era Yaşar Büyükanıt, l’ex comandante delle forze armate turche, ma l’azione non ha raggiunto il suo obiettivo.

Ai tempi in cui l’azione è stata effettuata la situazione politica era difficile come oggi e i segnali che il leader del popolo curdo Abdullah Ocalan era stato avvelenato, avevano provocato l’indignazione tra curdi di tutto il mondo.

Sul suo sito web il TAK dice che ha effettuato azioni tra il 2006 e il 2012, ma non ci sono informazioni né dettagli di queste ultime. Nel 2013 e 2014 l’organizzazione non ha effettuato alcuna azione. Ha ripreso le sue azioni il 23 dicembre 2015 a Sabiha Gökçen e più di recente ha effettuato le due azioni di Ankara nel 2016.

Nella sua dichiarazione del 30 dicembre 2015, il TAK ha descritto gli obiettivi, le azioni e le tattiche del PKK e di altre organizzazioni curde come risposte troppo morbide e inefficaci contro la guerra fascista che la repubblica turca sta conducendo contro il popolo curdo’ e ha annunciato l’inizio di un nuovo processo.

Il TAK non ha fatto nessuna azione durante i negoziati di Imrali, ma ha dichiarato che avrebbe iniziato dopo la fine del processo negoziale.

Nella stessa dichiarazione il TAK ha sottolineato che avrebbe vendicato l’oppressione e il massacro della popolazione curda.

Di fatto il TAK si è posizionato come organizzazione per la vendetta. E si è inoltre organizzato per rispondere a tutte le minacce e le pressioni rivolte contro i curdi e il leader del popolo Öcalan.

Dopo le recenti azioni di Ankara molte persone hanno sostenuto che il TAK fosse influenzato dal PKK. Il TAK non è il PKK. Il PKK ha dichiarato più volte di non avere rapporti con il TAK. Il PKK è un movimento con progetti politici, sociali e una prospettiva. E ‘organizzato su diversi aspetti della vita e ha migliaia di guerriglieri. Non è logico per un movimento che ha già strutture militari organizzare un altro gruppo militare. Le loro azioni contro i soldati e le forze militari non seguono le leggi di guerra e i loro attacchi contro i civili sono crimini di guerra. Il PKK ha firmato la Convenzione di Ginevra sulla guerra nel 1994 e ha iniziato delle indagini sui suoi interventi del 1980 che hanno causato vittime civili. Ha criticato questi attacchi e ha condannato l’uccisione e il ferimento di civili, anche se sono stati accidentali.

Il TAK sottolinea che fa le sue azioni contro le istituzioni e l’economia dello stato turco. Ha dichiarato che non prende di mira i civili e ha espresso il proprio dolore per le vittime civili di Ankara.

Dalle recenti dichiarazioni dell’organizzazione si comprende che il TAK considera la lotta del PKK come incompleta e adotta quindi una linea di azione più radicale.

Dalle dichiarazioni del TAK si può vedere che alcuni membri dell’organizzazione in passato erano del PKK. Molti membri del TAK provengono dai gruppi sociali che sono stati creati attraverso la lotta del PKK. Ma il TAK e i giovani intorno ad esso vedono gli sforzi del PKK per una soluzione politica come inadeguati e hanno formato un’ altra organizzazione con lo scopo di aumentare il livello di lotta.
Sostenere che il Tak e il PKK sono la stessa cosa è una forma di propaganda di guerra o ignoranza e perdita di coscienza.

Il PKK potrebbe fermare il TAK se lo volesse?
La risposta a questa domanda è no. Nel suo sito web il TAK afferma che non prende ordini dal PKK e continuerà le sue azioni fino alla liberazione di Ocalan e del popolo curdo.

Questo problema non è semplice, è al di là delle gerarchie e dei rapporti organici. Le dimensioni sociologiche ed emotive di questa questione sono molto più profonde di quello che la maggior parte della gente pensa.

Perché esiste il TAK, quando un’organizzazione radicale come il PKK sta già conducendo una lotta politica, militare e sociale?
Questa è la domanda che deve essere fatta a migliaia di giovani in Kurdistan che credono ad un risultato raggiunto solo attraverso lo scontro con lo Stato turco. Migliaia di persone urlano lo slogan sulla ‘vendetta’ per le strade e invitano il PKK a vendicarsi. Le ragioni del fatto che alcune persone cercano vendetta sono sociologiche. Migliaia di giovani curdi espongono le foto dei militanti del TAK nelle strade in Turchia, a Londra, Berlino, Parigi e Bruxelles.

Migliaia di giovani hanno criticato il PKK per non aver combattuto durante il processo negoziale ad Imrali. In qualsiasi evento che riunisce migliaia di curdi, si vede che molte persone condividono la prospettiva del TAK. Si osservano migliaia di giovani che si esprimono in modo simile.

Quindi è impossibile capire la situazione stando lontano dal Kurdistan e dal popolo curdo. Molti gruppi sensibili alla questione curda non hanno ancora capito la situazione. Non capiscono perché migliaia di giovani potrebbero diventare membri del TAK. Ci si concentra sulla componente politica rispetto a quella sociologica.

Nel suo sito web il TAK non offre nessun progetto politico per il futuro. Visto che ogni azione ha solo delle ragioni e conseguenze politiche, la politica è l’unico modo per fermare il TAK. È necessario rimuovere le condizioni sociali e politiche che portano a queste azioni, questa è stata l’esigenza nel 2013 e 2014. Dopo che lo Stato ha chiuso i colloqui politici e ha ricominciato i massacri, il TAK si è riattivato. La politica impedisce a questa organizzazione di avere un piano sociale.

Dobbiamo esaminare il motivo per cui persone di 20 anni si sacrificano e si organizzano a questo scopo. E’ meglio analizzare il TAK attraverso la sociologia invece che in base a semplici analisi politiche.
Chi sono queste persone?
Sono i conoscenti, vicini di casa e parenti di Taybet İnan, una donna anziana di 60 anni madre di 8 figli, che è stata uccisa e il cui corpo è stato lasciato a marcire per strada dalla polizia a Silopi …
Sono i coetanei, compagni di scuola e colleghi di Hacı Birlik il cui cadavere è stato trascinato dietro un veicolo blindato a Şırnak …

Sono gli amici di Mahsum il cui cadavere è stato portato dai carri armati a Diyarbakır …

Sono le amiche di Ekin Van, il cui corpo è stato esposto dopo la sua esecuzione a Varto …

Sono i conoscenti e amici delle decine di donne e uomini che sono stati bruciati negli scantinati a Şırnak …

Sono i fratelli e le sorelle di centinaia di bambini che sono stati uccisi mentre giocavano,di fronte alle loro case …

Sono i figli di famiglie le cui case sono state distrutte a Sur e i parenti delle persone uccise in strada …

Sono i bambini di strada che vedono queste scritte sui muri ‘Sii orgoglioso se sei un turco, ubbidisci se non lo sei’ …

Riassumendo, qualsiasi giovane curdo si offrono migliaia di motivi per far parte del TAK.

Non è possibile accettare l’uccisione di civili delle azioni del TAK. E ‘diritto criticare e condannare per queste vittime. Bisogna aumentare le critiche e mettere in chiaro che non si può accettare che i civili siano colpiti, in qualsiasi guerra. Tuttavia tutti questi punti non cambiano la realtà del TAK a causa dell’impatto di queste azioni sulle emozioni e i pensieri di migliaia di persone.

Quanti intellettuali turchi che analizzano la questione curda oggi conoscono lo scantinato della ferocia di Cizre, o Taybet İnan, Hacı Birlik, Ekin Van, e la bambina di 3 mesi Miray di Cizre che è stata colpita tra le braccia di suo nonno?

E ‘impossibile per le persone che non hanno alcuna idea di questi avvenimenti comprendere il TAK. Questo è il motivo per cui molti curdi vedono la critica nei confronti del TAK come ripugnante e insincera.

Le azioni del TAK come reazione immediata non produrranno alcun risultato. L’unico modo per fermare questa struttura è fermare l’ oppressione e la negazione del popolo curdo da parte dello Stato. In caso contrario il TAK continuerà le sue azioni e ci saranno anche nuove leve. Alcuni funzionari dell’AKP che criticano il PKK, oggi sono ricordati per aver detto che il PKK sarebbe cresciuto se la questione curda non fosse stata risolta. La situazione è esattamente la stessa per il TAK.

Se migliaia di persone sono pronte a ‘sacrificare la propria vita’ e la maggioranza della società curda non crede in una risoluzione all’interno di ‘confini turchi,’ è il momento di riesaminare completamente la situazione. Concentrandosi sui risultati delle azioni è più semplice fare delle valutazioni.

di Amed Dicle

lunedì 28 marzo 2016

ALTRO ORRORE MADE IN ISRAHELL

Il doppio contributo preso da Infopal(http://www.infopal.it/?p=82985 e http://www.infopal.it/?p=82972 )parlano di Israele e Palestina e spesso i notiziari in questo ultimo periodo indaffarati per i fatti legati al terrorismo dimenticano di ricordarci che l'orrore e la persecuzione israeliana continuano.
Infatti il primo articolo parla dell'esecuzione di due presunti accoltellatori di soldati di Israele avvenuti ad un check point a Hebron,uno ammazzato sul colpo e l'altro finito dopo diversi minuti che era steso a terra inoffensivo da parte di un militare(aveva detto"questo cane è ancora vivo")con immagini riprese dall'organizzazione pacifista B'tselem(vedi:http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/israeliano_spara_palestinese_ferito_arrestato_netanyahu-1631993.html ).
La seconda parte parla dell'approvazione da parte del Knesset,il parlamento israeliano,di una legge sulla deportazione delle famiglie dei Palestinesi uccisi dalle forze israeliane e accusati di aver eseguito attacchi con una larga maggioranza.

ONU: L’esecuzione di un ferito palestinese da parte di Israele è raccapricciante e ingiusta.

Betelemme-Ma'an.Un funzionario delle Nazioni Unite venerdì ha condannato con la massima fermezza la brutale “esecuzione extra-giudiziaria” di un ferito palestinese da parte di un soldato israeliano, catturata da una macchina fotografica a Hebron il giorno prima.
Il Coordinatore speciale per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov,  ha affermato di aver duramente condannato l’apparente “esecuzione extragiudiziale” del Palestinese, che è stato colpito alla testa a bruciapelo nonostante si trovasse a terra, dove giaceva ferito da diversi minuti, dopo il presunto accoltellamento di un soldato israeliano.
“Questo è stato un atto raccapricciante, immorale e ingiusto che può solo alimentare più violenza e degenerare una situazione già instabile”, ha detto Mladenov.
Ha accolto con favore la condanna dell’esecuzione da parte del ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon, e ha invitato le autorità israeliane a “assicurare rapidamente alla giustizia”, ​​il soldato israeliano responsabile.
Il funzionario delle Nazioni Unite ha continuato: “E’ il momento di fermare la spirale negativa della violenza e iniziare passi positivi verso la fine dell’occupazione e portare la pace attesa da tempo e la sicurezza ai popoli di Israele e Palestina”.
Israele è stato ripetutamente accusato da gruppi per i diritti umani, leader internazionali e funzionari palestinesi di attuare una politica di “esecuzioni extragiudiziarie” contro i Palestinesi da quando un’ondata di disordini ha invaso i Territori Palestinesi Occupati e Israele lo scorso ottobre.
Tuttavia, l’eccezionale filmato dell’incidente di giovedì – ripreso da un membro del personale del gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem – ha raccolto condanne da parte della leadership israeliana e ha portato l’esercito di Israele a incarcerare il soldato responsabile e ad avviare un’indagine.
I residenti palestinesi di Hebron, Abed al-Fattah Yusri al-Sharif e Ramzi Aziz al-Qasrawi, entrambi di 21 anni, sono stati colpiti giovedì dopo un presunto accoltellamento e il lieve ferimento di un soldato israeliano nei pressi di un check-point militare nella Città Vecchia di Hebron.
Al-Qasrawi è stato ucciso sul colpo, mentre il filmato ha mostrato al-Sharif disteso a terra per diversi minuti – che muoveva leggermente la testa, ma che non presentava nessuna minaccia – prima che un soldato israeliano gli si avvicinasse e gli sparasse alla testa.
Il soldato ha dichiarato di aver ucciso al-Sharif per paura che l’uomo bloccato stesse per farsi esplodere, secondo i media israeliani.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato in risposta al comportamento del soldato che non rappresenta i valori dell’esercito israeliano, che a suo dire “si aspetta che i suoi soldati si comportino in modo equilibrato e in conformità con le regole di combattimento”.
Il ministro della Difesa Yaalon da parte sua ha dichiarato: “Anche se siamo costretti a combattere i nostri nemici e a superarli in battaglia, siamo anche obbligati a rispettare la nostra morale. Essere umani”.
Le dichiarazioni giungono nonostante il fatto che entrambi i politici siano stati accusati dai Palestinesi e da gruppi per i diritti umani di istigazione contro i Palestinesi e di sostenere la politica di “sparare per uccidere” i Palestinesi che compiono attentati.
Il membro palestinese della Knesset, Ayman Odeh, ha dichiarato: “Israele è diventato un luogo dove le esecuzioni pubbliche sono effettuate con le acclamazioni della folla, il prezzo della sicurezza e il deterioramento morale viene pagato da entrambi i popoli”.
Il parlamentare ha chiesto che Netanyahu sia giudicato con il soldato responsabile per l’esecuzione di giovedì, insieme ad altri funzionari israeliani responsabili di istigazione contro i Palestinesi.
Traduzione di Edy Meroli

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Il parlamento israeliano approva legge per la deportazione delle famiglie dei Palestinesi coinvolti in attacchi.

Mercoledì 23 marzo, il Knesset, parlamento israeliano, ha approvato una legge sulla deportazione delle famiglie dei Palestinesi uccisi dalle forze israeliane e accusati di aver eseguito attacchi. .
La legge, proposta dal ministro dei Trasporti israeliano, Israel Katz, e sottoposta al Knesset dal deputato David Bitanem, è stata sostenuta da rappresentanti del Likud, della Casa Ebraica e da altri partiti, compreso Yish Atid.
Il consiglio legale di Israele aveva inizialmente rifiutato la legge, dicendo che “deportare a Gaza o in Siria le famiglie degli autori degli attacchi potrebbe portare all’isolamento globale di Israele”, ma Katz ha proposto un’altra legge che chiede il trasferimento delle famiglie in Cisgiordania e inserisce ulteriori restrizioni ai loro movimenti.
Parlando al Channel 7, Katz ha affermato: “La legge ha ottenuto ampio appoggio da parte della coalizione al governo e dell’opposizione. Invieremo la legge per l’approvazione finale, la settimana prossima. Il terrorismo diminuirà appena sarà approvata. Tale legge non è un’alternativa all’esercito, allo Shabak, alla polizia e alle attività di sicurezza. E’ invece una misura complementare di controllo dei minori”.

domenica 27 marzo 2016

I FIANCHEGGIATORI DELL'ISIS

Nemmeno qualche giorno fa avevo paragonato la recrudescenza del fascismo e del nazismo in Europa con il terrorismo dei miliziani dell'Isis ed oggi ho avuto la conferma dopo aver visto l'attacco di qualche centinaia di ratti neri belgi che hanno osato affrontare qualche famiglia,con presenza numerosa di bambini,che erano presenti a commemorare le vittime degli attacchi avvenuti a Bruxelles in settimana(http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2016/03/confusioni-ed-orgasmi-giornalistici.html ).
Tanta gente era riunita presso la Piazza della Borsa della capitale belga dopo l'annullamento della marcia contro la paura per motivi di sicurezza,e l'invasione di questi che sono pari pari agli attentatori che hanno e stanno sconvolgendo tutto il mondo con le loro stragi,è stata respinta dalla polizia che già era stata avvisata dell'arrivo di queste merde che avevano preso un treno in una zona delle Fiandre.
Appartenenti a gruppi ultras di estrema destra hanno creato tensione e qualche scontro nel luogo che i belgi hanno contraddistinto come centro della commemorazione delle vittime e di fatto hanno contribuito al lavoro dei kamikaze finendone il loro intento svergognando ed inficiando la silenziosa commemorazione della maggioranza della gente.
Così come a Bruxelles anche in tutta Europa e in Italia troppa gente confonde l'Islam con il terrorismo e anche a Crema durante l'ultimo consiglio comunale si è visto come la destra e altri movimenti come quello pentastellato approvano di fatto il ritorno di un fascismo e di un nazismo nonostante a volte tentino di far vedere l'opposto.
Infatti la mozione presentata che aveva per oggetto i "provvedimenti da attuare contro ogni forma di fascismo e di neofascismo e contro ogni manifestazione di discriminazione della persona" è stata approvata solo grazie al voto della maggioranza mentre la minoranza di destra colpevolmente assente ed i due rappresentanti del Movimento 5 stelle presenti che si sono astenuti dal voto hanno espresso il loro tacito assenso a questi gruppi di pseudo umani che senza ombra di dubbio apportano il loro voto a queste schiere.

DOPO GLI ATTENTATI
 
Bruxelles, tensione tra polizia e tifosi 13 blitz anti-terrorismo, 4 arrestati
Un gruppo di circa 450 tifosi di calcio di estrema destra si è radunato a Place de la Bourse nonostante il divieto delle autorità alla «Marcia contro la paura».
 
di Elisabetta Rosaspina, inviata a Bruxelles  
 
In quattrocento o pochi in più hanno preso il treno da Vilvoorde, nelle Fiandre, diretti alla capitale per dimostrare di non aver paura del terrore, ma soprattutto di poter far paura. Più che gli islamici o gli invisi immigrati, però, sono riusciti soltanto a spaventare le pacifiche famigliole che stavano raccogliendo in piazza della Borsa, a Bruxelles, davanti all’altare di fiori, omaggio alle vittime dei due attentati compiuto all’aeroporto e in metropolitana martedì scorso. Il gruppone di hooligans, formato per lo più da tifosi di calcio ammantati di ideologia di estrema destra, si sono materializzati, tutti vestiti di nero e in molti casi, con i volti coperti da passamontagna a pochi passi dalla scalinata della Borsa, facendo il saluto romano e gridando «Hooligans belgi, qui siamo a casa nostra» o «L’Isis e lo Stato sono complici». Dall’altra parte della barricata, qualche cittadino ha urlato in risposta: «No all’odio!».

Tensioni al centro di Bruxelles.

La polizia, che controlla in permanenza la piazza da sei giorni, era preparata e li aspettava schierata ai varchi: i colleghi di Vilvoorde avevano avvisato dei movimenti degli estremisti e li avevano addirittura scortati in treno, perché il sindaco della cittadina fiamminga aveva pensato che ostacolare la loro partenza avrebbe potuto provocare scontri. Le tensioni si sono così spostate nel centro di Bruxelles, dove – paradossalmente - una manifestazione civica organizzata per oggi era stata fatta annullare dalle autorità per ragioni di sicurezza. Vista l’aria che tirava, i passanti sono stati allontanati, l’accesso alla piazza è stato chiuso e anche i fast food e le birrerie di fronte alla Borsa hanno sprangato i battenti, anche se soltanto per una manciata di minuti, mentre le forze dell’ordine sono ricorsi agli idranti per respingere e disperdere gli hooligans. Senza riuscire a impedire però atti di vandalismo nelle strade laterali.
 
Dopo un’ora la calma.
 
Dopo un’ora, la calma è tornata, assieme ai visitatori, ai bambini, ai ragazzi con le bandiere di vari paesi, mediorientali ed europei, o con i gessetti per scrivere i loro pensieri. Ma nelle alte sfere politiche è scoppiata la bagarre perché è stato consentita la provocazione in pieno centro di Bruxelles, proprio nel luogo deputato al lutto nazionale.

Le reazioni.

Il borgomastro della capitale, Yan Mayeur, si è detto «scandalizzato», pretendendo una reazione immediata del governo federale, colpevole di non aver impedito l’arrivo degli estremisti. La condanna del primo ministro Charles Michel è arrivata poco dopo, ma comunque un po’ in ritardo: «Invito tutti a mantenere il sangue freddo – ha detto il capo di governo – e a lasciare fare il proprio lavoro alla polizia». Che ha fatto una decina di arresti.

Blitz, quattro arrestati.

Nel frattempo la polizia ha arrestato 4 degli 8 sospetti al momento ricercati al termine di 13 raid effettuati nella notte. Lo ha reso noto la procura federale di Bruxelles che coordina le indagini sugli attentati di martedì scorso. Le perquisizioni sono avvenute a Bruxelles e nelle città di Duffel e Mechelen a nord: «In tutto nove persone sono state interrogate e cinque di loro sono state più tardi rilasciate», ha riferito la procura.

PP O PSOE PER I BASCHI LA TORTURA E LA REPRESSIONE SONO GARANTITE

 
Sono passati ben due anni e mezzo da quando il tribunale europeo per i diritti dell'uomo di Strasburgo aveva condannato la Spagna per la dottrina Parot(http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2013/10/dottrina-parotnograzielo-dice-leuropa.html )e per i numerosi casi di tortura compiuti ai danni dei prigionieri politici baschi.
L'articolo preso da Infoaut(http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/16783-tortura-nei-paesi-baschi-dopo-franco-nulla-è-cambiato )parla effettivamente di oltre 5 mila casi denunciati di abusi e torture fisiche e psicologiche dal dopo guerra e solo dopo il 2000 sono state 832:solo 62 hanno avuto un seguito giudiziario con le condanne degli aguzzini ma di questi 36 hanno beneficiato di indulti.
Elargiti da governi di destra e di sinistra(PP e Psoe)che riguardo alla lotta contro l'autodeterminazione di Euskal Herria hanno sempre fatto fronte comune con risultati di repressione e di ingiustizia che si possono vedere alla luce del sole.

Tortura nei Paesi Baschi, dopo Franco nulla è cambiato.

Nei commissariati e nelle carceri spagnole e basche si tortura. Non è una notizia, ma a ribadirlo ancora una volta è un dossier realizzato dall’associazione storica basca Euskal Memoria Fundazioa che ha focalizzato il suo studio sulla tortura ai danni di cittadini baschi.
Il dossier si riferisce sia a casi avvenuti in epoca franchista, sia in epoca democratica e parla di 5022 cittadini baschi torturati dal 1947 fino al 2014, anno in cui si ferma lo studio. Il dossier di Euskal Memoria è ben circostanziato e nel sito internet dell’associazione è facilmente reperibile l’elenco dei nomi degli oltre 5000 che sotto dichiarazione giurata hanno denunciato di aver subito vessazioni, poi verificate una per una.

I maltrattamenti sono sia fisici che psicologici. Sacchetti di plastica in testa, detenuti tenuti in piedi a gambe divaricate per venti ore consecutive, la costrizione a continui esercizi fisici, l’imposizione della corrente elettrica alle mani e pure ai genitali. Oltre a botte, minacce, prevaricazioni psicologiche di ogni tipo. E non mancano neppure le odiose condotte tenute dai Guardia Civil o dalla Policia Nacional nei confronti delle donne: obbligate a spogliarsi, palpeggiate, minacciate di violenza. Ci sono anche dei casi di violenza sessuale tra le testimonianze raccolte. Dei 5022 casi di tortura riportati dal report, ben 798 riguardano donne.

«Si tratta di un numero parziale» – sottolineano in un comunicato i ricercatori di Euskal Memoria – «Resta ancora molto lavoro da fare». In effetti è intuibile esserci una quantità indefinita di persone che per paura non hanno formulato alcuna accusa, ed inoltre per quanto riguarda il periodo franchista vi è difficoltà a reperire testimonianze ormai molto indietro nel tempo e spesso insabbiate dalle autorità. E’ certo anche che alcuni episodi di torture e pestaggi sono culminati con la morte in carcere.

Negli anni del regime di Franco accadeva che la gente sparisse nel nulla da un momento all’altro: alcune persone non sono mai più state ritrovate. Un fenomeno, quello dei desaparecidos, che si evidenzierà in maniera ben più sistematica nell’Argentina di Videla. Ma se si pensa che nella civile e democratica Spagna entrata nel terzo millennio la tortura sia un ricordo del passato ci si sbaglia di grosso. Dal 2000 le denunce di tortura di cittadini baschi riportate da Euskal Memoria sono ben 823: in buona parte si tratta di etarras, o di militanti della cosiddetta izquierda abertzale. «C’è una zona grigia in cui i casi di tortura sono più frequenti» racconta uno degli avvocati che assiste diverse famiglie di prigionieri politici. «Nello spazio di tempo immediatamente successivo all’arresto, accade che ai fermati venga impedito di comunicare con i familiari e pure con il loro avvocato, e vengono sottoposti ad interrogatori senza alcuna garanzia». E in quella zona grigia, in quei commissariati, si cerca di estorcere informazioni con la tortura.

Quanto accade nelle carceri e nei commissariati spagnoli – nonostante le minimizzazioni dei governi succedutisi a Madrid – è cosa nota da tempo anche all’opinione pubblica. Pure a quella internazionale. Nel 2004 il relatore speciale dell’ONU per i diritti umani affermò che non si poteva ritenere sporadica la pratica della tortura in Spagna e disse che le denunce presentate erano ben circostanziate e credibili. La stessa Amnesty International ha condannato più volte la monarchia iberica per la sua politica carceraria, e a fine 2013 la Corte Europea di Strasburgo condannò la Spagna per la cosiddetta “dottrina Parot”, che prolungava arbitrariamente la durata della detenzione oltre la condanna già emessa. Ma è anche la cosiddetta “politica della dispersione” a far gridare alla vergogna, con detenuti reclusi a centinaia e migliaia di km da casa per limitare i contatti coi familiari.

Lo studio di Euskal Memoria sottolinea anche il carattere di impunità di cui paiono godere le autorità. In tanti anni infatti i condannati sono solo 62, di questi 36 si sono avvalsi di indulti ed amnistie promossi dai vari governi di PP e PSOE. Nessuno di loro oggi si trova in carcere. Le cose, nella Spagna ancora in cerca di un governo dopo le elezioni di dicembre, paiono ben lontane dal mutare. Del resto il primo passo per risolvere un problema sarebbe quello di riconoscere di avere un problema. E la corona spagnola pare ben lontana dal compiere questo primo passo.

da PopOff

sabato 26 marzo 2016

FUSIONI DI BANCHE

Due articoli oggi presi da Contropiano(http://contropiano.org/news/news-economia/2016/03/24/verona-milano-finisce-lera-delle-banche-popolari-077054 )e Crema online(http://www.cremaonline.it/economia/06-10-2015_Mondo+del+credito+verso+la+rivoluzione/ )che cercano di spiegare le ultime fusioni bancarie e la trasformazione delle banche popolar in Spa.
Il primo parla a livello nazionale ed europeo del matrimonio tra la Banca Popolare di Verona e quella di Milano in ottica di risanamento spinto dal governo Renzi che in fatto di istituti di credito e relativi scandali ha già dato molto.
Una fusione per tagliare posti in un tempo di crisi ed un nuovo modo di vivere le banche e soprattutto in piccole realtà(cui fa riferimento il secondo contributo)con i crediti cooperativi che verranno trasformati e non si sanno ancora gli impatti.
Da ogni testa un voto a chi ha più azioni più conta in un mondo fatto di piccole imprese artigiane ed industriali che possono subire qualche cambiamento ed il peggio è sempre dietro l'angolo visto che i segnali non sono ancora stati confortanti.
Vedi anche l'articolo sulle fusioni editoriali:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2016/03/tempi-di-fusioni-editoriali.html .

Verona-Milano, finisce l’era delle banche popolari.



mpo di crisi, tempo di fusioni societarie. La regola è ferrea e non conosce eccezioni, neanche e soprattutto per le banche. Specie per quelle italiane, in genere piccoli nani a confronto con la potenza di fuoco delle ammiraglie europee.
Ma la fusione tra il Banco Popolare di Verona e l’analoga versione di Milano (Bpm) segna qualcosa di più del momento di crisi. È infatti in atto un ridisegno complessivo del sistema bancario italia per input dell’Unione Europea e con la collaborazione “atipica” del governo Renzi. Atipica perché favorisce il processo di concentrazione, il superamento del modello delle “popolari” e delle “cooperative”, come nella richiesta della governance finanziaria continentale. Ma lo fa proteggendo quegli istituti che sono vicini a gruppi di potere ben rappresentati nel governo (il Gruppo Cabel, che raccoglie 9 Bcc tra Toscana e alto Lazio, la più grande delle quali è quella di Cambiano, sarebbe escluso dalla legge di “riforma” del credito cooperativo).
Zone protette a parte, comunque, il processo di concentrazione procede spedito. La fusione tra Popolare Verona e Bpm va a creare, per dimensioni, il terzo gruppo italiano, alle spalle di IntesaSanPaolo e Unicredit, scavalcando decisamente la periclitante Montepaschi. Come riferiscono le cronache, una capitalizzazione complessiva da 5,5 miliardi di euro, attivi per oltre 170 miliardi di euro, 2.500 sportelli con circa 25mila dipendenti, 4 milioni di clienti.
Il primo passo, come sempre in questi casi, sarà la rapida realizzazione delle “sinergie”, calcolate in 365 miliardi. Di che si tratta? Di risparmi, ossia di tagli al numero degli sportelli aperti e dunque del personale.
Ma l’aspetto principale sarà la perdita dello statuto da “banche popolari”, dunque il legame storico con il territorio e con l’ambiguo rapporto tra proprietà e clienti “speciali”, come si è visto in particolar modo con Banca Etruria (che pure non era una “popolare”). Il modello spa è quello voluto “dall’Europa” e così si fa. Il via libera emanato ieri dalla Vigilianza della Bce – che ha preteso numerose correzioni allo schema di fusione proposti dai cda dei due istituti, peraltro sorvegliati da vicino da advisor come Citi, Mediobanca, Merrill Lynch, Lazard – ha aperto la procedura operativa, con la riunione contemporanea, stamattina, dei due cda avviati alle nozze.
Anche per i cda si annuncia una sostanziale sforbiciata al numero delle poltrone (ironizzando, qualcuno scrive che sarebbero ora sufficienti per organizzare un “quadrangolare di calcio”…), ma non c’è certamente bisogno di commuoversi per quanti andranno a cercarsi un’altra poltrona con ricche buonuscite in tasca.
In linea teorica, il “rapporto con il territorio” dovrebbe esser mantenuto, anche perché la presenza delle due banche è alta soprattutto nel lombardo-veneto, anche se gli uomini della Lega più vicini (come il sindaco di Verona, Tosi) hanno da tempo sciolto i vincoli con i Neanderthal del Carroccio attuale. Ma è chiaro che una spa obbedisce a un altro imperativo – quello della “valorizzazione” – piuttosto che alla “vecchia” logica del supporto del credito alla crescita. Fatte le dovute operazioni, prese le opportune misure sull’efficienza della banca, insomma, il management potrebbe benissimo fare scelte totalmente estranee alla funzione “territoriale”. Se n’era del resto avuto un esempio con la serie di fusioni che hanno fatto di Unicredit e Intesa due colossi, a un certo punto più orientati a posizionarsi efficacemente sul mercato europeo che non a difendere l’insediamento territoriale (per fare un esempio: Intesa ha incorporato, tra le altre, anche la Cassa di risparmio delle Province Lombarde, l’ex Cariplo).
Dunque questa fusione, così come la “riforma” del credito cooperativo punta alla formazione di colossi che abbiano la forza di “competere” sul mercato europeo. E se i “territori” non sono più abbastanza appetibili, problema loro…

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Mondo del credito verso la rivoluzione. Dal risanamento delle banche alla trasformazione delle Popolari in Spa.

Rivoluzione nel mondo del credito: dal 1° gennaio del 2016 entrerà in vigore in Italia una norma europea secondo la quale a pagare le crisi delle banche non saranno più gli Stati ma gli azionisti, obbligazionisti e correntisti. Secondo il segretario della Libera associazione artigiani di Crema Giuseppe Zucchetti “la questione è talmente importante che il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha raccomandato alle banche di “informare la clientela del fatto che potrebbero dover contribuire al risanamento di una banca”.

Popolari in spa
“Altra importante questione riguarda la trasformazione delle Popolari in Spa. Significa che queste banche diventeranno scalabili e quindi il socio di una popolare può trovarsi, senza volerlo, azionista di un'altra banca, anche estera. Tutto questo avrà un forte impatto anche sul mondo artigianale, che ha bisogno del sistema bancario per finanziamenti legati a investimenti e liquidità”.

Convegno
Di tutto questo e di quanto sta accadendo, la Libera Artigiani di Crema e Mediolanum hanno discusso nel convegno di ieri nell'aula magna dell'Università di Crema, con un relatore d'eccezione, il professore Carlo Alberto Carnevale Maffè, professore di strategia politica e aziendale, dipartimento di Management, dell'a Bocconi di Milano.

venerdì 25 marzo 2016

JOHAN CRUIJFF CAMPIONE DENTRO E FUORI IL CAMPO DI CALCIO

Come nella foto,come un Gesù sceso dalla croce per andare a giocare a pallone all'infinito,con la consapevolezza che ha sempre contraddistinto il suo ideale di gioco che aveva da ragazzino,quello di divertirsi,Johan Cruijff è morto e con lui un calcio che sta perdendo sempre più campioni di un tempo che non tornerà mai più.
Quello delle partite tutte alla domenica alle tre del pomeriggio,del novantesimo minuto,dei tamburi e dei fumogeni negli stadi,soppiantati da una logica capitalistica di arricchimento che sta smantellando tutto un mondo creato dalla gente per la gente.
Perché i giocatori vanno e vengono così come pure i tifosi,ma la maglia resta per sempre,come quella dell'Olanda piuttosto che quella dell'Ajax o del Barcellona,quelle più importanti che hanno segnato la carriera professionale del poeta del calcio.
Il numero 14 ha sempre identificato Cruijff(a Barcellona col 9 l'aveva sotto la maglia ufficiale)e pur non avendolo mai visto giocare dal vivo i video l'hanno fatto apprezzare anche alle generazioni più giovani:quando "giocavo" a calcio avevo quasi sempre la maglia numero quattordici perché ero sempre in panchina ma un mio allenatore mi disse che avevo un qualcosa che gli ricordava il Pelè bianco,limitato solo all'interno del centro del centrocampo ovvio.
Gli articoli presi da Senza Soste(http://www.senzasoste.it/calcio/johan-cruijff-morte-di-un-poeta )e successivamente da Radio Onda d'Urto(http://www.radiondadurto.org/2016/03/25/johan-cruyff-tra-calcio-e-politica-il-ritratto-di-un-simbolo-del-calcio-totale/ )dribblano tra il calcio totale e i numeri impressionanti di presenze e di gol,da partite storiche a sconfitte a testa altissima,tra un idea di squadra in campo che ricalcava quella che aveva nella vita.
Perché Cruijff non aveva giocato al pari del collega della Germania Ovest Paul Breitner(http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2015/12/paul-il-rosso-breitner.html )i campionati mondiali di calcio in Argentina nel 1978 per protesta contro la dittatura di Videla,e da giocatore ai tempi del Barcellona sposò totalmente la causa catalana e dimostrò più volte l'assoluta contrarietà a Franco e al franchismo.
Insomma uomo e campione vero fuori e dentro al campo.
 
Johan Cruijff, morte di un poeta
Mario Di Vito - tratto da http://contropiano.org

Johan Cruijff è morto all’età di 68 anni, a Barcellona, dopo che lo scorso ottobre gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni. Poeta, calciatore, allenatore: in quest’ordine. Il suo nome è legato all’Ajax, al Barcellona, alla Catalogna e, soprattutto, alla grande Olanda del mondiale del 1974: secondo posto e invenzione del calcio totale, cioè di quella particolare variante del gioco del pallone in cui tutti fanno tutto, e lo fanno molto bene. Un’orchestra jazz in cui ognuno è un solista che suona da dio, ma che solo insieme agli altri compone la perfezione. L’Arancia Meccanica, il soprannome giornalistico coniato all’epoca sull’onda del successo del film di Kubrick.
Affrontare l’Olanda era come andare incontro a un incubo, per gli avversari. Per la cronaca, nel 1974 in Germania Ovest, i tulipani si arresero solo ai padroni di casa, rimontati dopo che il gol del vantaggio era arrivato in appena 120 secondi dalla battuta del calcio d’inizio. Succede. I tedeschi pure avevano uno squadrone, e gli olandesi non hanno la fama di quelli belli e incompiuti per caso. Più drammatiche le vicende del 1978, in Argentina, in un mondiale vinto più dal generale Videla che da Mario Kempes e compagni. Cruijff non c’era: dopo aver guidato la sua nazionale durante le qualificazioni decise di non imbarcarsi per il Sud America, non si è mai capito se per motivi politici o personali.
Uno sguardo ai numeri, giusto un attimo perché non bisogna distrarsi dalla poesia: in carriera Cruijff ha giocato 716 partite ufficiali segnando 402 reti. «Profeta del gol» come da documentario diretto da Sandro Ciotti o «Pelè bianco» secondo l’opinione di Gianni Brera. Ok, Johan era tutto questo, ma anche qualcosa di più. La perfezione stilistica, il distillato di pura tecnica, fiato e potenza, attaccante, centrocampista, rifinitore, fantasista, genio. Dove lo mettevi, stava. Se uno non si innamora del calcio guardando Cruijff, non è proprio interessato alla materia. Il numero 14 sulle spalle, un planetoide che porta il suo nome (il numero 14.282, per gli appassionati), Cavaliere della Casa d’Orange, membro onorario della Reale Federazione Calcistica dei Paesi Bassi, allenatore della Catalogna per un paio di partite. La leggenda è nel dettaglio, anche se la grandezza di Johan Cruijff è assai più della somma delle sue partite e dei suoi gol. Bisogna andare a guardarselo su Youtube: è un’esperienza estetica, non un giocatore di pallone.
Basette da rockstar, temperamento da divo del cinema, carattere spigoloso e polemista nato. Cruijff è il simbolo di una generazione di sognatori per necessità più che per scelta. Come diceva Galeano: ogni passo che fai verso l’utopia, questa si allontana di un altro passo e non la raggiungerai mai, ma almeno ti servirà per camminare in avanti. La sconfitta dell’Olanda nel 1974 è il simbolo di tutto questo: perdere a testa altissima dopo aver dato lezioni al mondo intero.
Il tipo, poi, era anche consapevole di tutto questo. E non deve essere stata una cosa facile avere a che fare con lui su un campo da calcio. Un aneddoto che è tutto un dire: il vigoroso ex attaccante argentino Jorge Valdano racconta di una volta in cui, quando lui era giovanissimo e Cruijff già era Cruijff, verso la metà del secondo tempo di una partita Johan si mise a protestare con l’arbitro per un fallo senza importanza. Valdano si avvicinò per dirgli di smetterla e che, insomma, sarebbe stato meglio ricominciare a giocare. L’olandese a quel punto lo guardò, gli chiese quanti anni avesse e poi gli diede uno schiaffo: «Ragazzo, a ventuno anni a Cruijff si dà del lei». Come dargli torto?
24 marzo 2016

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JOHAN CRUYFF: TRA CALCIO E POLITICA, IL RITRATTO DI UN SIMBOLO DEL CALCIO “TOTALE”.

Tra mito e realtà, tra politica e calcio giocato, la vita di Johan Cruyff è stata un unicum.
Importante per i cambiamenti, culturali e politici, di un paese intero.
Spentosi a 68 anni, il 24 marzo del 2016, merita un ricordo.
Il mito vuole che la maglia numero 14 portata sulla schiena fosse uno dei modi possibili di rifiutare le regole che il rettangolo di gioco imponeva. Regole di gioco e sociali. Probabilmente il numero 14 è capitato per caso. Johan, e mezza nazionale olandese, sembravano degli hippie: capelli lunghi, sigarette, e sesso anche in ritiro. Tre coppe campioni consecuitive vinte con l’Ajax. Il trasferimento al Barcellona. I litigi con la federazione olandese sul pagamento delle presenze in nazionale. Il rifiuto di partecipare ai mondiali del ’78 nell’ di Videla.
Johan Cruyff è figlio di un calcio ancora popolare, lontano dal business sfrenato, dalle pay tv, dagli sponsor milionari, dagli interminabili talk-show televisi. Quel calcio è finito tempo fa.
Cruyff arrogante e di sinistra. Simbolo dell’Olonda che cambiava. Simbolo dell’Olanda “socialista” del calcio totale, del rifiuto dei ruoli, del mutualismo in campo e della centralità del collettivo sulle individualità.
Il mito di Cruyff è stato certamente condito e legittimato dalle vittorie in campo. Ma quel che resta è la bellezza del suo calcio, nella rivoluzione stilistica del gioco, nelle immagini di una delle più divertenti nazionali di calcio mai viste in un rettagolo verde, e nella lotta misurata, continua ed esplicita al franchismo, la solidarietà con la lotta catalana, il rifiuto delle dittature. Il nome di suo figlio, Jordi, è il riuassunto dello Johan senza palla tra i piedi.
Assieme a Luca , giornalista de Il Fatto Quotidiano e autore dell’articolo “Morto lo Spinoza del calcio. Dove tutto era e doveva essere gioia”, dipingiamo il ritratto di Cruyff.

giovedì 24 marzo 2016

IL GOLPE MILITARE IN ARGENTINA DEL 1976

Oggi sono passati quarant'anni dal più triste e sanguinoso colpo di Stato in Argentina che ha segnato sette anni di dittatura e molti altri di quello che giustamente dice il titolo del contributo preso da Senza Soste(http://www.senzasoste.it/anniversari/neoliberismo-a-mano-armata-40-anni-fa-il-colpo-di-stato-in-argentina )che parla di neoliberismo a mano armata.
Dopo un periodo di stallo dalla morte di Perón la giunta golpista che prese il potere e che era formata da Videla,Massera e Agosti(vedi anche:http://mascheraaztecaeildottornebbia.blogspot.it/2013/05/una-morte-giusta.html )e poi ha avuto ai propri vertici decine di altri militari,si instaurò un clima di terrore con fucilazioni e rappresaglie ed il progetto chiamato "Processo di riorganizzazione nazionale" era niente meno che la soluzione finale in salsa sudamericana di quella voluta da Hitler decenni prima.
Infatti almeno trentamila desaparecidos,persone he sparirono nel nulla o per la precisione vennero gettate in mare o seppellite in posti segreti per non destare sospetti in quanto se non c'erano i cadaveri con c'erano nemmeno i loro aguzzini e assassini.
L'articolo prosegue con il raffronto con le altre dittature sudamericane,l'interesse e la complicità degli Stati Uniti e la grave crisi sociale e umanitaria che l'Argentina subì in quagli anni non solo dal punto di vista della cessazione delle libertà individuali ma anche di gravi epidemie e mortalità a tassi enormi cui la nazione non era abituata.

Neoliberismo a mano armata: 40 anni fa il colpo di Stato in Argentina.

L’incubo iniziò con una voce gracchiante che nelle prime ore del 24 marzo del 1976 lesse alla radio un breve comunicato: “Si comunica alla popolazione che a partire da oggi il paese si trova sotto il controllo operativo della Giunta militare. Si raccomanda a tutti gli abitanti il più assoluto rispetto alle disposizioni e direttive che vengano emanate da autorità militari, di sicurezza o di polizia, così come la massima attenzione nell’evitare atteggiamenti individuali o di gruppo che possano rendere necessario il drastico intervento del personale in servizio”.
In Argentina era il sesto colpo di Stato in meno di cinquant’anni, quindi niente di nuovo. E niente di inatteso: tutti ormai da tempo sapevano che i militari avrebbero preso ancora una volta il potere abbattendo il corrotto governo di Isabelita Martínez, la vedova di Juan Domingo Perón, morto nel luglio del 1974. Isabelita ormai era solo un pupazzo nelle mani di José López Rega, detto el brujo (lo stregone), tessera P2 n. 591, fondatore della Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina), gli squadroni della morte che già da anni seminavano il terrore. La giunta golpista era formata dal generale dell’Esercito Jorge Videla, dall’ammiraglio Eduardo Massera, tessera P2 n. 1755, per la Marina, e dal brigadiere generale Orlando Agosti dell’Aviazione.
Il cono sud del continente americano era ormai interamente sotto il tallone delle dittature militari, dal Brasile alla Bolivia, dal Paraguay al Cile, dall’Uruguay all’Argentina. Dittature che condividevano il famigerato piano Condor, elaborato e coordinato dai servizi segreti statunitensi secondo la dottrina della sicurezza nazionale: c’era una guerra e il nemico da annientare non era un esercito straniero ma la “sovversione interna”. Questa dottrina in Argentina era stata inaugurata dieci anni prima da un altro generale golpista, Juan Carlos Onganía. Ma stavolta si passò alla “soluzione finale”: 30mila desaparecidos e un’intera generazione spazzata via. Lo chiamarono “Processo di riorganizzazione nazionale”. In Cile, tre anni prima, il colpo di Stato di Pinochet aveva spettacolarizzato la violenza e la repressione. Il mondo era inorridito di fronte alle immagini del palazzo presidenziale bombardato dai golpisti, degli oppositori rinchiusi negli stadi e delle retate nelle strade. I generali argentini avevano imparato la lezione: tutto doveva svolgersi in un’atmosfera di apparente tranquillità. “Non si poteva fucilare. Mettiamo un numero, mettiamo 5mila. La società argentina non avrebbe sopportato le fucilazioni: ieri due a Buenos Aires, oggi sei a Córdoba, domani quattro a Rosario, e così via fino a 5mila. Non c’era altro modo. Tutti eravamo d’accordo su questo. E chi non era d’accordo se ne andò. Far sapere dov’erano i resti? Ma che cosa potevamo dire? In mare, nel Rio de la Plata, in un fiume? Si pensò, a suo tempo, di rendere pubbliche le liste. Ma dopo si disse: se si danno per morti, di seguito arriveranno domande a cui non si può rispondere: chi ha ucciso, dove, come”, ammetterà molti anni dopo il generale Videla.    
Il terrorismo di Stato aveva l’obiettivo di rendere possibile, “sulla punta delle baionette” la prima applicazione pratica delle teorie neoliberiste. “I risultati di questa politica - scriverà nel 1977 il giornalista Rodolfo Walsh - sono stati fulminanti: in questo primo anno di governo il consumo di alimenti è diminuito del 40%, quello di vestiario di più del 50%, e quello di medicine è praticamente scomparso nelle fasce popolari. E ci sono zone della Grande Buenos Aires dove la mortalità infantile supera il 30%, cifra che ci mette alla pari con la Rhodesia, il Dahomey o le Guayane, malattie come la diarrea estiva, le parassitosi e perfino la rabbia per le quali le cifre schizzano verso record mondiali o li superano. Come se fossero obiettivi desiderati e ricercati, avete ridotto il bilancio della sanità pubblica a meno di un terzo delle spese militari, sopprimendo perfino gli ospedali gratuiti, mentre centinaia di medici, professionisti e tecnici si aggiungono all’esodo provocato dal terrore, dai bassi salari e dalla ‘razionalizzazione’”. La dittatura terminò nel 1983 ma in Argentina ci sarebbero voluti ancora quasi vent’anni per sbarazzarsi della follia neoliberista. Altrove, invece, questa follia continua.
Nell'immagine: foto di desaparecidos di fronte all'Esma, uno dei centri di tortura e sterminio della giunta militare argentina.
Nello Gradirà
Pubblicato sul numero 113 (marzo 2016) dell'edizione cartacea di Senza Soste

mercoledì 23 marzo 2016

IL COMBATTENTE

Non è un caso che il secondo post di oggi racconti la storia di un giovane italiano che ha combattuto l'Isis a Kobane,Karim Franceschi,marchigiano di Senigallia con la madre del Marocco scoperto da me durante una trasmissione televisiva(intervistato da Magalli che pochi giorni prima aveva fatto lo stesso con la sorella di Stefano Cucchi,Ilaria).
L'articolo di Repubblica(http://www.repubblica.it/cultura/2016/01/08/news/saviano_foreign_fighter_libro_tonacci-130812959/ )oltre che offrire un estratto del libro"Il combattente"che lo stesso Franceschi ha scritto sul suo viaggio che per ora ha fatto aprire un fascicolo della procura antiterrorismo sul suo conto,parla di un ragazzo che ha sentito il bisogno di prendere e partire quasi senza sapere se alla fine sarebbe mai arrivato nelle zone di guerra siriane.
Mai usato un'arma e senza sapere il curdo ha comunque contribuito alla liberazione di Kobane in cui si parla di foreign fighters solo per quelli che aderiscono alle forze del Daesh,mentre tanti occidentali o comunque giovani di qualunque credo vanno in Donbass o in Siria per combattere nazisti ucraini o miliziani Isis del califfato,che reputo sullo stesso livello d'indecenza.

Karim Franceschi, il partigiano italiano della brigata anti-Is racconta la sua storia.

Nome di battaglia Marcello, è l’unico italiano ad aver partecipato alla liberazione di Kobane. Arrivato al fronte come semplice soldato si è trasformato presto in abile cecchino. Ora in un libro spiega cosa l'ha portato in Siria.
 


Karim Franceschi, nato nel 1989 a Senigallia da padre italiano e madre marocchina, nel gennaio 2015 decide di raggiungere Kobane e unirsi alle milizie curde che contrastano l’avanzata dell’Is in Siria. Nel libro di Karim Franceschi che esce oggi, "Il combattente", il giovane militante ripercorre la sua storia.

La storia di Karim Franceschi è una storia che sembra arrivare da lontanissimo. Un giovane che vede un popolo violato da una forza feroce e oscurantista e non vuole essere solo un osservatore. Non ha alcuna qualifica militare, ma parte lo stesso. Vuole combattere. Non sa sparare, non conosce il curdo, l'inglese gli è inutile. Non ha idea di cosa farà: ma vuole andare. Essere giovani e trovare disgustosa l'immobilità, codardo il continuare a vivere comodamente la propria vita mentre non molto lontano avvengono scempi e barbarie: l'odore di questa storia è identico a quello che assapori in decine di libri di giovani volontari che si scelgono una causa e vanno a combattere. Sento l'odore di Omaggio alla Catalogna, quando Orwell racconta di come raggiunse la Spagna nel '36 per combattere con i miliziani trotzkisti del fronte repubblicano.

"Avevo un po' di spirito di avventura, questo credo sia naturale  -  dice Karim  -  ma non ho fatto per quello la scelta di andare a combattere. La vera motivazione era partecipare alla resistenza di Kobane che stava per crollare: l'ho visto con i miei occhi". Gli parlo via Skype mentre è in Iraq. È calmo, ha molto più controllo di quello che ti immagini possa avere un ragazzo di 26 anni sbattuto da mesi su un fronte di guerra. Karim si è fatto l'addestramento assieme a gruppi di ragazzine di sedici anni. È diventato un cecchino, un soldato dell'Ypg, la milizia curda di Kobane. Nome di battaglia: Marcello.

Ma come hanno fatto i curdi a fidarsi di un ragazzo di Senigallia? È figlio di mamma marocchina e padre partigiano, ma non è questo che li ha convinti. "Si sono fidati perché non era la prima volta che andavo in quelle zone, e sanno che militavo nei centri sociali". Karim si accorge che la risposta mi sorprende e mi fa una battuta: "quando hai scritto che ti lamentavi che alla manifestazione di Napoli c'erano le solite vecchie facce del radicalismo non hai visto la mia che era nuova invece!". Mi fa sorridere, ha un candore da ragazzino ma una determinazione molto matura. Non sta giocando alla guerra, è un soldato consapevole di ogni singolo passaggio di questa sua nuova vita: "Potevo combattere con l'Fsa (Free Syrian Army) ma ho scelto l'Ypg, le Unità di protezione del popolo. Perché ha i valori della Costituzione italiana, ha ideali di giustizia in cui mi riconosco, combatto con i compagni che difendono la democrazia, il secolarismo, il femminismo. Con l'Is alle porte si sono organizzati non solo per difendersi ma anche per costruire una società diversa". Gli chiedo: "Con i curdi dell'Ypg sei quindi in totale accordo?". "Devi dire solo Ypg, non chiamarli curdi", mi risponde. "Non sono nazionalisti, non vogliono uno Stato curdo, lottano, lottiamo per un confederalismo democratico. Puntiamo alle autonomie regionali, alla democrazia diretta popolare basata su comitati di villaggi, comitati delle donne". Insomma siamo di fronte ad un'organizzazione più vicina allo zapatismo che al Pkk (di cui l'Ypg è comunque alleato).

Le domande che ronzano in testa a chiunque incontra sono due: "Perché lo fai?". La risposta sembra quella di un ragazzo del secolo scorso: "Non per soldi, sia chiaro: vado e torno a mie spese, non prendo una lira. No, lo faccio per ideologia: i valori socialisti sono i miei valori, io sono comunista. Mio padre ha fatto la resistenza" (infatti il padre, come Karim ha raccontato in un'intervista a Fabio Tonacci su Repubblica, era stato un partigiano). Ma come può un ragazzo italiano che aveva sparato solo nei videogiochi, la cui vita non era stata traumatizzata da attentati, guerre, vendette, divenire un soldato in un realtà totalmente diversa dalla sua? Come può uccidere? Cosa prova? Questa è l'altra domanda che Karim si aspetta sempre. Ha imparato a rispondere con una citazione: "Quando un nazista finisce nel mio mirino so che non ucciderà il ragazzino che ho visto sul ponte stamattina".
Estratto dal libro:

Marcello...".
Mi sveglio con una scossa. E automaticamente guardo l'orologio, come faccio sempre quando un compagno mi avverte che è venuto il momento del mio turno. Le tre e cinque minuti. Ne mancano venticinque al cambio, e già questo mi irrita. Mi giro di scatto verso Hawer con l'intenzione di protestare per la sveglia anticipata, ma il suo volto pallido come uno straccio mi blocca. Col dito davanti al naso mi fa segno di non fiatare.
"Daesh..." sussurra con un filo di voce.

Afferro il Kalashnikov e mi metto a guardare con lui dalla finestrella della trincea. Ha smesso di nevicare, e una luna non ancora piena fa capolino tra le nuvole basse e grigiastre, rischiarando il paesaggio imbiancato. Non vedo niente. Però, nel silenzio ovattato della valle, sentiamo distintamente un rumore provenire da dietro il dosso innevato. Forse il motore di un veicolo, o comunque qualcosa di meccanico. Nell'altra trincea, nessuno si muove.

Allungo un braccio e raccolgo un sassolino. Lo tiro verso la buca di Ali e Delsoz, mancando però il bersaglio. Provo ancora, e stavolta li colpisco. Così anche loro si accorgono che qualcosa non va. Ali solleva il telo e striscia in avanti, senza fucile, fino a un punto da cui riesce a vedere cosa c'è dietro il dosso. Steso sulla neve, si ferma un secondo a osservare, poi indietreggia al doppio della velocità, strisciando come un serpente e spostando con le mani la neve in modo da coprire la traccia lasciata dal suo corpo.

Cosa cazzo sta succedendo? Hawer mi fissa, ammutolito. Ali non ci ha fatto alcun cenno, prima di rintanarsi nella sua buca. Basta, ho bisogno di sapere. Da qui al punto dov'è arrivato Ali saranno trenta metri, una sessantina di passi al massimo. Alzo il telo e sguscio fuori, camminando basso ma senza strisciare, perché non mi voglio bagnare più di quanto non lo sia già. Nascosto dietro un masso, osservo. A non più di centocinquanta metri dalle nostre piccole trincee, scorgo una ventina di miliziani di Daesh, un carrarmato T-72 e un Hummer, con i fanali accesi e un enorme mitragliatore montato sopra. Ne ho già visto uno uguale, una volta: Giano allora mi spiegò che spara proiettili in grado di sbriciolare le pietre e trapassare i sacchi di sabbia. Il comitato di accoglienza del califfo al-Baghdadi sta venendo verso di noi, eppure io resto calmo, irragionevolmente calmo. Torno indietro con lentezza, prendendomi il tempo per coprire le impronte lasciate dai miei scarponi sulla neve fresca. Entro nella buca con un mezzo sorriso stampato in faccia, guardo negli occhi il mio compagno. Glielo dico in curdo che sta per morire, così che non ci siano fraintendimenti.

Em sahiden, heval Hawer...
Nella sua lingua, em sahiden significa "siamo martiri". Se quelli si accorgono della nostra presenza non abbiamo scampo. Non è nemmeno il numero dei miliziani, venti o giù di lì, a rendere assurda qualsiasi ipotesi di scontro a fuoco. È il tank a chiudere la questione. Per non parlare poi di quel mitragliatore montato sull'Hummer: basterebbe da solo a farci fuori tutti. Mentre cerco di spiegare a gesti cosa c'è dall'altra parte del dosso, vengo colto da un attacco di ridarella isterica. Eh, cazzo, ho scelto proprio la notte sbagliata per lasciare il Pkm all'accampamento. Hawer mi fissa con un'espressione tra il terrorizzato e il rassegnato, fatica anche a deglutire la saliva. La fuga non è nemmeno immaginabile, perché per scappare dovremmo correre per un bel pezzo in campo aperto, davanti a loro; a quel punto basterebbe una sventagliata di mitragliatore per ammazzarci tutti e quattro. Dunque facciamo l'unica cosa che resta da fare: il tentativo della disperazione. Raccogliamo quanta più neve possibile e la spargiamo sopra il telo e nella buca, per mimetizzarla al meglio. Usiamo anche qualche sasso, così da confonderla ancora di più con il resto del paesaggio. Poi ci infiliamo dentro, senza lasciare nessuno spiraglio. Siamo completamente al buio, sotterrati tra mucchi umidi di neve e pietre. Sono steso supino accanto al mio Kalashnikov e al compagno Hawer. Entrambi sappiamo bene cosa dobbiamo fare, non c'è bisogno di dircelo. Con la mano sinistra sfilo dal gilet tattico una granata e me la appoggio sul petto, stringendola con forza. Faccio passare il dito medio della mano destra nell'anello metallico che ferma l'innesco della bomba, e lì mi blocco. L'ultima immagine che vedrà chi alzerà questo telo sarà Karim Franceschi che gli mostra il medio, un attimo prima di esplodere.

Si stanno avvicinando, lo sento. Il rumore dei cingoli del carrarmato si è fatto più forte, e mi pare persino di avvertirne la vibrazione nel terreno. In fondo lo sapevo che sarebbe andata a finire così, in quest'impresa disperata. Lo sapevo. Il cuore martella dentro al petto; delle vampate mi partono dalle spalle e dal collo in tensione, ma non riescono a scaldarmi veramente, e la sensazione è più quella di essere intrappolato in una cella frigorifera. Ho paura, come non ne ho mai avuta in vita mia. Ho sempre immaginato la mia morte attraverso gli occhi di quelli che amo di più e anche adesso, con la mente, torno nella casa di Senigallia. Immagino il volto affranto di mia madre, che piange disperata. Il suo dolore è come una lama che si pianta lentamente nel mio cuore. Il pensiero corre a Leila, mentre sento la fine avvicinarsi. Alle sue labbra piene, ai suoi occhi di giada, alla promessa di ritornare in Italia che non manterrò. Passano i secondi, non riesco a staccarmi dal ricordo della donna che amo. Non voglio morire prima di averla rivista un'ultima volta...

Eccoli, sono vicinissimi. A trenta o quaranta metri da noi, non di più. Il rumore del motore diesel del tank sovrasta le voci dei miliziani. Trattengo il respiro e percepisco che anche Hawer sta facendo lo stesso. Il collo e la mascella sono contratti da far male. Fuori la colonna si è fermata, il carrarmato non avanza più. È finita. Ne sono sicuro: qualcuno ci ha scoperti e, per come si sono messe le cose, mi pare anche l'unico destino possibile. È inevitabile, è ormai solo una questione di secondi. Tirerò l'anello, sì. Non mi farò prendere prigioniero da questi invasati, per finire tagliato a pezzi e trasformato in un mucchio di arti con la mia testa in cima, come è capitato agli sfortunati compagni che ho visto a Kobane.

Se è scritto che stanotte devo morire, morirò da partigiano, come avrebbe fatto mio padre Primo: con orgoglio, portandomi qualcuno dei nemici con me. Con il pollice della mano sinistra sfioro la tasca della giacca, a tastare il mio talismano. Stringo la bomba ancor più forte, e faccio una leggera pressione sull'anello; la spoletta si sposta di qualche millimetro. Strizzo gli occhi, in preda all'angoscia. Ho perso la cognizione del tempo. Papà, mamma... datemi il coraggio di farlo. Vi voglio bene.

Due ruggiti consecutivi del motore del T-72, seguiti dallo stridio di ingranaggi meccanici che riprendono a girare, mi fanno spalancare gli occhi. Il cingolato si muove, spero seguito dall'Hummer e dal gruppo dei miliziani. Resto immobile, concentrando tutta la mia capacità di percezione nelle orecchie. Non ci penso proprio a dare una sbirciatina fuori dal telo, non ho nessuna intenzione di provocare la fortuna. Sì, se ne stanno andando! Però si stanno spostando in direzione del nostro accampamento e, se Ali non è riuscito a dare l'allarme via radio, Zardesh e gli altri del tabur rischiano grosso.

Un secondo dopo l'altro sento la speranza rinascermi dentro, anche se non siamo ancora fuori pericolo: mi pare che la colonna si sia fermata di nuovo. Un caccia militare passa sopra di noi. Potrebbe essere un raid notturno, visto che i piloti degli aerei possono sfruttare sensori termici con i quali colpire anche nell'oscurità, quando dal comando hanno l'ok a volare e le condizioni meteo non sono del tutto proibitive. Passano i minuti, il rombo del jet va e viene, ora sembra vicinissimo ora lontano chilometri, ma non si sentono né esplosioni né sparatorie. Controllo l'orologio: le quattro in punto. Non è passata neanche un'ora, eppure mi sembra una settimana fa. Dobbiamo decidere cosa fare. I jihadisti sono ancora nelle vicinanze, sicuro, e se usciamo ora rischiamo di essere scoperti. Magari sono appostati proprio qui di fronte, in una trincea tipo la nostra, pronti a falciarci con i loro Ak-47 appena mettiamo il naso fuori. Non ci resta che aspettare ancora.